Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - 11

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guidava, in qual parte di Pisa fosse, gli rispuose il fanciullo:—Voi
siete per me’ la chiesa di San Paolo in riva d’Arno;—il che poi che
udito ebbe, disse al fanciullo:—Dirizzami il viso verso il muro della
chiesa.—Il che come il fanciullo fatto ebbe, esso, sospinto da furioso
impeto, messosi il capo innanzi a guisa d’un montone, con quel corso
che piú poté, corse a ferire col capo nel muro della chiesa, e in
questo ferí di tanta forza, che la testa gli si spezzò, e sparseglisi
il cerebro, uscito del luogo suo; e quivi cadde morto. Per la quale
disperazione l’autore, sí come contro a se medesimo violento, il
dimostra in questo cerchio esser dannato.
Dice adunque cosí: «Io son colui, che tenni ambo le chiavi Del cuor di
Federigo», imperadore. E vuole in queste parole dire: io son colui il
quale, con le mie dimostrazioni, feci dire sí e no allo ’mperadore di
qualunque cosa, come io volli, percioché, sí come le chiavi aprono e
serrano i serrami, cosí io apriva il volere e ’l non volere dell’animo
di Federigo. E però segue: «e che le volsi Serrando e disserrando sí
soavi», cioè con tanto suo piacere e assentimento, «Che dal segreto suo
quasi ogni uom tolsi», in tanto gli erano accette le mie dimostrazioni.
E, questo detto, vuoi dimostrare che meritamente avea ogni altro
tolto dal segreto dello ’mperadore, dicendo: «Fede portai al glorioso
ufizio», cioè d’essere suo secretario, per lo qual quasi si poteva dir
lui essere l’imperadore, «Tanta, ch’io ne perdei il sonno e’ polsi».
Perdesi il sonno per l’assidue meditazioni, le quali costui vuol
mostrare che avesse in pensar sempre a quello che onore e grandezza
fosse del signor suo; e in ciò dimostrava singulare affezione e intera
fede verso di lui. I polsi son quelle parti nel corpo nostro, nelle
quali si comprendono le qualitá de’ movimenti del cuore, e in queste
piú e men correnti si dimostrano le virtú vitali, secondo che il cuore
è piú o meno oppresso da alcuna passione; e perciò, dicendo costui sé
averne perduti i polsi, possiamo intendere lui voler mostrare sé con sí
assidua meditazione avere data opera alle bisogne del suo signore, che
gli spiriti vitali, o per difetto di cibo o di sonno o d’altra cosa, ne
fossero indeboliti talvolta, e cosí essersi perduta la dimostrazione,
la quale de’ lor movimenti fanno ne’ polsi.
E, detto questo, dimostra la cagione del suo cadimento e della sua
morte, dicendo: «La meretrice», cioè la ’nvidia, la quale perciò
chiama «meretrice», perché con tutti si mette, come quelle femmine
le quali noi volgarmente chiamiamo «meretrici»; vogliendo in questo
che, come quelle femmine hanno alcun merito da coloro a’ quali elle si
sottomettono, cosí la ’nvidia aver per merito il disfacimento di colui
al quale ella è portata. [Ma, percioché ancora in parte alcuna non
s’è singulare ragionamento avuto di questo vizio, percioché ancora al
luogo dove si puniscono gl’invidiosi non s’è pervenuto, poiché qui cosí
efficacemente in poche parole ne parla, sará utile, secondo quello che
di questo vizio sentono i poeti, dire alcuna cosa.]
[Discrive adunque questo pessimo vizio Ovidio nel suo maggior volume in
questa forma:
_... Domus est imis in vallibus huius_
_abdita, sole carens, non ulli pervia vento:
tristis et ignavi plenissima frigoris et quae
igne vacet semper, caligine semper abundet._
E poco appresso séguita:
_... Videt intus edentem_
_vipereas carnes, vitiorum alimenta suorum,
invidiam, visamque oculis avertit: at illa
surgit humo pigre, semesarumque relinquit
corpora serpentum, passuque incedit inerti._
E poco appresso:
_Pallor in ore sedens, macies in corpore toto,
nusquam recta acies, livent rubigine dentes,
pectora felle virent, lingua est suffusa veneno:
risus abest, nisi quem visi fecere dolores;
nec fruitur somno, vigilantibus excita curis:
sed videt ingratos, intabescitque videndo,
successus hominum; carpitque et carpitur una:
suppliciumque suum est_, ecc.]
[Nella quale discrizione se noi sanamente riguarderemo, assai appieno
vedremo i pestiferi effetti di questo vizio. Essa, secondo che noi
veggiamo da Ovidio scritto, abita nelle valli, cioè, secondo il
giudicio dello ’nvidioso, nelle piú misere fortune, percioché allo
’nvidioso pare sempre che coloro, alli quali esso porta invidia, sieno
in maggiore e migliore e piú rilevata fortuna di lui; e, oltre a ciò,
nell’abitazione dell’invidia, cioè nel petto dello invidioso, non
luce mai sole, né vi spira alcun vento, cioè non v’entra mai alcuna
cognizione di veritá, né buon consiglio, né parole salutifere d’alcuno,
ma sempre è pieno di tristizia, ed è freddissimo, si come quello nel
quale stare non può alcun caldo di caritá. E in quanto dice i suoi
cibi essere carni di vipere, dobbiamo intendere la crudeltá de’ suoi
pensieri e de’ suoi divisi appetiti, de’ quali, miseramente aspettando,
esso pasce la dolorosa anima.]
[Poi dice questa invidia andar con pigro passo: per la qual cosa
possiam comprendere il peso e la gravezza del vizio opprimere tanto
colui che compreso n’è, che ad ogni altro movimento, che a quel solo al
quale il tira il corrotto appetito, esso sia tardo e lento; e che esso
sia palido e magro, assai convenientemente è detto, a dimostrare quanta
sia la forza della passione, la quale dentro l’affligge, in tanto
che, dando impedimento alla virtú nutritiva, causa la pallidezza e la
magrezza.]
[E, in quanto scrive la invidia in parte alcuna non guarda diritto, ne
dimostra il giudicio dello ’nvidioso esser perverso, e contro ad ogni
ragione e dirittura; e l’avere essa i denti rugginosi, ne dichiara il
rado uso che allo ’nvidioso pare avere nel poter divorare coloro alli
quali porta invidia, quantunque egli in continuo esercizio ne sia; e
l’avere il petto verde per lo fiele, il quale è abitacolo dell’ira,
ci si dichiara mai nel petto dello ’nvidioso seccarsi o venir meno,
ma sempre vivere e starvi verde l’iracundia, la qual sempre, sí come
offeso dall’altrui felicitá, lo stimola a vendetta, e al disfacimento
di colui a cui invidia porta; e cosí ancora avere la lingua sempre
bagnata di veleno, dobbiam comprendere il continuo esercizio dello
’nvidioso, il quale, dove con altro offender non può, non si vede mai
stanco di raccontar cose nocive e di seminare scandalo. Oltre a tutto
questo, non ride mai lo ’nvidioso, se egli non ride del danno altrui, e
sempre vegghia, e sta attento ad ogni cosa colla quale nuocer potesse,
con grandissimo suo dolore vedendo coloro alli quali invidia porta e i
lieti avvenimenti degli uomini.]
E, percioché nelle corti de’ gran prencipi han sempre di quegli che
sono messi avanti, o degni o non degni che sieno, e di quegli ancora
che sono lasciati addietro; e questo vizio non è altro che una passione
ricevuta per l’altrui felicitá, senza offesa di colui che la passion
riceve; par di necessitá le corti doverne esser piene, e tanto piú
quanto maggior sono. Per la qual cosa meritamente dice l’autore questa
meretrice non aver mai «torti gli occhi», cioè vòlti in altra parte,
dall’ospizio dello ’mperadore, e lei esser vizio e morte comune delle
corti.
Adunque con cosí fatto nemico ebbe il maestro Piero a fare, sí come
qui nel testo si dimostra, dove dice l’autore: «La meretrice», cioè la
’nvidia, «che mai dall’ospizio Di Cesare non torse gli occhi putti»,
cioè malvagi e disleali; «Morte comune», d’ogni uomo, cioè vizio
deducente a morte, «e delle corti vizio; Infiammò contro a me», cioè
accese, «gli animi tutti», de’ cortigiani; «E gl’infiammati infiammâr
sí Augusto», cioè lo ’mperador Federigo, «Che i lieti onor», posseduti
per lo glorioso oficio, «tornâro in tristi lutti», in quanto esso fu
privato della grazia dello ’mperadore e dell’uficio e del vedere, e
cacciato via. «L’animo mio, per disdegnoso gusto», il quale, come
di sopra è mostrato, fu tanto che il fece in furia divenire, e,
«Credendo col morir fuggire sdegno», cioè non essere reputato degno
d’avere ricevuta la repulsa dello ’mperadore; «Ingiusto fece me»,
tanto che egli ne meritò esser dannato a quella pena, «contra me
giusto»: volendo per avventura in queste parole intendere che, dove
egli stimò, uccidendosi, mostrare la sua innocenza, avvenne che molti
opinarono lui non averlo per ciò fatto, ma averlo fatto sospinto
dalla coscienza, la quale il rimordea del fallo commesso. E però, a
purgare questo intendimento, séguita: «Per le nuove radici»; chiamale
«nuove», percioché non molto tempo davanti ucciso s’era, e in quel
luogo convertito in pianta, «d’esto legno», nel quale voi mi vedete
trasformato, «Vi giuro che giammai non ruppi fede Al mio signor, che
fu d’onor sí degno». E poi, parendogli con questo giuramento aver
certificati della sua innocenza, segue: «E, se di voi alcun nel mondo
riede, Conforti la memoria mia», cioè la fama, «che giace Ancor del
colpo, che ’nvidia mi diede»,—quello apponendomi che io mai fatto non
avea.
«Un poco attese», Virgilio dopo queste parole, «e poi: Dacché ’l si
tace,—Disse ’l maestro mio,—non perder l’ora, Ma parla, e chiedi a
lui s’altro ti piace»,—di sapere.
«Ond’io a lui:—Domandal tu ancora Di quel che credi ch’a me
satisfaccia, Ch’io non potrei», domandarlo io, «tanta pietá
m’accora»,—cioè mi prieme il cuore. Ed è possibile l’autore questa
pietá tanto non avere avuta per compassione che avuta avesse dello
’nfortunio dello spirito, ma per se medesimo, il qual conosceva
similmente per invidia, non per suo difetto, dover ricevere delle noie,
delle quali aveva maestro Piero ricevute, e state gli eran predette,
come di sopra appare.
«Perciò ricominciò». Qui comincia la parte ottava di questa seconda
parte principale del presente canto, nella quale il domanda Virgilio
come in quelle piante si lega, e se alcuna se ne scioglie mai. Dice
adunque: «Perciò», cioè per quello che io avea detto, «ricominciò»,
a parlar Virgilio e dire:—«Se l’uom ti faccia Liberamente ciò che
’l tuo dir priega» (cioè di confortare la memoria tua che giace,
ecc.), «Spirito incarcerato», in cotesto tronco, «ancor ti piaccia»,
oltre alle cose che dette n’ hai, «Di dirne come l’anima si lega In
questi nocchi», cioè in questi legni nocchiosi; «e dinne, se tu puoi,
S’alcuna», anima, «mai di tai membri», quali sono questi nocchi, «si
spiega»,—cioè si sviluppa o si scioglie.
«Allor soffiò». Qui comincia la nona parte della seconda parte
principale del presente canto, nella quale lo spirito risponde alla
dimanda fatta da Virgilio, e dice cosí: «Allor», cioè udita la domanda
e volendo rispondere, «soffiò lo tronco forte», per questo dimostrando
parergli amaro e noioso, non il dire come l’anime diventin bronchi,
ma il rammemorarsi della cagione perché esso fosse tronco divenuto;
«e poi», che soffiato ebbe, «Si convertí quel vento», che uscí fuori
del tronco nel soffiare, «in cotal voce», cioè:—«Brievemente sará
risposto a voi». E, dopo queste parole, séguita la risposta alla
domanda fatta, dicendo: «Quando si parte l’anima feroce»: è l’anima di
quegli, che se medesimi uccidono, «feroce», cioè di costume e maniera
di fiera, in quanto crudelmente e ferocemente contro a se medesima
adopera, quel corpo uccidendo, il quale per albergo e per istanza l’è
dato dalla natura per insino allo estremo della vita sua; «Del corpo
ond’ella stessa s’è divelta», cioè cacciata e separata uccidendolo;
«Minos», quel dimonio il quale nel quinto canto scrive l’autore
essere esaminatore delle colpe e giudicatore de’ luoghi a quelle
convenientisi, «la manda alla settima foce», cioè al settimo cerchio
dello ’nferno, nel quale si puniscono i violenti. «Cade», questa anima
mandata da Minos, «in la selva», la qual tu vedi qui, «e non l’è parte
scelta», una piú che un’altra, nella quale ella debba il supplicio
determinatole ricevere; «Ma lá dove fortuna», cioè caso, «la balestra»,
la gitta o fa cadere; «Quivi germoglia», cioè nascendo fa cesto, «come
gran di spelta». È la spelda una biada, la qual, gittata in buona
terra, cestisce molto, e perciò ad essa somiglia il germogliare di
queste misere piante; e, dopo questo germogliare, dice che «Surge in
vermena», cioè in una sottil verga, come tutte le piante fanno ne’
lor principi, «ed in pianta silvestra»: la pianta è maggiore che la
vermena, in quanto la vermena non pare ancora atta a trapiantare per la
sua troppa sottigliezza, dove la pianta, essendo giá piú ferma e piú
cresciuta, è atta a trapiantare; e però è chiamata quella verga degli
alberi, che giá ha alcuna fermezza, «pianta».
«L’arpie pascendo poi delle sue foglie»: che animali o vero uccelli
l’arpie sieno, si dirá dove il senso allegorico si sporrá. E qui vuole
questo spirito, poi che mostrato ha come quivi nascano, mostrare la
qualitá del lor tormento, il quale mostra che stea nel rompere che
fanno l’arpie delli loro ramuscelli: e cosí par quel tormento esser
simile a quello che nella presente vita si dá a’ disleali e pessimi
uomini, in quanto sono attanagliati; e cosí dice che «pascendo», cioè
rompendo e schiantando l’arpie le foglie di queste piante, fanno dolore
all’anime rilegate in quelle piante, come le tanaglie fanno a’ corpi.
E, percioché queste anime son tutte intorniate e chiuse dalla corteccia
dell’albero loro, e però d’alcuna parte spirar non possono; a tôr via
il dubbio da qual parte esse mandin fuori l’angoscia, la qual per lo
dolor sentono (e che l’autore aveva udita, senza vedere chi se la
facesse), detto che queste arpie, troncandole, «Fanno il dolore», dice
che esse similmente, con le rotture dello schiantare, fanno «ed al
dolor finestra», cioè dánno per quelle rotture l’uscita alle dolorose
voci, le quali esse, per lo dolore il qual sentono, mandan fuori.
E, questo dichiarato, dichiara la seconda parte della domanda, cioè
«s’alcuna mai da tai membri si spiega»; e dice: «Come l’altre» anime
verranno tutte il dí del giudicio a riprendere li lor corpi, cosí noi
«verrem per nostre spoglie», cioè per li nostri corpi, li quali sono
«spoglie» dell’anima, cosí come i vestimenti sono spoglie del corpo;
«Ma non però, ch’alcun», di noi, «se ne rivesta», di quelle spoglie;
cioè non però, quantunque noi vegniamo per li nostri corpi, che alcuna
delle nostre anime rientri in quegli. E la cagione perché alcuna di noi
non rientra nel corpo suo, è per ciò «Che non è giusto aver ciò ch’uom
si toglie»: noi, uccidendoci, ci togliemmo i corpi, e però non è giusta
cosa che noi gli riabbiamo. E per questo, senza rivestirglici, «Qui»,
cioè per questa selva, «gli strascineremo», cioè strazieremo; e, oltre
a ciò, poiché strascinati gli aremo, «e per la mesta», cioè dolorosa,
«Selva saran li nostri corpi», de’ quali io parlo, «appesi, Ciascuno al
prun dell’ombra sua molesta», cioè inimica. E in questo finisce la sua
dimostrazione.
[Lez. L]
[Ma qui è attentamente da riguardare, percioché, quello che questo
spirito dice, è dirittamente contrario alla verità cattolica, per la
qual noi abbiamo che tutti risurgeremo e riprenderemo i nostri corpi,
e con essi risuscitati verremo al giudicio universale a udire l’ultima
sentenzia; e chi dice «tutti», non eccettua alcuno, dove questi dice
che l’anime di coloro, che se medesimi uccisono, non rientreranno ne’
corpi, e per conseguente non risurgeranno, e cosí contradice alla
nostra fede.]
[È qui da credere che l’autore non ha qui fatte narrar queste parole
a questo spirito, sí come ignorante degli articoli della nostra fede,
percioché tutti esplicitamente gli seppe, sí come nel _Paradiso_
manifestissimamente appare; ma, dovendo questo error recitare, ha
qui usata una cautela poetica, la quale è che quante volte i poeti
voglion porre una opinione contraria alla veritá, essi si guardano di
recitarla essi in propria persona, ma inducono alcun altro, e a lui,
sí come quello cotale, ch’è indotto, tenesse, la fanno raccontare. Il
che Virgilio fa in alcun luogo: percioché, volendo d’una opinione, la
quale esso non teneva esser vera, compiacere a’ romani, li quali al
suo tempo erano nel colmo della loro grandezza, egli nel primo libro
dell’_Eneida_ induce Giove (non quel Giove, il quale esso alcuna
volta vuole intendere per lo vero Iddio, ma quello che i gentili
scioccamente credevano essere iddio), e dice che, parlandogli Venere,
sua figliuola e madre d’Enea, sí come sollecita degli avvenimenti
d’Enea (il quale era dalla fortuna del mare, volendo venire in Italia,
dove doveva essere il regno di lui e de’ suoi successori, trasportato
in Cartagine), tra l’altre cose le risponde cosí:
_His ego nec metas rerum, nec tempora pono:
imperium sine fine dedi,_ ecc.;
e non si cura Virgilio di far mentitore costui, il quale egli avea per
iddio falso e bugiardo. Ma in quelle parti ove essi vogliono quello
ch’essi estimano esser vero, essi in propria persona il profferano, sí
come Virgilio medesimo fa sopra questa medesima materia dello ’mperio
de’ romani, toccando alcuna cosa intorno alla fine del secondo della
_Georgica_, dove dice:
_Illum non populi fasces, non purpura regum
Flexit,_ ecc.
_Non res Romanae, perituraque regna_
(_supple_) _Romana_, ecc. Il quale imitando l’autore, come in assai
altre cose fa, fa a questo spirito dannato raccontare questa opinione
erronea; e ciò non fa senza cagione, ma il fa, volendo con questa
opinione ritrar coloro, che l’udiranno, dal detestabile peccato della
disperazione; percioché assai volte avviene gli uomini, piú per paura
della pena che per amor della virtú, guardarsi dalle cose scellerate.]
[È il vero, che che a’ poeti gentili giá conceduto si fosse, non pare
che la religion cristiana permetta ad alcun poeta cristiano, né in sua
persona, né in altrui, raccontare o far raccontare _assertive_ alcuna
erronea cosa, e che contraria sia alla cattolica veritá; e però non par
qui assai essere scusato l’autore per aver fatto ad uno spirito dannato
raccontar questo errore.]
[Ma a questo si può cosí rispondere, accioché si conosca l’autore in
questo non avere errato: dobbiamo adunque sapere esser due maniere di
pena, nelle quali, o nell’una delle quali, la giustizia di Dio condanna
coloro che male hanno adoperato; e chiamasi l’una delle maniere di
queste pene «pena illativa», e l’altra «pena privativa». La pena
illativa si pone nella propria persona di colui che ha peccato, sí come
è tagliargli alcun membro, o farlo d’alcuna spezie di morte morire;
la pena privativa è quella la quale s’impone nelle cose esteriori di
colui il quale ha peccato, sí come nelle sue sustanze, negli onori,
negli stati, nella cittadinanza, privandolo d’alcuna di queste, o di
parte d’alcuna, o di tutte. E però si può dir qui: percioché le leggi
temporali non hanno in alcuna cosa potuto punire quegli che se medesimi
uccidono, percioché il corpo morto non può ricever pena; e, quantunque
esse vogliano che i corpi cosí uccisi sieno gittati a divorare alle
fiere, questa non è pena all’ucciso, ma è vergogna a chi di lui
rimane; e, se vogliam dire egli è infamia al nome dell’ucciso, questa
infamia perisce sotto l’occupazione di maggiore infamia, peroché molto
maggiore infamia è l’essersi ucciso che non è l’essere poi gittato via
a guisa d’un cane; oltre a ciò, le leggi temporali non possono nelle
sue cose punirlo, percioché chi se medesimo priva della vita, si priva
d’ogni altra sua cosa, sí che, perché le leggi facessero ogni suo
bene occupare, a lui non monta niente; e deesi credere che chi di se
medesimo non s’è curato, non si curi d’alcuna altra sua cosa, e quella
non si può dirittamente dir pena, la quale non affligge colui al quale
è imposta; e, volendo la divina giustizia che impunito non rimanga cosí
grande eccesso, quello, che non può far la temporale, si dee credere
che essa supplisce, e vuole che in questi cotali sia la pena illativa,
sí come ella è nell’altre anime de’ dannati, e, oltre a ciò, vi sia
la privativa. Ma, percioché ad alcuno passato di questa vita non si
può alcuna cosa tôrre che sua sia, se non solamente il corpo, vuole la
divina giustizia che questi cotali si credano non dovere riavere il
corpo loro, come l’altre anime riaranno, comeché nella veritá essi il
riaranno come l’altre. E se forse si domandasse: in che sentono però
queste anime dannate piú pena, avendo questa opinione, che l’altre non
l’hanno? Si può cosí dire: che, come l’anime de’ beati disiderano i
corpi loro, accioché, come essi furono in questa vita partefici delle
fatiche ad acquistar la gloria di vita eterna, cosí sieno con loro
insieme partefici della gloria; cosí l’anime dannate ardentemente
disiderano di riavere i corpi loro, accioché, sí come strumenti
delle loro malvagie operazioni furono in questa vita, cosí in quella
dannazione gli sentano punire, e sostenere pene come sostengono esse; e
perciò quegli, che di questo loro disiderio estimano d’esser privati,
sentono, oltre alla pena illativa, similmente la privativa. E però
avvedutamente l’autore fa questa opinione raccontare ad una di quelle
anime, alle quali la giustizia di Dio permette di stare in lor maggior
pena in questa erronea opinione; e cosí, senza aver detto contro alla
veritá, si può dir l’autore avere come cristian poeta scritto].
«Noi eravamo». Qui comincia la terza parte principale del presente
canto, nella quale, poi che l’autore n’ha dimostrato che pena abbian
coloro li quali nella propria persona usano violenza, ne dimostra una
spezie di tormenti strana dalla primiera, data a certi peccatori le cui
colpe non furono con quelle de’ primieri equali, percioché non in sé
ma nelle lor cose usarono violenza. E dice cosí: «Noi eravamo ancora
al tronco attesi, Credendo ch’altro ne volesse dire», avendo egli
finito di dire quello che di sopra è scritto, «Quando noi fummo d’un
romor sorpresi», il qual sentimmo farsi nella selva; e quinci per una
comparazione dimostra come soprappresi fossero, dicendo: «Similemente
a colui, che venire Sente il porco», salvatico, «e la caccia», cioè
quegli e cani e uomini che di dietro il cacciano, «alla sua posta».
Usano i cacciatori partirsi in diverse parti, e, cosí divisi, porsi in
quelle parti della selva, donde stimano dover potere, fuggendo, passare
quelle bestie le quali voglion pigliare; e queste cotali parti, dove si
pongono, chiamano «poste»; e però colui, alla cui posta viene la bestia
cacciata, se n’avvede, per ciò «Ch’ode le bestie», le cacciate e quelle
che cacciano, «e le frasche», cioè i rami e le frondi della selva,
«stormire», cioè far romore per lo stropiccío del porco e de’ cani e
dei cacciatori.
«Ed ecco», mentre essi stavano soprappresi dal romore, «due dalla
sinistra costa, Nudi e graffiati»: dice «nudi», percioché non eran
dalle cortecce degli alberi rivestiti, come eran quelle anime che
rilegate erano in que’ bronchi; e «graffiati» dice, percioché di sopra
è detto quel bosco esser pieno «di stecchi con tosco», e chi corre tra
cosí fatte piante, non potendo attendere a riguardarsi, è di necessitá
che si graffi; «fuggendo sí forte», cioè sí velocemente e con tanto
impeto, «Che della selva rompíeno ogni rosta», e però erano graffiati.
E questo vocabolo «rosta» usiam noi in cotali fraschette o ramicelli
verdi d’álbori, con le quali la state cacciam le mosche. «Quel dinanzi»
_(supple)_, gridava:—«Ora accorri, accorri, Morte!»;—nelle quali
parole dimostra o la gravezza della pena, o la grandezza della paura;
«E l’altro, cui pareva tardar troppo», cioè esser troppo lento nel suo
fuggire, per rispetto a colui che dinanzi a lui fuggiva, «Gridava»,
dicendo:—«Lano, sí non fûro accorte, Le gambe tue alle giostre del
Toppo».—
Ad intelligenza di queste parole è da sapere che Lano fu un giovane
sanese, il qual fu ricchissimo di patrimonio, e, accostatosi ad
una brigata d’altri giovani sanesi, la qual fu chiamata la Brigata
spendereccia, li quali similmente erano tutti ricchi, e, insiememente
con loro, non spendendo ma gittando, in piccol tempo consumò ciò
ch’egli avea, e rimase poverissimo. E, avvenendo per caso che i sanesi
mandarono certa quantitá di lor cittadini in aiuto de’ fiorentini
sopra gli aretini, fu costui del numero di quegli che v’andarono.
E, avendo fornito il servigio, e tornandosene a Siena assai male
ordinati e mal condotti, come pervennero alla Pieve al Toppo, furono
assaliti dagli aretini, e rotti e sconfitti; e nondimeno, potendosene a
salvamento venir Lano, ricordandosi del suo misero stato e parendogli
gravissima cosa a sostener la povertá, sí come a colui che era uso
d’esser ricchissimo, si mise in fra’ nemici, fra’ quali, come esso per
avventura disiderava, fu ucciso. E perciò, in modo di rimproverare,
gridava quell’altro spirito le sue gambe, cioè il suo corso, cosí
presto, cioè veloce, alle giostre dal Toppo, cioè agli scontri delle
lance, dalle quali fuggito non s’era, potendo; volendo in questo
ricordargli la cagione la quale il fece tardo al fuggire, cioè la sua
misera ed estrema povertá, nella quale per sua bestialitá era venuto.
E, percioché egli non fu prodigo, ma gittatore e dissipatore del suo,
il discrive l’autore in questo luogo. «E poiché forse gli fallía la
lena», cioè a questo spirito, che gridava rimproverando a Lano e la
morte e, per conseguente, la cagione della morte sua; «Di sé e d’un
cespuglio», nato d’una di quelle anime, «fece un groppo», cioè un nodo,
forse sperando per quello non doverlo di quivi poter muovere le cagne,
le quali il seguivano.
«Di dietro a loro», cioè a questi che fuggivano, «era la selva piena
Di nere cagne, bramose e correnti, Come veltri ch’uscisser di catena.
In quel che s’appiattò», cioè in questo secondo, che avea fatto un
groppo di sé e d’un cespuglio, «miser li denti», quelle cagne, «E quel
dilacerâro a brano a brano, Poi sen portâr quelle membra dolenti», del
dilacerato.
«Presemi allor lo mio duca per mano, E», lasciato stare maestro Piero
delle Vigne, «menommi al cespuglio», col quale colui s’era aggroppato,
«che piangea, Per le rotture sanguinenti», fattegli nello schiantar de’
rami, che avvenne nell’impeto delle cagne, «invano»: perciò dice che
esso piagneva invano, percioché non dovea per lo pianto suo minuirgli
la pena. E poi dimostra l’autore quello che questo spirito piagnendo
diceva, cioè:—«O Giacomo—dicea—da Sant’Andrea»; cosí mostra che
fosse nominato quello spirito, il quale le cagne avevano lacerato.
Fu adunque costui Giacomo della cappella di Santo Andrea di Padova, il
quale rimase di maravigliosa ricchezza erede, e quella tutta dissipò
e gittò via; e tra l’altre sue bestiali operazioni si racconta che,
disiderando di vedere un grande e bel fuoco, fece ardere una sua ricca
e bella villa; ultimamente divenne in tanta povertá e in tanta miseria,
quanto alcuno altro divenisse giammai. Laonde creder si può che esso
molte volte piagnesse quello che stoltamente avea consumato, e di che
egli dovea consolatamente poter vivere; e perciò il pone l’autore,
sí come peccatore che usò man violenta nelle proprie cose, in questo
cerchio. E segue poi l’autore il rammarichío del cespuglio, dicendo che
dicea il cespuglio: «Che t’è giovato di me fare schermo?», quasi dica:
niente, percioché tu non se’ scampato da’ denti delle cagne che ti
seguivano, e a me hai aggiunta pena. E ancor séguita: «Che colpa ho io
della tua vita rea?»—cioè, se tu sapesti, vivendo, sí mal governare il
tuo, che tu ne sii dannato a questa pena?
«Quando ’l maestro fu sovr’esso fermo», cioè sopra questo cespuglio,
«Disse:—Chi fosti, che per tante punte», delle cime del suo albero
schiantate, «Soffi», cioè soffiando mandi fuor per quelle punte, «con
sangue doloroso sermo?».—
«E quegli a noi», disse:—«O anime, che giunte», cioè pervenute,
«Siete a veder lo strazio disonesto», fatto di quel peccatore, il
quale a questo mio bronco s’era aggroppato, e «C’ha le mie fronde sí
da me disgiunte, Ricoglietele al piè del tristo cesto», di questo mio
cespuglio. E quinci, senza nominarsi, dice solamente la cittá lá onde
egli fu, e ancora qual quella fosse mostra per alcuna circunscrizione,
dicendo: «Io fui della cittá che nel Batista Mutò il primo padrone».
[Lez. LI]
A dichiarazione delle quali parole è da sapere che, secondo che
alcuni hanno opinione, quando la cittá di Firenze fu da prima posta,
era signor dell’ascendente Marte; e per questo, coloro li quali la
posono, essendo pagani, presero per loro protettore e maggiore iddio
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