Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - 15

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vestimento (è il lembo la estrema parte del vestimento, dalla parte
inferiore), «e gridò», questo cotal che mi prese, dicendo: _-«Qual
maraviglia?»—(_supple_), è questa che io ti veggio qui.
«Ed io, quando ’l suo braccio a me distese», prendendomi, «Gli occhi
ficcai», cioè fiso mirai, «per lo cotto aspetto», cioè abrusciato
dall’incendio, il quale continuamente cadea; «Si» gli occhi ficcai,
«che’l viso abrusciato», e però alquanto trasformato, «non difese»,
cioè non tolse, «La conoscenza sua», cioè di lui, «al mio intelletto;
E», perciò, «chinando la mano alla sua faccia, Rispuosi:—Siete voi
qui, ser Brunetto?»-quasi parlando _admirative_. «E quegli» (_supple_)
pregò dicendo:—«O figliuol mio, non ti dispiaccia», non ti sia grave,
«Ser Brunetto Latino un poco teco», cioè d’aver me alquanto teco.
Questo ser Brunetto Latino fu fiorentino, e fu assai valente uomo in
alcune delle liberali arti e in filosofia, ma la sua principal facultá
fu notaria, nella quale fu eccellente molto: e fece di sé e di questa
sua facultá si grande stima, che, avendo, in un contratto fatto per
lui, errato, e per quello essendo stato accusato di falsitá, volle
avanti esser condannato per falsario che egli volesse confessare
d’avere errato; e poi, per isdegno partitosi di Firenze, e quivi
lasciato in memoria di sé un libro da lui composto, chiamato _Il
tesoretto_, se n’andò a Parigi, e quivi dimorò lungo tempo, e composevi
un libro, il quale è in volgar francesco, nel quale esso tratta di
molte materie spettanti alle liberali arti e alla filosofia morale
e naturale, e alla metafisica, il quale egli chiamò _Il tesoro_; e
ultimamente credo si morisse a Parigi. E, percioché mostra l’autore il
conoscesse per peccatore contro a natura, in questa parte il discrive,
dove gli altri pone che contro a natura bestialmente adoperarono.
Séguita adunque il priego suo, il quale ancora nelle parole superiori
non era compiuto, e dice: «Ritorna indietro»; eragli per avventura
alquanto innanzi l’autore, e perciò il priega che ritorni; «e lascia
andar la traccia»,—di queste anime, le quali tutte ti riguardano,
le qual forse l’autore con piú studioso passo seguiva per conoscerne
alcuna, e per domandare degli altri che a quella pena eran dannati.
«Io dissi lui:—Quanto posso ven preco», che noi siamo alquanto
insieme; «E se volete che con voi m’asseggia», cioè ristea, «Faròl, se
piace a costui», cioè a Virgilio, «ché va seco», come con mia guida e
maestro.
—«O figliuol—disse» ser Brunetto—«qual di questa greggia», cioè di
questa brigata, «S’arresta punto, giace poi cent’anni Senza arrostarsi,
quando» (_supple_) avviene che «il foca il feggia», cioè il ferisca.
«Però va’ oltre: io ti verrò a’ panni», cioè appresso, «E poi», che io
avrò alquanto ragionato teco, «raggiugnerò la mia masnada», cioè questa
brigata, con la quale al presente sono, e «Che va piangendo i suoi
eterni danni»,—cioè il suo perpetuo tormento.
«Io non osava scender della strada», cioè dell’argine, «Per andar par
di lui»; e la ragione era, perché egli si sarebbe cotto, se al pari di
lui fosse disceso; «ma ’l capo chino Tenea», verso di lui, «com’», il
tiene, «uom che riverente vada», appresso ad alcuno venerabile uomo.
«El cominciò:—Qual fortuna o destino»; vogliono alcuni che «destino»
sia alcuna cosa previsa e inevitabile; «Anzi l’ultimo di», cioè anzi
la morte, «quaggiú ti mena?» in inferno tra noi, «E chi è questi che
mostra ’l cammino?»—
Alla qual domanda l’autor risponde:—«Lassú di sopra in la vita
serena»,—cioè nel mondo, il quale è chiaro, per rispetto a questo
luogo, «Rispuos’io lui,—mi smarri’ in una valle».
Di questa valle è assai detto davanti nel primo canto del presente
libro, e perciò qui non bisogna di replicare. E qui notantemente dice
«mi smarri’», non dice mi «perde’», per darne a sentire che le cose
perdute non si ritruovan mai, ma le smarrite si, quantunque simili
sieno alle perdute, tanto quanto a ritrovar si penano: e cosí coloro,
li quali hanno perduta la diritta via per malizia o per dannazion
perpetua, mai piú in quella non rientrano; coloro, che l’hanno smarrita
per li peccati commessi, avendo spazio di potersi pêentere e ravvedere,
la posson ritrovare e rientrare in quella e procedere avanti al
disiderato termine. E, percioché di questi cotali era l’autore, che non
era perduto ma smarrito nella selva, come di sopra è detto, dice «mi
smarrí’ in una valle».
E dice che vi si smarrí: «Avanti che l’etá mia fosse piena».
Mostrato è stato, nel primo canto di questo libro, gli anni degli
uomini stendersi infino al settantesimo, e che infino al trentesimo
quinto continuamente, o alla statura dell’uomo, o alle forze corporali
s’aggiugne, e perciò in quello tempo si dice essere l’etá dell’uomo
«piena». Dice adunque l’autore che esso, avanti che egli a questa etá
pervenisse, si smarrí in quella valle: il che assai ben si comprende
nel predetto canto, percioché ivi mostra che, essendo alla etá piena
pervenuto, si ravvedesse d’avere smarrita la via diritta e ritornasse
in quella.
«Pur iermattina le volsi le spalle», partendomi d’essa: e qui dimostra
esser giá stato un dí naturale in questo suo pellegrinaggio.
«Questi», del quale voi mi domandate chi egli è, «m’apparve,
ritornando», io, «in quella», valle, si come uomo spaventato dalle
tre bestie che davanti mi s’erano parate, «E riducemi a ca’», cioè a
casa; e ottimamente dice «e riducemi a casa», per farne vedere qual
sia la nostra casa, la quale è quella donde noi siamo cittadini, e
noi siamo tutti cittadini del cielo, percioché in quello l’anime
nostre, per le quali noi siamo uomini, come altra volta è stato detto,
furon create in cielo, e però, mentre in questa vita stiamo, ci
siamo si come pellegrini e forestieri: e Virgilio, cioè la ragione,
è quella la quale, quando noi seguiamo i suoi consigli, ne rimena,
mostrandoci il cammino della veritá, alla nostra original casa. «Per
questo calle»,—cioè per questa via, la quale, come piú volte è stato
mostrato, è quella che ne fa i nostri errori conoscere e conduceci alla
chiarezza della veritá.
«Ed egli a me:—Se tu segui tua stella». Tocca in queste parole
l’autore l’opinione degli astrologhi, li quali sogliono talvolta nella
nativitá d’alcuni fare certe loro elevazioni, e per quelle vedere
qual sia la disposizion del cielo in quel punto che colui nasce, per
cui fanno la elevazione. E tra l’altre cose che essi piú puntalmente
riguardano, è l’ascendente, cioè il grado, il quale nella nativitá
predetta sale sopra l’orizzonte orientale della regione; e, avuto
questo grado, considerano qual de’ sette pianeti è piú potente in
esso; e quello che truovano essere di piú potenzia in quello, quel
dicono essere signore dell’ascendente e significatore della nativitá. E
secondo la natura di quel pianeto, e la disposizion buona e malvagia,
la quale allora v’ha nel cielo per congiunzioni o per aspetti o per
luogo, giudicano della vita futura di colui, per cui la elevazione è
stata fatta. E però vuol qui l’autore mostrare che la sua stella, cioè
il pianeto, il quale fu significatore della sua nativitá, fosse tale e
si disposta, che essa avesse a significar di lui mirabili e gloriose
cose, si come eccellenzia di scienza e di fama e benivolenza di signori
e altre simili. E però séguita ser Brunetto, e dice: se tu séguiti gli
effetti della tua stella, cioè quello adoperando che essa mostra che tu
déi adoperare, senza storti da ciò per caso che t’avvegna, tu «Non puoi
fallire al glorioso porto», cioè di pervenire in gloriosa fama. Il che
assai bene gli è avvenuto, percioché non solamente nella nostra cittá,
ma per gran parte del mondo, e nel cospetto di molti eccellenti uomini
e grandissimi prencipi, per questo suo libro egli è in maravigliosa
grazia e in fama quasi inestinguibile. E questo dice ser Brunetto
dovergli avvenire: «Se ben m’accorsi nella vita bella», cioè nella
presente.
E puossi per queste parole comprendere ser Brunetto voler dimostrare
che esso fosse astrolago, e per quell’arte comprendesse ne’ corpi
superiori ciò che egli al presente gli dice; o potrebbesi dire ser
Brunetto, si come uomo accorto, aver compreso in questa vita gli
costumi e gli studi dell’autore esser tali, che di lui si dovesse
quello sperare che esso gli dice; percioché, quando un valente uomo
vede un giovane continuar le scuole, perseverar negli studi, usare con
gli uomini scienziati, assai leggiermente puote estimare lui dover
divenire eccellente in iscienzia. Ma che questo gli venga dalle stelle,
quantunque Iddio abbia lor data assai di potenzia, nol credo; anzi
credo venga da grazia di Dio, il quale esso di sua propria liberalitá
concede a coloro, li quali, faticando e studiando, se ne fanno degni.
«E s’io non fossi si per tempo», cioè cosí tosto, «morto», cioè di
quella vita passato a questa, «Veggendo il cielo a te cosí benigno»,
intorno alle cose pertinenti alla scienza e alla fama, alla quale
per la scienza si perviene. «Dato t’avrei all’opera conforto»,
sollecitandoti e dimostrandoti di quelle cose, le quali tu ancora per
te non potevi cognoscere.
E, poi che ser Brunetto gli ha detto questo, accioché il conforti al
ben perseverare nel bene adoperare, ed egli si deduce a dimostrargli
quello che la fortuna gli apparecchia, cioè il suo esilio; e accioché
esso con minor noia ascolti quello che dir gli dee; gli premette la
cagione, mostrando quella essere tale, che la ’ngiuria della fortuna,
la quale gli s’apparecchia, non gli avverá per suo difetto, come a
molti avviene, ma per difetto di coloro li quali gliele faranno. E
dice: «Ma quello ’ngrato popolo e maligno», il quale è oggi divenuto
fiorentino; e chiamalo «ingrato», per certe operazioni precedenti, da
esso fatte verso coloro li quali l’avevano servito e onorato, e quasi
trattolo di servitudine e di miseria; e percioché il popolo, secondo
il romano costume, è universalmente tutta la cittadinanza di qualunque
cittá, accioché di tutti i fiorentini non s’intenda esser questa
infamia d’ingratitudine, distingue, dicendo sé dire di quel popolo
maligno, «Che discese di Fiesole ab antico».
Fiesole, secondo che alcuni vogliono, è antichissima cittá, e quella
dicono essere stata edificata da non so quale Atalante de’ discendenti
di Iafet, figliuol di Noé, prima che altra cittá d’Europa: la qual
cosa creder non posso che vera sia; nondimeno chi che si fosse
l’edificatore, o quando, ella fu, secondo cittá mediterranea, assai
notabile. E, secondo che questi medesimi dicono, avendo seguita la
parte di Catellina, quando congiurò contro alla salute publica di Roma,
fu per li romani disfatta, e parte de’ suoi cittadini ne vennero ad
abitare in Firenze, la quale per li romani in quegli medesimi tempi
si fece e fu abitata di romani: e cosí fu abitata primieramente di
questi due popoli, cioè di romani e di fiesolani. Poi vogliono che,
in processo di tempo, Firenze fosse disfatta da Attila flagello, e
la detta cittá di Fiesole reedificata, e cosí quegli fiesolani, che
in Firenze abitavano, essersi tornati ad abitare nell’antica lor
cittá. Poi susseguentemente, essendo imperadore Carlo magno, affermano
Firenze essere stata contro al piacere de’ fiesolani reedificata, e
abitata di romani e di quelle reliquie che per la contrada si trovarono
de’ discendenti di coloro, li quali, quando da Attila fu disfatta,
l’abitavano.
Appresso dicono essere state lunghe guerre e dannose tra’ fiesolani
e’ fiorentini, le quali all’una parte e all’altra rincrescendo,
vennero a lunghissime triegue, e, come finivano, le rinnovavano, e
sicuramente usavano l’uno nella cittá dell’altro. Sotto la qual sicurtá
i fiorentini, non guardandosi di ció i fiesolani, occuparono e presono
Fiesole, fuori che la ròcca; e, patteggiati si i fiesolani con loro di
dovere abitare in Firenze, e di due popoli divenire uno, fu Fiesole
disfatta al tempo del primo Arrigo imperadore; e i fiesolani tornati in
Firenze, di due segni comuni fecero uno, il quale ancora in Firenze si
tiene in un gran gonfalone bianco e vermiglio; e insieme raccomunarono
gli ufici publici, e con parentadi e con usanze, quanto poterono,
insieme s’unirono. Nondimeno mostra qui l’autore, quella acerbezza
antica e nimichevole animo esser sempre perseverata di discendente in
discendente de’ fiesolani, e ancora stare; e per questo dice che quel
popolo fiesolano, che in Firenze venne ad abitare. «E tiene ancor del
monte e del macigno»: «del monte», in quanto rustico e salvatico, e
«del macigno», in quanto duro e non pieghevole ad alcuno liberale e
civil costume. E, dice, questo cotal popolo disceso di Fiesole, «Ti
si fará, per tuo ben far, nemico», si come quello al quale è in odio
la vertú e l’operazioni degne di laude; e, di questo fartisi nimico,
seguirá che tu sarai cacciato di Firenze. «Ed è cagion», che tu da lor
sia cacciato, per ciò «che tra li lazzi sorbi, Si disconvien», cioè
non è convenevole, «fruttar», cioè fruttificare, «lo dolce fico». Vuol
sotto questa metafora l’autore intendere non esser convenevole che tra
uomini rozzi, duri, ingrati e di malvagia condizione, abiti e viva un
uom valoroso, di gentile animo e di grande eccellenzia.
[Lez. LVII]
Poi segue: «Vecchia fama nel mondo gli chiama orbi», cioè ciechi.
Della qual fama si dice esser cagione questo: che, andando i pisani
al conquisto dell’isola di Maiolica, la quale tenevano i saracini, e
a ciò andando con grandissimo navilio, e per questo lasciando la lor
cittá quasi vòta d’abitanti, non parendo loro ben fatto, pensarono
di lasciare la guardia di quella al comun di Firenze, del quale essi
erano a que’ tempi amicissimi. E, di ciò richiestolo, e ottenuto
quello che disideravano, promisono, dove vittoriosi tornassero, di
partire col detto comune la preda che dell’acquisto recassono. E,
avendo i fiorentini con grandissima onestá servata la cittá, e i pisani
tornando vincitori, ne recarono due colonne di porfido vermiglio
bellissimo, e porti, di tempio o della cittá che fossero, di legno,
ma nobilissimamente lavorate: e di queste fecero due parti, che
posero dall’una parte le porti e dall’altra le due colonne coperte di
scarlatto, e diedero le prese a’ fiorentini, li quali, senza troppo
avanti guardare, presono le colonne. Le quali venutene in Firenze, e
spogliate di quella veste scarlatta, si trovarono essere rotte, come
oggi le veggiamo davanti alla porta di San Giovanni. Or voglion dire
alcuni che i pisani, essendo certi che i fiorentini prenderebbono le
colonne, accioché essi non avesser netto cosí fatto guiderdone, quelle
abbronzarono, e in quello abbronzare, quelle esser cosí scoppiate,
e, accioché i fiorentini di ciò non s’ accorgessono, le vestirono di
scarlatto: e perciò, per questo poco accorgimento de’ fiorentini, esser
loro stato allora imposto questo sopranome, cioè ciechi, il quale mai
poi non ci cadde. Ma, quanto è a me, non va all’animo questa essere
stata la cagione, né quale altra si sia potuta essere non so. Seguono,
appresso, troppo piú disonesti cognomi: e volesse Iddio che non si
verificassero ne’ nostri costumi, piú che si verifichi il sopradetto!
Dice adunque: «Gente avara, invidiosa e superba». I fiorentini essere
avarissimi appare ne’ lor processi. E, se ad altro non apparisse,
appare al male osservare delle nostre leggi, le quali, ancora che
con difficultá alcuna se ne ottenga, guardando ciascuno che il suo
consentimento ha a prestare a confermazion di quella, non al comun
bene, ma alla sua particularitá; se pur si ferma, adoperando la
innata cupiditá, della quale tutti siam fieramente maculati, per li
componitor medesimi di quella, con astuzie diaboliche, si truova via e
modo che il suo valore diventa vano e frivolo, salvo se in alcuni men
possenti non si stendesse. Appresso, ne’ publici offici si fa prima
la ragion del guadagno che seguir ne dee a chi il prende, che della
onorevole e leale esecuzion di quello. Lascio stare le rivenderie,
le baratterie, le simonie e l’altre disonestá moventi da quella; e,
perché troppo sarebbe lungo il ragionamento, dell’usure, delle falsitá,
de’ tradimenti e di simili cose mi piace lasciare stare. Sono, oltre
a ciò, i fiorentini oltre ad ogni altra nazione invidiosi. Il che si
comprende ne’ nostri aspetti turbati, cambiati e dispettosi, come o
veggiamo o udiamo che alcuno abbia alcun bene; e per contrario nella
dissoluta letizia e festa, la qual facciamo sentendo alcuno aver avuta
la mala ventura o essere per averla. Parsi ne’ nostri ragionamenti,
ne’ quali noi biasimiamo, danniamo e vituperiamo i costumi e l’opere
laudevoli di qualunque buono uomo, raccontiamo i vitupèri e le vergogne
e’ danni di ciascheduno; parsi nelle operazioni, nelle quali noi siamo,
troppo piú che nelle parole, nocevoli. Che piú? Superbissimi uomini
siamo, in ogni cosa ci pare esser degni di dovere avanti ad ogni altro
esser preposti, facendo di noi maravigliose stime, non credendo che
alcuno altro vaglia, sappia o possa, se non noi. Andiamo con la testa
levata, nel parlare altieri e presuntuosi nelle ’mprese, e tanto di noi
medesimi ingannati, che sofferir non possiamo né pari né compagnone;
teneri piú che ’l vetro, per ogni piccola cosa ci turbiamo e divegnam
furiosi, e in tanta insania divegnamo, che noi ardiamo di preporre le
nostre forze a Dio, di bestemmiarlo e d’avvilirlo. De’ quali vizi, esso
permettendolo, non che da lui, ma bene spesso da molto men possente che
non siam noi, ci troviamo sgannati.
Poi segue ser Brunetto ammaestrandolo, e dice: «Da’ lor costumi fa’
che tu ti forbi», cioè ti servi immaculato. «La tua fortuna», cioè il
celeste corso, «tanto ben ti serba», in laudevole fama, in sufficienza,
in amicizie di grandi uomini. «Che l’una parte e l’altra», cioè i
fiesolani e’ fiorentini, «avranno fame Di te», cioè disiderio, poi che
cacciato t’avranno: «ma lungi fia dal becco l’erba», cioè l’effetto
dal disiderio, percioché essi non ti riavranno mai. «Faccian le bestie
fiesolane», cioè gli stolti uomini fiesolani, «strame Di lor medesme»,
cioè rodan se medesimi con li loro malvagi pensieri e con le lor
malvagie operazioni, «e non tocchin la pianta», per roderla, «S’alcuna
surge ancor nellor letame», cioè nel luogo della loro abitazione, la
qual somiglia al letame, percioché di sopra l’ ha chiamate bestie; «In
cui riviva», cioè per buone operazioni risurga, «la sementa santa, Di
que’ roman che vi rimaser»; volendo qui mostrare li romani, li quali
vennero ad abitar Firenze, essere stati quali furon quegli antichi, per
le cui giuste e laudevoli opere si ampliò e magnificò il romano imperio
(ma in ciò non sono io con l’autore d’una medesima opinione, percioché
infino a’ tempi de’ primi imperadori era Roma ripiena della feccia
di tutto il mondo, ed era dagl’imperadori preposta a’ nobili uomini
antichi, giá divenuti cattivi): «quando fu Fatto il nido di malizia
tanta»; e chiama qui Fiorenza «il nido di malizia tanta», e questo
non indecentemente, avendo riguardo a’ vizi de’ quali ne mostra esser
maculati.
—«Se fosse tutto pieno il mio dimando—Rispos’io lui,—voi non
sareste ancora. Dell’umana natura», la quale per eterna legge ciò che
nasce fa morire, «posto in bando», cioè di quella vita cacciato, anzi
sareste ancora vivo; e quinci gli dice la cagion perché esso questo
dimanderebbe, perciò «Che in la mente m’è fitta», cioè con fermezza
posta, «ed or m’accora», cioè mi va al cuore, «La cara buona imagine
paterna, Di voi», verso di me, «quando nel mondo», vivendo voi, «ad ora
ad ora. Mi mostravate come l’uom s’eterna», per lo bene e valorosamente
adoperare. E cosí mostra l’autore che da questo ser Brunetto udisse
filosofia, gli ammaestramenti della quale, si come santi e buoni,
insegnano altrui divenire eterno e per fama e per gloria. «E quanto
io l’abbo in grado», quello che giá mi dimostraste, «mentr’io vivo,
Convien che nella mia lingua si scema», percioché sempre vi loderò,
sempre vi commenderò.
«Ciò che narrate di mio corso», cioè della mia futura fortuna,
«scrivo», nella mia memoria, «E serbolo a chiosar con altro testo»,
cioè a dichiarare con quelle cose insieme, le quali gli avea predette
Ciacco e messer Farinata, «A donna», cioè a Beatrice, «che saprá, s’a
lei arrivo», chiosare e dichiarare e l’altre cose e quelle che dette
m’avete. «Tanto vogl’io che vi sia manifesto, Purché mia coscienza non
mi garra», cioè non mi riprenda, se per avventura alcuna ingiuria piú
pazientemente che il convenevole sostenessi, «Ch’alla fortuna», cioè a’
casi sopravvegnenti, «come vuol, son presto», a ricevere e a sostenere.
«Non è nuova agli orecchi miei tale arra», cioè tale annunzio, quale
è quello il quale mi fate, percioché da Ciacco e da messer Farinata
m’è stato predetto: «Però giri Fortuna la sua ruota», cioè faccia il
suo uficio di permutare gli onori e gli stati, «Come le piace, e ’l
villan la sua marra».—Queste parole dice per quello che ser Brunetto
gli ha detto de’ fiesolani, che contro a lui deono adoperare, li quali
qui discrive in persona di villani, cioè d’uomini non cittadini, ma di
villa; e in quanto dice «la sua marra», intende che essi fiesolani,
come piace loro, il lor malvagio esercizio adoperino, come il villano
adopera la marra.
«Lo mio maestro allora in su la gota», cioè in su la parte «Destra,
si volse indietro, e riguardommi. Poi disse:—Bene ascolta», cioè non
invano ascolta, «chi la nota»,—con effetto, la parola la quale tu al
presente dicesti (cioè «giri Fortuna come le piace la sua rota», ecc.),
volendo per questo confortarlo a dover cosí fare, come esso dice di
fare.
«Né per tanto di men», cioè perché Virgilio cosí dicesse, «parlando
vommi, Con ser Brunetto, e dimando chi sono Li suoi compagni», co’
quali egli poco davanti andava, «piú noti», a lui, «e piú sommi», per
fama.
«Ed egli a me:—Saper d’alcuno è buono». E fagli ser Brunetto questa
risposta alla domanda che l’autore fece, dicendo «e piú sommi»; quasi
voglia ser Brunetto dire (si come assai bene appare appresso): se io
ti volessi dire i piú sommi, sarebbe troppo lungo, percioché tutti
furono uomini di nome e famosi. E, detto d’alcuno, «Degli altri fia
laudevole tacerci». Volendo forse per questo dire: egli v’ha si fatti
uomini, che lo ’nfamargli di cosí vituperevole peccato, come questo è,
e per lo qual dannati sono, potrebbe esser nocivo; e, se non per loro,
per coloro li quali di loro son rimasi. Comeché egli altra ragione
n’assegni, perché sia laudevole il tacersi, dicendo: «Ché ’l tempo»,
che conceduto m’è star teco, «saria corto», piccolo o brieve, «a tanto
suono», cioè a cosí lungo ragionare, come, ragionando di costoro, si
converrebbe fare. E, questo detto, prima gli dice in generale chi
essi sono, poi discende a nominarne alcuno in particulare, e dice:
«In somma», cioè su brevitá, «sappi che tutti fûr cherci, E letterati
grandi e di gran fama, D’un peccato medesmo», cioè di sogdomia, «al
mondo lerci», cioè brutti.
Pare adunque, per queste parole, i cherici e gli scienziati esser
maculati di questo male. Il che puote avvenire l’aver piú destro,
e con minor biasimo, del mescolarsi in questa bruttura col sesso
mascolino che col femminino, [conciosiacosaché l’usanza de’ giovani
non paia disdicevole a qualunque onesto uomo, ove quella delle femmine
è abominevole molto]; e, per questo comodo, questi cosí fatti uomini,
cherici e letterati, piú in quel peccato caggiono che per altro
appetito non farebbono.
«Priscian sen va con quella turba grama», cioè dolente. Fu Prisciano
della cittá di Cesarea di Cappadocia, secondo che ad alcuni piace, e
grandissimo filosafo e sommo grammatico, il quale, venuto a dimorare
a Roma, ad istanzia di Giuliano apostata compose in grammatica due
notabili libri: nell’uno trattò diffusamente e bene _Delle parti
dell’orazione_, nell’altro sub brevitá trattò _Delle costruzioni_.
Non lessi mai né udi’ che esso di tal peccato fosse peccatore, ma io
estimo abbia qui voluto porre lui, accioché per lui s’intendano coloro
li quali la sua dottrina insegnano; del qual male la maggior parte si
crede che sia maculata, percioché il piú hanno gli scolari giovani, e
per l’etá temorosi e ubbidienti, cosí a’ disonesti come agli onesti
comandamenti de’ lor maestri; e per questo comodo si crede che spesse
volte incappino in questa colpa.
«E Francesco d’Accorso anche vedervi», tra loro avresti potuto,
«S’avessi avuto di tal tigna brama», cioè disiderio.
Messer Francesco fu figliuolo di messer Accorso, amenduni fiorentini,
e amenduni grandissimi e famosi dottori in legge, in tanto che messer
Accorso chiosò tutto ’l _Corpo di ragion civile_, e furon le sue chiose
tanto accette, che elle si posono e sono e ancora s’usano per chiose
ordinarie nel _Codice_ e negli altri libri legali. E questo messer
Francesco, mentre visse, sempre lesse ordinariamente in Bologna, dove
si crede che ultimamente morisse.
Appresso dice che ancora v’avrebbe potuto vedere «Colui [potei], che
dal servo de’ servi», cioè dal papa, il qual se medesimo nelle sue
lettere chiama «servo de’ servi di Dio». E questo titolo primieramente
per vera umiltá si pose san Gregorio primo, essendo papa, conoscendo
che a lui, e a ciascun che nella sedia di san Piero siede, s’appartiene
di ministrare e di servire nelle cose spirituali agli amici e servi
di Dio, quantunque menomi; la qual cosa esso sollecitamente facea,
predicando loro e aprendo la dottrina evangelica, sí come nelle sue
_Omelie_ appare, le quali sono le prediche sue, e il nome loro il
dimostra: percioché «omelia» non vuole altro dire, se non «sermone al
popolo». Come i successori suoi questo faccino, Dio ne sa la veritá.
Ma questo di cui qui l’autor dice, dice che «Fu trasmutato d’Arno in
Bacchiglione».
Dicesi costui essere stato un messer Andrea de’ Mozzi, vescovo di
Firenze, il quale e per questa miseria, nella quale forse era disonesto
peccatore, e per molte altre sue sciocchezze che di lui si raccontano
nel vulgo; per opera di messer Tommaso de’ Mozzi, suo fratello, il
quale era onorevole cavaliere e grande nel cospetto del papa, per levar
dinanzi dagli occhi suoi e de’ suoi cittadini tanta abominazione, fu
permutato dal papa, di vescovo di Firenze, in vescovo di Vicenza.
Il che l’autore per due fiumi discrive, cioè per Arno, il quale è
fiume, come si vede, che passa per mezzo la cittá di Firenze, e per
Bacchiglione, il qual fiume corre lungo le mura di Vicenza: e cosí per
ciascun di questi fiumi intende quella cittá donde fu trasmutato, e
quella nella quale fu trasmutato. «Ove», cioè in Vicenza, «lasciò»,
morendo, percioché in essa morí, «li mal protesi nervi». Era questo
vescovo sconciamente gottoso, in quanto che, per difetto degli omori
corrotti, tutti i nervi della persona gli s’erano rattrappati, come in
assai gottosi veggiamo, e nelle mani e ne’ piedi; e cosí per questa
parte del corpo, cioè per li nervi, intende tutto il corpo, il quale
morendo lasciò in Vicenza. [Altri vogliono altramente sentire in questa
parte, volendo per quello vocabolo «protesi», non di tutti i nervi del
corpo intendere, ma di quegli solamente li quali appartengono al membro
virile; dicendo che «proteso» suona «innanzi teso», il quale innanzi
tendere avviene in quegli nervi del viril membro, che si protendono
innanzi quando all’atto libidinoso si viene, e perciò dicono essere
dall’autore detti «mal protesi», percioché contro alle naturali leggi
malvagiamente gli protese.]
«Di piú direi, ma ’l venir», al pari di te, «e ’l sermone Piú lungo
esser non può»; e soggiugne la cagione, dicendo: «peroch’io veggio,
Lá», davanti a sé, «surger nuovo fummo», forse polverio, «dal sabbione.
Gente vien, con la quale esser non deggio».
[Appare per queste parole alcuna differenzia esser tra quegli che
contro a natura peccarono, poiché per diverse schiere son tormentati,
e non osa l’una schiera esser con l’altra; e senza dubbio differenza
ci è, percioché non solamente in una maniera e con una sola spezie
d’animali si commette. Commettesi adunque questo peccato quando
due d’un medesimo sesso a ciò si convengono, sí come due uomini, e
similmente quando due femmine; il che sovente avviene, e, secondo che
alcuni vogliono, esse primieramente peccarono in questo vizio, e da lor
poi divenne agli uomini. Commettesi ancora quando l’uomo e la femmina,
eziandio la propria moglie col marito, meno che onestamente, e secondo
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