Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - 07

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in alcuno atto far non possono, e perciò tiene altra via che non fa la
natura o l’arte; appare assai manifestamente che esso «Per sé», cioè
dall’una parte, «natura» (_supple_) dispregia e ha a vile, «e per la»,
cioè dall’altra parte, «sua seguace», cioè l’arte, la quale è, come di
sopra è mostrato, seguace della natura, «Dispregia», e cosí offende
le cose di Domeneddio, «poiché in altro pon la spene», cioè in altra
spezie d’avanzare e d’accumular danari.
[Lez. XLIII]
«Ma seguimi oramai». Qui comincia la settima e ultima parte del
presente canto, nella quale l’autore discrive per due dimostrazioni
l’ora del tempo o del dí. Dice adunque Virgilio, poi che dichiarato
ha il dubbio mossogli: «Ma seguimi oramai»; quasi voglia dire: assai
abbiam parlato sopra la materia del tuo dubbio; aggiugnendo ancora:
«ché ’l gir mi piace». E soggiugne piacergli l’andare per l’ora che
era, la qual dimostra primieramente dal luogo del sole, il qual
discrive esser propinquo all’orizzonte orientale del nostro emisperio,
e cosí essere in sul farsi dí; e dimostralo per questa discrizione:
«Che i Pesci guizzan», cioè quel segno del cielo il quale noi chiamiamo
«Pesci».
Ad evidenza della qual discrizione è da sapere che tra gli altri
cerchi, li quali gli antichi filosofi immaginarono, e per esperienza
compresero essere in cielo, n’è uno il quale si chiama «zodiaco»; ed è
detto zodiaco da «_zoas_», _quod est_ «_vita_», in quanto da’ pianeti,
li quali di quel cerchio, movendosi, non escono, prendon vita tutte le
cose mortali; ed è questo cerchio non al diritto del cielo, ma alla
schisa, in quanto egli si leva dal cerchio chiamato «equante», il qual
divide igualmente il cielo in due parti: verso il polo artico ventitré
gradi e un minuto, e altrettanto dalla parte opposita declina verso il
polo antartico. E questo cerchio divisero gli antichi in dodici parti
equali, le quali chiamaron «segni»; percioché in essi spazi figurarono
con la immaginazione certi segni o figure, contenuti e distinti da
certe stelle da lor conosciute in quel luogo, e quegli nominarono e
conformarono a quegli effetti, a’ quali piú inchinevole quella parte
del cielo a producere quaggiú tra noi cognobbono; e il primiero
nominarono «Ariete», e il secondo «Tauro», e il terzo «Gemini», e cosí
susseguentemente infino al dodicesimo, il quale nominaron «Pesci».
È il vero che essi gli discrissero al contrario del movimento del
cielo ottavo; e questo fecero, percioché, come il cielo ottavo con
tutti gli altri cieli insieme si muove naturalmente da levante a
ponente, cosí quegli segni, o l’ordine di quegli, procede da ponente a
levante, percioché per esso cerchio, nel quale i predetti segni sono
discritti, fanno lor corso tutti e sette i pianeti, e naturalmente
vanno da ponente a levante: per la qual cosa segue che, essendo il sole
nel segno d’Ariete e surgendo dall’emisperio inferiore al superiore,
si leverá prima di lui il segno de’ Pesci, e in esso sará l’aurora;
e cosí vuol qui l’autore dimostrare per i Pesci, li quali dice che
guizzano, cioè surgono su per l’orizzonte orientale, dimostrar la
prossima elevazion del sole, e cosí essere in su il farsi dí. Ma,
percioché questa dimostrazione non bastava a dimostrar questo tanto
pienamente (e la ragione è perché il segno de’ Pesci potrebbe essere
stato in su l’orizzonte occidentale, e cosí dimostrerebbe esser vicino
di doversi far notte), aggiunge l’autore la seconda dimostrazione, la
quale stante, non può il segno de’ Pesci, essendo in su l’orizzonte,
dimostrare altro se non il sole esser propinquo a doversi levare
sopra ’l nostro emisperio; e avendo detto: «i Pesci guizzan su per
l’orizzonte», cioè su per quel cerchio che divide l’uno emisperio
dall’altro, il qual si chiama «orizzonte» (che tanto vuol dire quanto
«finitore del nostro vedere», percioché piú oltre veder non possiamo),
dice: «E ’l carro tutto sovra il coro giace».
Ad intelletto della qual dimostrazione è da sapere che, comeché il
vento non sia altro che un semplice spirito, creato da esalazioni
della terra e da fredde nuvole esistenti nell’aere, egli ha nondimeno
tanti nomi, quante sono le regioni dalle quali si conosce esser mosso,
e quinci molti per molti nomi il nominarono; ma ultimamente pare per
l’autoritá de’ navicanti, li quali piú con essi esercitano la loro
arte, essere rimasi in otto nomi, e cosí dicono essere otto venti: de’
quali il primo chiamano «settentrione» ovvero «tramontana», percioché
da quella plaga del mondo spira verso il mezzodí; il seguente chiamano
«vulturno» ovvero «greco», il quale è tra ’l settentrione e ’l levante;
il terzo chiamano «euro» o «levante», percioché di levante spira verso
ponente; il quarto chiamano «euro auster» ovvero «scilocco», il quale
è tra levante e mezzodí; il quinto chiamano «austro» ovvero «mezzodí»,
percioché dal mezzodí soffia verso tramontana; il sesto chiamano
«libeccio» ovvero «gherbino», il quale è tra ’l mezzodí e ’l ponente;
il settimo chiamano «zeffiro» ovvero «ponente», percioché di ver’
ponente spira verso levante; l’ottavo chiamano «coro» ovvero «maestro»,
il quale è tra ponente e tramontana. E chiamasi coro, percioché compie
il cerchio, il quale viene ad essere in modo di coro, cioè di quella
spezie di ballo il quale è chiamato «corea». Adunque dice l’autore
sopra questo coro giacere allora, cioè esser tutto riversato, il carro;
la qual cosa mai in quella stagione, cioè del mese di marzo, ad alcuna
ora avvenir non può, né avviene, se non quando il sole è vicino a
doversi levare; e cosí questa dimostrazione ne fa aver certa fede di
quello che intenda l’autore per la primiera.
Ed è questo carro un ordine di sette stelle assai chiare e belle,
le quali si giran col cielo, non guari lontane alla tramontana; e
per ciò sono chiamate «carro», perché le quattro son poste in figura
quadrata a modo che è un carro, e le tre son poi distese, nella guisa
che è il timone del carro, fuor del carro. E sono queste sette stelle
poste nella figura d’uno animale, il quale gli antichi tra piú altri
figurarono, immaginando essere in cielo, chiamato «Orsa maggiore», a
differenza d’un’altra Orsa, la quale è ivi propinqua, e chiamasi «Orsa
minore»; nella coda della quale è quella stella la qual noi chiamiamo
«tramontana».
E, poiché Virgilio gli ha per queste discrizioni mostrato ch’egli è
vicino al dí (donde noi possiam comprendere giá l’autore essere stato
in inferno presso di dodici ore, percioché egli si mosse in sul far
della notte, come nel principio del secondo canto del presente libro
appare), ed egli gli soggiugne un’altra cagione, per la quale l’andare
omai gli piace, dicendo: «E’l balzo», di questa ripa, «via lá oltre»,
lontan di qui, «si dismonta»,—volendo per questo, che non sia da star
piú, poiché molta via resta ad andare.
In questo canto non è cosa alcuna che nasconda allegoria.

CANTO DECIMOSECONDO
I
SENSO LETTERALE
[Lez. XLIV]
«Era lo loco, ove a scender la riva», ecc. Continuasi il presente
canto al precedente assai evidentemente, percioché, avendogli
mostrato Virgilio davanti la universal disposizione dello ’nferno, e
sollecitandolo a continuare il cammino, e mostratogli il balzo lontano
a loro smontarsi; qui ne dimostra come, a quello luogo pervenuti, qual
fosse la qualitá del luogo, per lo quale a scendere aveano. E dividesi
il presente canto in sei parti: nella prima, come detto è, dimostra la
qualitá del luogo per lo quale aveano a scendere, e cui sopra quello
trovassero; nella seconda pone come scendessero, e alcuna cosa che di
quella scesa gli ragiona Virgilio; nella terza discrive come Virgilio
gli mostrasse un fiume di sangue, e che gente d’intorno v’andasse;
nella quarta mostra come Virgilio parlasse a’ centauri che ’l fiume
circuivano, e fossenegli un conceduto per guida; nella quinta dice
come, seguendo il centauro, esso dimostrasse loro le pene de’ tiranni
e de’ rubatori; nella sesta e ultima come, avendo il centauro passato
l’autore dall ’altra parte del fiume, se ne tornasse indietro. La
seconda comincia quivi: «Cosí prendemmo via»; la terza quivi: «Ma ficca
gli occhi»; la quarta quivi: «Vedendoci calar»; la quinta quivi: «Noi
ci movemmo»; la sesta e ultima quivi: «Poi si rivolse». Dice adunque:
«Era lo loco», ove la lettera si vuole cosí ordinare: «Lo loco, ove
venimmo a scender la riva, era alpestro». Dice la «riva», intendendo
per la «ripa»; e questo dico, percioché molti fanno distinzione tra
«riva» e «ripa», chiamando «riva» quella del fiume, e «ripa» gli argini
che sopra le fosse si fanno, o dintorno alle castella, o ancora in
luoghi declivi, per li quali d’alcun luogo alto si scende al piú basso,
come era in questo luogo. E dice questo luogo essere «alpestro», cioè
senza alcun ordinato sentiero o via, sí come noi il piú veggiamo i
trarupi dell’alpi e de’ luoghi salvatichi. E, oltre a ciò, dice ch’è
«tal, per quel ch’ivi er’anco», cioè per lo Minotauro, che in quel
luogo giacea come appresso si dimostra; «Che ogni vista ne sarebbe
schiva», a doverlo riguardare. E, per piú aprirne la qualitá del luogo,
nel dimostra per un esempio, e dice che egli era tale, «Qual è quella
ruina, che nel fianco Di lá da Trento l’Adice percosse».
È questa una ruina, la qual si truova andando da Trento, cittá di
Lombardia, verso Tiralli su per l’Adice, la quale alla sommitá d’un
monte discende tutta in su la riva dell’Adice. E la cagione di questa
ruina del monte pare essere stata l’una delle tre cose: o l’essere
stato il monte percosso nel lato dall’impeto del fiume, il quale,
scendendo delle montagne propinque, viene ne’ tempi delle piove con
velocissimo e impetuoso corso, e cosí, percotendo il monte, il qual non
è di molto tenace terreno, il fece ruinare come si vede; o veramente
cadde parte del detto monte per alcun tremuoto che fu nella contrada,
come assai ne caggion per lo mondo; o cadde per mancamento di sostegno.
È in assai parti la terra cavernosa, e in queste caverne è quasi sempre
acqua, la quale, evaporando e umettando le parti superiori delle
caverne, sempre le rodono e indeboliscono; per che avvien talvolta che,
premute molto dal peso superiore, non potendolo sostener piú, cascano,
e cosí casca quel che di sopra v’era: e quinci talvolta procedono le
voragini, le quali abbiamo udito o lette essere in alcun luogo avvenute.
E avendo adunque l’autor detto: «l’Adice percosse», pone l’altre due
cagioni per le quali poté avvenire, dicendo: «O per tremuoto, o per
sostegno manco». È il tremuoto causato da aere rinchiuso nel ventre
della terra, il quale, essendo molto e volendo uscir del luogo nel
quale è racchiuso, con tanta forza alcuna volta si muove dall’una
parte all’altra della caverna, che egli fa tutte le parti circunstanti
tremare; ed è talvolta il triemito di tanta potenza, che egli fa cadere
gli edifici e le cittá, alle quali egli è vicino.
Séguita poi l’autore a farne quel che intende, cioè chiara la qualitá
del luogo, e dice: «Che da cima», cioè dalla sommitá, «del monte onde
si mosse», quella ruina della qual parla, «Al piano, è sí la roccia
discoscesa, Ch’alcuna via darebbe», a venir giuso al piano, «a chi
su fosse», cioè sopra ’l monte: «Cotal di quel burrato»; «burrati»
spesse volte si chiaman fra noi questi trarupi de’ luoghi alpigini
e salvatichi; e perciò dice che di quel burrato, cioè trarupo, dove
venuti erano, «era la scesa» cotale, qual del monte trarupato che
dimostrato ha; «E ’n su la punta», cioè in su la sommitá, «della rotta
lacca», cioè ripa, «L’infamia di Creti era distesa», cioè il Minotauro,
la cui concezione fu sí fuori de’ termini naturali e abominevole, che
all’isola di Creti, nella quale esso fu, secondo le favole, generato,
ne seguí perpetua infamia; «Che fu concetta», questa infamia di
Creti, «nella falsa vacca», cioè in una vacca di legno, come appresso
dimostrerò.
[È adunque da sapere, come di sopra nel quinto canto di questo libro,
dove si tratta di Minos, è detto, che, volendo Minos andare sopra gli
ateniesi a vendicare la morte d’Androgeo, suo figliuolo, il quale essi
e’ megarensi avevano per invidia ucciso; domandò a Giove, suo padre,
che gli piacesse mandargli alcuno animale, il quale, sí come degna
vittima, a lui sacrificasse nella sua andata: al cui priego Giove gli
mandò un toro bianchissimo e bello, il qual toro piacque tanto a Minos
che esso non l’uccise, ma guardollo per averne allievi tra gli armenti
suoi. Di che seguí che Venere, la quale odiava tutta la schiatta del
Sole, percioché da lui era stato manifestato a Vulcano, suo marito, e
agli altri iddii l’adulterio nel quale ella stava con Marte, fece che
Pasife, moglie di Minos e figliuola del Sole, s’innamorò di questo toro
cosí bello; e, andato Minos ad Atene, ella pregò Dedalo, il quale era
ingegnosissimo uomo, che le trovasse modo per lo quale essa potesse
giacere con questo toro. Per la qual cosa Dedalo fece una vacca di
legno vota dentro, e, fatta uccidere una vacca, la qual parea che oltre
ad ogni altra dell’armento piacesse a questo toro, e presa la pelle di
quella, ne coperse la vacca del legno, e fece Pasife entrarvi entro
e stare in guisa che, estimando il toro questa esser la vacca amata
da lui, si congiunse con Pasife; del qual congiungimento dicono si
creò, e poi nacque, una creatura la quale era mezza uomo e mezza toro.
Il qual cresciuto, e divenuto ferocissimo animale e di maravigliosa
forza, dicono che Minos il fece rinchiudere in una prigione chiamata
«laberinto», e in quella mandava a lui tutti coloro li quali voleva
far crudelmente morire; e questo Minotauro gli uccideva e divorava. Ed
essendovi, sí come in sorte toccato gli era, venuto Teseo, figliuolo
d’Egeo, re d’Atene, e quivi dimorato alcun dí, e in quegli Adriana,
figliuola di Minos e di Pasife, innamoratasi di lui, e avendo avuta la
sua dimestichezza, e per questo avendo compassion di lui, gl’insegnò
come dovesse fare quando giugnesse a questo Minotauro, e come dietro
ad uno spago se ne tornasse fuori della prigione. La qual cosa Teseo
fece; e, giunto al Minotauro, il quale con la gola aperta gli si fece
incontro, gli gittò in gola una palla di certa composizione viscosa,
la quale mentre il Minotauro attendeva a divorare, Teseo, datogli d’un
bastone sopra la testa e uccisolo, secondo l’ammaestramento datogli da
Adriana, dietro allo spago che portato avea tornandosene, e cosí uscito
del laberinto, con Adriana e con Fedra, sua sorella, occultamente
partitosi di Creti, se ne tornò ad Atene. E cosí, predetta questa
favola, piú lievemente comprender si può il testo che segue, il qual
dice:]
«E quando», quel Minotauro, «vide noi», che venivamo, «se stesso morse,
Si come quei», si morde, «cui l’ira dentro fiacca», cioè rompe e divide
dalla ragione, dalla quale lasciato, in se medesimo bestialmente
incrudelisce.
Ed è qui per questo bestiale animale primieramente da comprendere
qual sia la qualitá de’ peccatori, che nel cerchio dove discendono
si punisca; la quale assai manifestamente si può comprendere essere
bestiale, poiché, per l’animal preposto al luogo, convenientemente,
sí per la generazione e sí per gli atti, la bestialitá si discrive.
Appresso è da comprendere quello nella entrata di questo cerchio
settimo opporsi all’autore, che negli altri cerchi superiori è
dimostrato continuamente opporsi, cioè alcun dimonio, il quale o con
atti o con parole si sforzi di spaventar l’autore, e di ritrarlo per
paura dal suo buon proponimento; dal qual senza dubbio piú volte
sarebbe stato rimosso, se i buoni conforti e l’aiuto della ragione non
l’avesse, nella persona di Virgilio, aiutato.
Séguita adunque quel che Virgilio incontro alla rabbia, la quale questa
fiera bestia mordendosi, a reprimer quella dicesse, accioché spazio
desse di passare all’autore, e però dice: «Lo savio mio Virgilio
gridò», cioè parlò forte verso il Minotauro: «—Forse Tu credi, che
qui sia ’l duca d’Atene», cioè Teseo, «Che su nel mondo la morte ti
porse?», come nella fine della favola detta di sopra si contiene.
«Partiti, bestia», del luogo dove tu se’ per impedire il passo a
costui che mi segue, «che questi», il qual tu vedi meco, «non viene
Ammaestrato dalla tua sorella», cioè Adriana, come venne Teseo, il
qual t’uccise, «Ma vassi», come è piacer di Dio, «per veder le vostre
pene»,—di te e degli altri.
E, queste parole dette, ne mostra l’autore per una comparazione quello
che il Minotauro allora rabbiosamente facesse, e dice: «Qual è quel
toro, che si slaccia», cioè sviluppa e scioglie da’ legami postigli da
coloro che uccidere il vogliono, o che ferito l’hanno, «in quella»,
ora, «C’ha ricevuto giá il colpo mortale. Che gir non sa», percioché,
avendo dalla percossa datagli intronato il cerebro e perduta la ragione
delle virtú sensitive, ed eziandio perduto l’ordine dell’appetito, il
quale a niun diterminato fine ora il sa menare, e perciò non va, «ma
qua e lá saltella», come l’impeto del dolore il sospigne; «Vid’io il
Minotauro far cotale», cioè senza saper che si fare, o dove andare,
andar saltando e furiando; «E quegli», cioè Virgilio, «accorto gridò»,
cioè avvedutamente mi disse:—«Corri al varco», donde vedi si può
discendere, e il qual questa bestia poco avanti occupava; «Mentre
ch’è ’n furia, è buon che tu ti cale», quasi voglia dire: quando in
furia non fosse, sarebbe piú difficile il poter discendere; e in
ciò n’ammaestra alcuno altro consiglio non essere migliore, quando
l’iracundo in tanta ira s’è acceso che furioso è divenuto, che il
partirsi e lasciarlo stare.
«Cosí prendemmo». Qui comincia la seconda parte del presente canto,
nella quale si dimostra come discendessero, e alcuna cosa che di quella
scesa gli ragiona Virgilio. Dice adunque: «Cosí prendemmo via», essendo
il Minotauro in furia, «su per lo scarco, Di quelle pietre», le quali
erano dalla sommitá di quello scoglio cadute, come caggiono le cose
che talvolta si scaricano, «che spesso moviensi Sotto i mie’ piedi per
lo nuovo carco», cioè per me, il quale andando le caricava e premeva,
percioché era uomo: il che far non sogliono gli spiriti; e però dice
«nuovo carco», perché non era usato per quel cammino d’andare persona
viva, la qual quelle pietre col carco della sua persona premesse.
«Io giá pensando»: qui mostra Virgilio d’aver conosciuto il pensier
dell’autore per avviso, non giá che altra certezza n’avesse, e però
dice: «e que’ disse:—Tu pensi Forse a questa ruina, ch’è guardata Da
quell’ira bestial, ch’io ora spensi», come sia potuta avvenire, avendo
riguardo al luogo, nel quale tu non estimi dover potere esser quelle
alterazioni, le quali sono vicino alla superficie della terra. [E oltre
a ciò, percioché dice «da quella ira bestiale», potrebbe alcun dire:
se quello Minotauro era iracundo, non pare che l’autore il dovesse in
questo luogo discrivere, ma piú tosto di sopra nella palude di Stige,
dove punisce gli altri iracundi; ma questo dubbio assai ben si mostra
soluto per l’adiettivo il quale dá a questa ira, chiamandola «ira
bestiale». La quale si dee intendere essere ira in tanto trapassata i
termini dell’ira umana, che ella è trasandata nella bestialitá, e per
conseguente convertita in ostinato odio; e perciò attamente esser posta
alla scesa del cerchio settimo, nel quale si puniscono i bestiali.]
Ma Virgilio, a solvere l’autore del suo pensiero [il qual, tacendo,
confessa esser per quella cagione che Virgilio dice], comincia,
continuandosi cosí: «Or vo’ che sappi che, l’altra fiata Ch’io discesi
quaggiú nel basso inferno», come di sopra è stato detto nel canto nono,
«Questa roccia non era ancor cascata»; e perciò gli dimostra quando
avvisa che ella dovesse cascare, dicendo: «Ma certo poco pria, se ben
discerno», immaginando, «Che venisse colui», cioè Cristo, «che la gran
preda», cioè i santi padri, «Levò a Dite», cioè al principe de’ dimòni
(il quale, quantunque abbia altri nomi, nondimeno talvolta da’ poeti è
chiamato Dite, come appare per Virgilio nel sesto dell’_Eneida_, dove
dice: «_inferni regia Ditis_»), «del cerchio su perno», cioè del limbo,
il quale è il primo cerchio dello ’nferno.
E perciò dice Virgilio:—Poco prima che venisse Cristo a spogliar il
limbo,—percioché, secondo che noi fermamente crediamo, Cristo morí in
su la croce all’ora nona del venerdí, nella quale ora, tra l’altre cose
che apparvero maravigliose, fu che la terra tutta universalmente tremò,
che per alcuno altro tremuoto mai avvenne; e allora, tremando tutta,
tremò infino al centro della terra; per la qual cosa non dee parer
maraviglia se alcune delle sotterranee cascarono. E questo tempo fu
poco prima che Cristo scendesse al limbo, percioché l’anima di Cristo
non vi scese come del corpo di Cristo uscí, ma andò in paradiso, si
come assai chiaro ne posson dimostrare le sue parole medesime dette su
la croce al ladrone: «_Amen, dico tibi, hodie mecum eris in paradiso_»,
ecc. ecc. È vero che poi la domenica mattina seguente in su l’aurora,
risuscitato da morte, egli andò al limbo, con insegna di vittoria
coronato, percioché, risurgendo, aveva vinta la morte, e allora spogliò
il limbo: sí che egli fu tanto spazio di tempo dal tremuoto universale
allo spogliar lo ’nferno, quanto fu tra l’ora nona del venerdí e la
prima della domenica. E questo è quel «poco prima» che Virgilio dice
qui.
Poi séguita mostrando quello che Virgilio intende, e che io ho
giá dichiarato, cioè: «Da tutte parti», e in questo ne dimostra
l’universalitá del tremuoto, «l’alta», cioè profonda, «valle feda»,
puzzolente d’inferno, «Tremò sí», cioè oltremodo, «ch’io pensai che
l’universo», cioè il mondo tutto, «Sentisse amor».
Qui è da ritornarsi alla memoria l’opinione, la quale di sopra
raccontai nel canto quarto essere stata di Democrito, il qual tenne
esser due princípi a tutte le cose, cioè odio e amore, e questo sentiva
in questa forma: egli diceva essere stata una materia mista di tutte le
cose, la quale egli appellava «caos», e in questa materia diceva essere
i semi di tutte le cose; e quelle, che produtte vedevamo e avere certa
e distinta forma dall’altre, essersi a caso separate da questo caos e
perseverare nelle loro generazioni e spezie; e questo diceva essere
odio, in quanto le cose prodotte s’erano dal lor principio separate,
quasi come da cosa non ben convenientesi con lei. Poi diceva cosí: come
ogni forma prodotta s’era da questo suo principio separata, cosí dopo
molti secoli avvenire a caso tutte queste forme ritornarsi insieme, e
riformare quel medesimo caos che altra volta era stato, e dal quale
aveano avuto principio; e questo diceva essere amore, in quanto
ciascuna cosa, sí come insieme riconciliate, si ritornava e univa col
suo principio. E per questo dice Virgilio che, perché egli sentí questo
tremuoto universale, il qual mai piú non avea sentito né avea udito da
alcuno che sentito l’avesse, maravigliandosi credette che l’universo,
cioè tutte le cose, sentissero questo amore, che detto è, e dovessersi
ricongiugnere insieme, poi che ogni corpo fosse dalla propria forma
risoluto.
E quinci, volendo mostrare questa non essere sua opinione, ma d’altrui,
dice: «per lo quale», amore, «è chi creda», cioè Democrito e i suoi
seguaci, «Piú volte il mondo in caos converso», nella maniera che
di sopra è detta. «E in quel punto», che questo tremuoto universale
fu, «questa vecchia roccia, Qui», dove noi siamo, «ed altrove», come
appresso si dirá nel ventunesimo canto del presente libro, «tal fece
riverso», qual tu puoi vedere.
[Lez. XLV]
«Ma ficca gli occhi». Qui, finita la seconda parte, comincia la terza
del presente canto, nella quale l’autor discrive come Virgilio gli
mostrasse un fiume di sangue, e che gente d’intorno v’andasse; e dice
che, poi Virgilio gli ebbe mostrata la cagione della ruina di quella
roccia, alla quale esso pensava, gli dice: «Ma ficca gli occhi a valle,
ché s’approccia La riviera», cioè il fiume o ’l fosso, «del sangue, in
la qual bolle»; e questo, percioché quel sangue era boglientissimo;
«Qual che per violenza in altrui noccia»,—rubando o uccidendo; e cosí
appare questa essere la prima spezie de’ violenti, de’ quali di sopra
è detto. La qual riviera del sangue come l’autor vide, cosí contra i
vizi, da’ quali si può comprendere questa spezie di violenza esser
causata, leva la voce, ed esclamando dice:
«O cieca cupidigia», cioè disiderio d’avere; e cosí apparirá radice di
questa colpa, cioè del rubare, essere avarizia; il che assai di sopra,
dove dell’avarizia si trattò, fu mostrato, il disordinato appetito
d’avere, inducer gli uomini alle violenze e alle ruberie. Poi segue a
dimostrarne l’altra radice dell’altra parte della violenza, la qual
si fa nel sangue del prossimo, dicendo: «o ira folle», cioè pazza e
bestiale, la quale è cagione dell’uccisioni che fanno i rubatori;
percioché i rubatori, o da difesa fatta da colui che rubar vogliono, o
da alcuna parola loro non grata commossi, vengono all’uccisione, e cosí
fanno violenza nelle cose e nelle persone del prossimo. Segue adunque:
«Che sí ci sproni»; e questo «sproni», il quale è in numero singulare,
si riferisce primieramente a quella prima parte della esclamazione,
(«O cieca cupidigia»), e poi si riferisce alla seconda parte («o ira
folle»), «nella vita corta», cioè in questa vita mortale, la quale, per
rispetto della eternitá, quantunque lunghissima fosse, non si potrebbe
dire essere un batter di ciglia; «E nell’eterna poi», cioè in quella
nella quale, cosí peccando, senza penterci, siamo in eterno supplicio
dannati, «sí mal c’immolle», cioè ci bagni, come appare nel tormento
de’ miseri, li quali nel sangue bolliti sono. E vogliono alcuni, in
questo condolersi, l’autor mostrare d’essere stato di questa colpa
peccatore; e però, vedendo il giudicio di Dio, sentirsene per paura
compunzione e dolore.
Ma poi che egli ha detto contro a’ due vizi, li quali son cagione
della violenza che nelle cose e nella persona del prossimo si commette,
ed egli piú appieno discrive la qualitá del luogo, nella quale i
miseri son puniti, dicendo: «Io vidi un’ampia fossa», cioè un fiume,
«in arco torta, Come quella che tutto il piano», del settimo cerchio,
«abbraccia», col girar suo, «Secondo ch’avea detto la mia scorta». Dove
questo Virgilio dicesse, cioè che questo fiume o fossa abbracciasse
tutto il piano, non ci è: vuolsi adunque intendere lui averlo detto in
alcun de’ ragionamenti di ciò da lui fatti, ma l’autore non l’avere
scritto. «E tra ’l piè della ripa», la quale circundava il luogo,
«ad essa», fossa, «in traccia, Venien centauri armati di saette»,
(_supple_) e d’archi (percioché invano si porteria la saetta, se l’uomo
non avesse l’arco), «Come solean nel mondo», quando vivevano, «andare a
caccia». Che animali sieno i centauri, e come nati, e perché qui posti,
si dimostrerá dove si dirá il senso allegorico.
«Vedendoci calar». Qui comincia la quarta parte del presente canto,
nella quale, poi che l’autore ha dimostrata la qualitá del luogo dove
si puniscono i primi violenti, ne mostra come Virgilio parlasse a’
centauri che il fiume circuivano, e come uno ne fosse lor conceduto
per guida. Dice adunque: «Vedendoci», i centauri; [e dice «vedendoci»,
percioché l’autore faceva muovere, e per conseguente sonare, tutte le
pietre di quel trarupo, donde discendeva giú, sopra le quali poneva i
piedi, la qual cosa far non sogliono gli spiriti; mosse i centauri per
maraviglia a ristare, udendo ciò ch’usati non eran d’udire,] «calar»,
cioè discendere, «ciascun», de’ centauri, «ristette, E della schiera
tre si dipartiro», venendo verso loro, «Con archi ed asticciuole», cioè
saette, «prima elette», cioè tratte del turcasso o d’altra parte, ove
per avventura le portavano. «E l’un», di que’ tre, «gridò da lungi:—A
qual martiro Venite voi, che scendete la costa? Ditel costinci», ove
voi siete, «se non», (_supple_) il direte, «l’arco tiro»;—quasi voglia
dire: io vi saetterò.
«Lo mio maestro disse:—La risposta Farem noi a Chirón», cioè a quel
centauro il quale è preposto di voi. E poi, in detestazion della sua
troppa domanda, con alcune parole il contrista, come di sopra aveva
fatto al Minotauro, dicendo: «Mal fu», per te, «la voglia tua sempre sí
tosta»,—cioè frettolosa. «Poi mi tentò e disse:—Quegli», al quale io
ho ora risposto, «è Nesso, Che morí per la bella Deianira, E fe’ di sé
la vendetta egli stesso»,—posciaché fu morto.
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