Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - 14

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«Poiché la caritá del natio loco», ecc. Poiché l’autore ne’ precedenti
due canti, per dimostrazion della ragione, ha vedute e conosciute le
colpe e i supplici per quelle dati dalla divina giustizia alle due
spezie de’ violenti, cioè a coloro li quali usaron violenza verso il
prossimo e contro alle cose di quello, e a coloro li quali usarono
violenza nelle proprie persone e nelle loro medesime cose; esso,
seguitando la ragione, in questo canto ne dimostra come vedesse punire
la terza spezie dei violenti, cioè coloro li quali usaron violenza
nella deitá e nelle sue cose. E costoro dimostra esser in tre parti
divisi, si come contro a tre cose peccarono, cioè contro a Dio, e
appresso contro alla natura, e, oltre a ciò, contro all’arte, le quali
son cose di Dio. E, comeché in tre parti divisi sieno, nondimeno ad
un medesimo tormento esser dannati gli dimostra, in quanto tutte e
tre maniere sono in una ardentissima rena, e sotto continuo fuoco,
che piove loro addosso, tormentati; ma in tanto son differenti, che
coloro, li quali nella divinitá si sforzaron di far violenza, sono
sopra la detta rena ardente a giacere supini, sopra sé ricevendo lo
’ncendio, il quale continuo cade loro addosso; e coloro, li quali
fecero violenza alla natura, sono in continuo movimento sopra la detta
rena, similmente sopra sé ricevendo l’arsura; e coloro, li quali contro
all’arte adoperarono, sempre sopra la detta rena seggono, infestati
dalle fiamme che piovono. E. percioché, si come chiaro si vede, hanno
la maggior parte del tormento comune, estimo, se separata mente di
ciascuno dicessi l’allegoria, si converrebbe una medesima cosa piú
volte ripetere, il che sarebbe tedioso e fatica superflua; e però,
per fuggire questo inconveniente, mi pare debba essere il migliore il
dovere in una sola parte di tutte e tre maniere trattare. E questo, sí
com’io credo, sará piú utile a dover dire nella fine di tutte e tre
le maniere de’ puniti, che nel principio o nel mezzo; e però nella
fine del canto diciassettesimo, nel quale di loro la dimostrazion si
finisce, come conceduto mi fia, m’ingegnerò d’aprire qual fosse intorno
a ciò la ’ntenzion dell’autore.
Appresso questo, è da dichiarare nel presente canto quello che l’autore
intenda per la statua la quale egli discrive, e per le rotture che
in essa sono, e per i quattro fiumi che da essa procedono; e intorno
a ciò è prima da vedere quello che l’autore abbia voluto sentire,
avendo questa statua piú tosto figurata nell’isola di Creti che in
altra parte del mondo; appresso, perché nella montagna chiamata Ida;
e, oltre a ciò, quello che esso senta per i quattro metalli e per la
terracotta, de’ quali esso la forma; e similmente quello che voglia che
noi intendiamo per le fessure, le quali in ciascun degli altri metalli,
fuor che nell’oro, sono, e le lagrime che d’esse escono; e ultimamente
quello che egli per li quattro fiumi abbia voluto.
Dice adunque primieramente questa statua essere locata nell’isola di
Creti: la qual cosa senza grandissimo sentimento non dice, percioché
alla sua intenzione è ottimamente il luogo e il nome conforme.
Intendendo adunque l’autore di volere, poeticamente fingendo, fare
una dimostrazione, la quale cosí all’indiano come allo ispagnuolo,
e all’etiopo come all’iperboreo appartiene, e dalla quale né paese,
né regno, né nazione alcuna, dove che ella sopra la terra sia, non è
chiusa; estimò esser convenevol cosa quella dover fingere in quella
parte del mondo, la quale a tutte le nazioni fosse comune, ed egli non
è nel mondo alcuna parte, che a tutte le nazioni dir si possa comune,
se non l’isola di Creti, sí come io intendo di dimostrare.
Piacque agli antichi che tutto il mondo abitabile in questo nostro
emisperio superiore fosse in tre parti diviso, le quali nominarono
Asia, Europa e Affrica; e queste terminarono in questa guisa. E
primieramente Asia dissono essere terminata dalla parte superiore del
mare Oceano, cominciando appunto sotto il settentrione, e procedendo
verso il greco, e di quindi verso il levante, e dal levante verso lo
scilocco, infino all’Oceano etiopico posto sotto il mezzodí; e poi
dissero quella essere separata dall’Europa dal fiume chiamato Tanai, il
quale si muove sotto tramontana, e, venendone verso il mezzodí, mette
nel mar Maggiore; il qual similmente, queste due parti dividendo con
l’onde sue, e continovandosi per lo stretto di Costantinopoli, e quindi
per lo mare chiamato Propontide, e per lo stretto d’Aveo, esce nel mare
Egeo, il quale noi chiamiamo Arcipelago, e perviene infino all’isola
di Creti, la quale è in su lo stremo del detto mare; di verso mezzodí
la dividono dall’Affrica col corso del fiume chiamato Nilo, il quale
per l’Etiopia correndo, e venendo verso tramontana, lasciata l’isola di
Meroe, e venendose ne in Egitto, e quello col piú occidental suo ramo
inchiudendo in Asia, mette nel mare Asiatico, il quale perviene dalla
parte del levante infino all’isola di Creti. Poi confinano Affrica dal
detto corso del Nilo per terra, e dal mare Oceano etiopico, infino al
mare Oceano atalantico, il quale è in occidente; e di verso tramontana
dicono quella essere terminata dal mare Mediterraneo, il qual perviene
in quello che ad Affrica appartiene infino all’isola di Creti, e
quella bagna dalla parte del mezzodí, e in parte dalla parte di ver’
ponente. Europa confinano dalla parte di ver’ levante dallo estremo
del mare Egeo, e dallo stretto d’Aveo, e dal mar chiamato Proponto, e
dallo stretto di Costantinopoli, e dal mar Maggiore, e dal corso del
fiume Tanai; dalla parte di tramontana dall’Oceano settentrionale,
il quale, dichinando verso l’occidente, bagna Norvea, l’Inghilterra
e le parti occidentali di Spagna, insino lá dove comincia il mare
Mediterraneo; appresso di verso mezzodí dicono lei esser terminata
dal mare Mediterraneo, il quale è continuo col mare, il quale dicemmo
Affricano; e cosí come quello che verso Affrica si distende, chiamano
Affricano, cosí questo, Europico, il quale si stende infino all’isola
di Creti, dove dicemmo terminarsi il mare Egeo. E cosí l’isola di
Creti appare essere in su ’l confine di queste tre parti del mondo. E,
dovendo di cosa spettante a ciascuna nazione, come predetto è, fingere
alcuna cosa, senza alcun dubbio in alcuna altra parte non si potea
meglio attribuire la stanza alla essenza materiale della fizione che in
sui confini di tutte e tre le parti del mondo, sopra i quali è posta
l’isola di Creti, come dimostrato è.
È il vero che questa dimostrazione riguarda piuttosto al rimuovere quel
dubbio, che intorno alla esposizion litterale si potrebbe fare, che ad
alcun senso allegorico, che sotto la lettera nascoso sia: e perciò,
quantunque assai leggiermente veder si possa, per le cose dette, quello
che sotto la corteccia letterale è nascoso, nondimeno, per darne alcuno
piú manifesto senso, dico potersi per l’isola di Creti, posta in mezzo
il mare, intendersi l’universal corpo di tutta la terra, la quale,
come assai si può comprendere per li termini disegnati di sopra alle
tre parti del mondo, è posta nel mezzo del mare, in quanto è tutta
circundata dal mare Oceano, e cosí verrá ad essere isola come Creti;
e dagli abitanti in essa tutto quello è addivenuto, che l’autore
intende di dimostrare nella seguente sua fizione. E questo pare assai
pienamente confermare il nome dell’isola, il quale esso appella Creta,
conciosiacosaché «Creta» nulla altra cosa suoni che la «terra»; e cosí
il nome si conforma, come davanti dissi, all’intenzion dell’autore,
in quanto in Creti, cioè nella terra, prenda inizio quello che esso
appresso dimostra, cioè negli uomini, i quali nulla altra cosa, quanto
al corpo, siamo che terra.
Ma, per lasciare qualche cosa a riguardare all’altezza degl’ingegni
che appresso verranno, senza piú dir del luogo nel quale l’autore
disegna la sua fizione, passeremo a quello che appresso segue, lá
dove dice che in una montagna chiamata Ida sta diritta la statua d’un
gran veglio. Per la quale, secondo il mio giudicio, l’autore vuol
sentire la moltitudine della umana generazione, quella figurando
ad un monte, il quale è moltitudine di terra accumulata, o dalla
natura delle cose o dall’artificio degli uomini, e chiamasi questo
monte Ida, cioè formoso, in quanto, per rispetto dell’altre creature
mortali, l’umana generazione è cosa bellissima e formosa; dentro alla
quale l’autore dice esser diritto un gran veglio, percioché dentro
all’esistenza, lungamente perseverata dell’umana generazione, si sono
in vari tempi concreate le cose, le quali l’autor sente per la statua
da lui discritta, la quale per ciò dice stare eretta, perché ancora
que’ medesimi effetti, che, giá son piú migliaia d’anni, cominciarono,
perseverano. E, fatta la dimostrazione del luogo universale, e ancora
del particulare, discrive l’effetto formale della sua intenzione, il
qual finge in una statua simile quasi ad una, la quale Daniel profeta
dimostra essere stata veduta in sogno da Nabucdonosor re. Ma non
ha nella sua l’autor quella intenzione, la qual Daniello dimostra
essere in quella, la quale dice essere stata veduta da Nabucdonosor;
percioché, dove in quella Daniel dimostra a Nabucdonosor significarsi
il suo regno e alcune sue successioni, in questa l’autore intende
alcuni effetti seguíti in certe varietá di tempi, cominciate dal
principio del mondo infino al presente tempo.
Dice adunque primieramente questa statua, la qual discrive, essere
d’un uomo grande e vecchio, volendo per questi due adiettivi
dimostrare, per l’uno la grandezza del tempo passato dalla creazion
del mondo infino ai nostri tempi, la quale è di seimila cinquecento
anni, e per l’altro la debolezza e il fine propinquo di questo tempo;
percioché gli uomini vecchi il piú hanno perdute le forze, per lo
sangue il quale è in loro diminuito e raffreddato; e, oltre a ciò, al
processo della lor vita non hanno alcuno altro termine che la morte,
la quale è fine di tutte le cose. Appresso dice che tiene vòlte le
spalle verso Damiata, la quale sta a Creti per lo levante; volendo per
questo mostrare il natural processo e corso delle cose mondane, le
quali, come create sono, incontanente volgono le spalle al principio
loro, e cominciano ad andare e a riguardare verso il fine loro; e per
questo riguarda verso Roma, la quale sta a Creti per occidente. E dice
la guata come suo specchio: sogliono le piú delle volte le persone
specchiarsi per compiacere a se medesime della forma loro; e cosí
costui, cioè questo corso del tempo, guarda in Roma, cioè nelle opere
de’ romani, per compiacere a se medesimo di quelle le quali in esso
furon fatte, sí come quelle che, tra l’altre cose periture fatte in
qualunque parte del mondo, furono di piú eccellenzia e piú commendabili
e di maggior fama; e, oltre a ciò, si può dir vi riguardi per
dimostrarne che, poiché le gran cose di Roma e il suo potente imperio
è andato e va continuo in diminuzione, cosí ogni cosa dagli uomini nel
tempo fatta, similmente nel tempo perire e venir meno.
Susseguentemente dice questa statua esser di quattro metalli e di
terracotta, primieramente dimostrando questa statua avere la testa di
fino oro; volendo che, come la testa è nel corpo umano il principal
membro, cosí per essa noi intendiamo il principio del tempo e quale
esso fosse. E noi intendiamo per lo _Genesi_ che nella prima creazione
del mondo, nella quale il tempo, che ancora non era, fu creato da Dio,
fu similmente creato Adamo, per lo quale e per li suoi discendenti
doveva essere il tempo usato: e, percioché Adamo nel principio della
sua creazione ottimamente alcuno spazio di tempo adoperò, e questo fu
tanto, quanto egli stette infra’ termini comandatigli da Dio; vuole
l’autore esser la testa, cioè il cominciamento del tempo, d’oro, cioè
carissimo e bello e puro, sí come l’oro è piú prezioso che alcuno
metallo; e cosí intenderemo, per questa testa d’oro, il primo stato
dell’umana generazione, il quale fu puro e innocente, e per conseguente
carissimo.
Dice appresso che puro argento sono le braccia e ’l petto di questa
statua, volendo per questo disegnare che, quanto l’ariento è piú lucido
metallo che l’oro, in quanto egli è bianchissimo (e il bianco è quel
colore che piú ha di chiarezza); cosí, dopo la innocenza de’ primi
parenti, l’umana generazione essere divenuta piú apparente e piú chiara
che prima non era, intanto che, mentre i primi parenti servarono il
comandamento di Dio, essi furon soli e senza alcuna successione; ma,
dopo il comandamento passato, cacciati del paradiso, e venuti nella
terra abitabile, generaron figliuoli e successori assai, per la qual
cosa in processo di tempo apparve nella sua moltitudine la chiarezza
della generazione umana, la quale, quantunque piú bellezza mostrasse di
sé, non fu però cara né da pregiare quanto lo stato primo, figurato per
l’oro. E per questo la figura di metallo molto men prezioso che l’oro.
Oltre a ciò, dice questa statua esser di rame infino alla ’nforcatura,
volendone per questo dimostrare, in processo di tempo, dopo la
chiarezza della moltitudine ampliata sopra la terra, essere avvenuto
che gli uomini, dalla ammirazion de’ corpi superiori, e ancora dagli
ordinati effetti della natura nelle cose inferiori, cominciarono a
speculare, e dalla speculazione a formare le scienze, l’arti liberali
e ancora le meccaniche, per le quali, sí come il rame è piú sonoro
metallo che alcuno de’ predetti, divennero gli uomini fra se medesimi
piú famosi e di maggior rinomèa che quegli davanti stati non erano. Ma,
percioché, come per lo cognoscimento delle cose naturali e dell’altre
gli uomini divennero piú acuti e piú ammaestrati e piú famosi, cosí
ancora piú malvagi, adoperando le discipline acquistate piú tosto in
cose viziose che in laudevoli; è questa qualitá di tempo discritta
esser di rame, il quale è metallo molto piú vile che alcun de’
sopradetti.
Appresso dice che questa statua dalla ’nforcatura in giú è tutta di
ferro eletto, volendo per questo s’intenda esser, successivamente alle
predette, venuta una qualitá di tempo, nella quale quasi universalmente
tutta l’umana generazione si diede all’arme e alle guerre, con la forza
di quelle occupando violentamente l’uno la possessione dell’altro.
E di questi, secondo che noi abbiam per l’antiche istorie, il primo
fu Nino, re degli assiri, il quale tutta Asia si sottomise, e quinci
discesero l’arme a’ medi e a’ persi, e da questi a’ greci e a’ macedoni
e a’ cartaginesi e a’ romani, li quali con quelle l’universale imperio
del mondo si sottomisero. E similmente, essendosi questa pestilenza
appiccata a’ re e a’ popoli e alle persone singulari, quantunque alcuno
principal dominio oggi non sia, persevera nondimeno nelle predette
particulari la rabbia bellica, intanto che regione alcuna sopra la
terra non si sa, che da guerra e da tribulazione infestata non sia.
E, percioché gl’istrumenti della guerra il piú sono di ferro, figura
l’autore questa qualitá di tempo esser di ferro: volendo, oltre a ciò,
sentire che, sí come il ferro è metallo che ogni altro rode, cosí la
guerra essere cosa la quale ogni mondana sustanza rode e diminuisce.
Ultimamente dice il piè destro di questa statua esser di terracotta,
volendone primieramente per questo mostrare esser tempo venuto, la
cui qualitá è, oltre ad ogni altra di sopra discritta, vile, e tanto
piú quanto i metalli predetti sono d’alcun prezzo, e la terracotta è
vilissima; e, oltre a questo, che, essendo ne’ metalli detti alcuna
fermezza, alcuna natural forza, e la terracotta sia fragile, e con
poca difficultá si rompa e schianti e spezzi: cosí le cose di questo
ultimo tempo sian fragili, non solo naturalmente, ma ancora per la
fede venuta meno, la quale soleva esser vincolo e legame, che teneva
unite e serrate insieme le compagnie degli uomini. E, a dimostrarne
le cose temporali esser propinque al fine suo, primieramente ne dice
il piè esser di questa vil materia; il quale è l’ultimo membro del
corpo, percioché, oltre a quello, alcuno inferiore non abbiamo; e,
come esso è quello sopra il quale tutto il nostro corpo si ferma, cosí
sopra questa vii materia tutto il lungo corso del tempo si termina; e
perciò dice che il piè di questa statua, il quale è di terracotta, è
il destro, e che questa statua sopra quello, piú che sopra l’altro,
sta eretta, cioè fermata. Vuole adunque questo piede essere il destro,
a dimostrarne che ogni cosa naturalmente si ferma sopra quella cosa,
sopra la qual crede piú perseverare in essere; e perciò questa statua
si ferma piú in sul destro piè, percioché nel destro piè, e in
ciascuno altro membro destro, è piú di forza che ne’ membri sinistri,
come di sopra è dimostrato. Ma questa fermezza non può molto durare,
percioché, quantunque la terracotta sostenga alcun tempo alcuna
gravezza, nondimeno, perseverando pure il peso, ella scoppia e dividesi
e rompesi, e cosí cade e spezzasi ciò che sopra v’era fermato: e cosí
ne dimostra il corso del tempo. fermato sopra cosí fragile materia,
non dovere omai lungamente perseverare, ma, vegnendo il dí novissimo,
appresso il quale Domeneddio dee, secondo che nell’_Apocalissi_ si
legge, fare il ciel nuovo e la terra nuova, né piú si produceranno
uomini né altri animali, verrá la fine di questo tempo. Il qual tempo
percioché è stato comune ad ogni nazione, l’ha voluto in questa statua
l’autore dimostrare in luogo ad ogni nazion comune, come davanti è
dimostrato.
Poi, deducendosi l’autore alla intenzion sua finale, dice che ogni
parte di questa statua, fuori che quella la quale è d’oro, è rotta
d’una fessura, della quale gocciano lagrime, intendendo per questo
mostrarne perché tutto questo, che poetando ha discritto, abbia
detto, cioè per farne chiari da qual cagione nata sia l’abbondanza
delle miserie infernali. La qual cagione accioché non si creda pur
ne’ presenti secoli avere avuto origine, dice che incominciò infino
a quella qualitá di tempo, la quale appresso della testa dell’oro di
questa statua è disegnata, cioè dopo l’esser cacciati i primi parenti
di paradiso; volendo per questa rottura intendersi la rottura della
integritá della innocenza o della virtuosa e santa vita, le quali, col
malvagio adoperare e col trapassare i comandamenti di Dio, son rotte e
viziate: e da queste eccettua l’autore la parte dell’oro, mostrando in
quella non essere alcuna rottura, percioché fu tutta santa e obbediente
al comandamento divino. E cosí dobbiam comprendere che le malvagie
operazioni e inique degli uomini, di qualunque paese o regione, sono
state cagione e sono delle lagrime, le quali caggiono delle dette
rotture, cioè de’ dolori e delle afflizioni, le quali per le commesse
colpe dalla divina giustizia ricevono i dannati in inferno; mostrandone
appresso queste cotali lagrime, cioè mortali colpe, dal presente mondo
discendere nella misera valle dello ’nferno, con coloro insieme li
quali commesse l’hanno; e in inferno, cioè nella dannazion perpetua,
fare quattro fiumi, cioè quattro cose, per le quali si comprende
l’universale stato de’ dannati. E nomina questi quattro fiumi, il primo
Acheronte, il secondo Stige, il terzo Flegetonte, il quarto e ultimo
Cocíto: volendo per Acheronte intendere la prima cosa, la quale avviene
a’ dannati.
È Acheronte, come di sopra alcuna volta è stato detto, interpetrato
«senza allegrezza»: per la quale interpetrazione, assai chiaro si
conosce colui, il quale per lo suo peccato discende in perdizione,
avanti ad ogni altra cosa perdere l’allegrezza dell’eterna beatitudine,
la quale gli era apparecchiata, se voluto avesse seguire i comandamenti
di Dio. Appresso intende l’autore per Istige, il quale è interpetrato
«tristizia», quello che il misero peccatore, avendo per le sue iniquitá
perduta l’allegrezza di vita eterna, abbia acquistato, che è tristizia
perpetua; percioché, come l’uom si vede perdere, dove estimava o dove
gli bisognava di guadagnare, incontanente s’attrista. Ma, percioché la
tristizia non è termine finale della miseria del dannato, séguita il
terzo fiume chiamato Flegetonte, il quale è interpetrato «ardente»;
volendo per questo ardore darne l’autore ad intendere che, poi che il
peccatore è divenuto nella tristizia della sua perdizione, incontanente
diviene nell’ardore della gravitá de’ supplici, li quali con tanta
angoscia il cuocono e cruciano e faticano, che esso incontanente
diviene nel quarto fiume, cioè nel Cocíto. Il quale è interpetrato
«pianto», percioché, trafiggendo l’ardore delle pene eternali alcuno,
esso incontanente comincia a piangersi e a dolersi e a rammaricarsi: e
questo pianto non è a tempo, anzi, sí come lo stagno mai non si muove,
cosí questo pianto infernale mai non si muove, sí come quello che dee
in perpetuo perseverare. E cosí, dal cominciamento del mondo insino a
questo dí, dalle malvagie operazion degli uomini si cominciarono questi
quattro miseri accidenti, li quali in forma di quattro fiumi discrive,
per li quali l’abbondanza delle miserie delle pene infernali e de’
ricevitori di quelle sono non solamente perseverate, ma aumentate, e
continuamente s’aumentano, e stanno e staranno infino a tanto che la
presente vita persevererá.


CANTO DECIMOQUINTO

[Lez. LVI]
«Ora cen porta l’un de’ duri margini», ecc. Continuasi l’autore al
precedente canto, in quanto nella fine d’esso mostra che gli argini di
quel ruscelletto, il quale per la rena arsiccia correa, fanno via a chi
vuole giú discendere, non essendo di quegli li quali sono a quella pena
dannati; e nel principio di questo dimostra come su per l’uno delli
detti argini con Virgilio andava. E dividesi questo canto in due parti:
nella prima discrive l’autore la qualitá del luogo, e massimamente
degli argini sopra li quali andava, la qualitá di quegli dando, con
alcuna dimostrazion d’esempli, ad intendere; nella seconda dimostra
come da una schiera d’anime dannate in quel luogo guatato fosse, e
riconosciuto da ser Brunetto Latino, e come con lui della sua fortuna
futura lungamente parlasse. E comincia questa seconda quivi: «Giá
eravam dalla selva».
Dice adunque primieramente: «Ora cen porta l’un de’ duri margini». E
in quanto dice «cen porta», parla impropriamente, percioché il portare
appartiene alle cose mobili, come sono i cavalli, gli uomini e le
navi e le carra e simili cose, e non alle cose che non si muovono,
ché san di quelle quei margini; e perciò si dee intendere che essi,
se medesimi portando, andavano su per l’uno de’ detti margini. E dice
«l’uno», percioché nel precedente canto ha mostrato quegli essere due.
E similmente dice «duri», perché questo ancora ha davanti mostrato, che
ambo le pendici, cioè gli argini o margini del predetto fiumicello,
erano divenuti di pietra. E, a rimuovere un dubbio, il quale alcun
potrebbe muovere, dicendo: come andavan costoro sotto lo ’ncendio delle
fiamme, le quali continuamente in quel luogo cadevano? segue e dice: «E
’l fummo del ruscel», cioè che surgea del ruscello, come veggiamo di
molti fiumi e altre acque fare, «di sovra aduggia», cioè ricuoprendo
fa uggia, la quale, come nel precedente canto ha detto, ammorta le
dette fiamme che sopra esso cadessero, «Sí che dal fuoco salva l’acqua
e gli argini», infra li quali s’inchiude. E sono questi argini grotte
fatte per forza alle rive de’ fiumi, accioché, crescendo essi, l’acqua
non allaghi i campi vicini. E, accioché egli dea piú piena notizia di
questi argini, per due esempli dimostra la lor qualitá, primieramente
dicendo:
«Quale i fiamminghi tra Guzzante e Bruggia»; due terre di Fiandra
poste sopra il mare Oceano, il quale è tra Fiandra e l’isola
d’Inghilterra; «Temendo ’l fiotto», del mare, «che ver’ lor s’avventa»,
sospinto dall’impeto del moto naturale del mare Oceano, «Fanno lo
schermo», cioè il riparo, il quale è gli argini altissimi e forti,
«perché ’l mar si fúggia», cioè, poi che percosso ha ne’ detti margini,
senza piú venire avanti, si ritragga indietro. È qui da sapere che
il mare Oceano, essendone, secondo che alcuni vogliono, cagione il
moto della luna, sempre infra ventiquattro ore, le quali sono un dí
naturale, si muove due volte di levante inver’ ponente, e altrettante
si torna di ponente inver’ levante; e quando di ver’ levante viene
inver’ ponente, viene con tanto impeto, che esso, giugnendo alle marine
a lui contermine, si sospigne avanti infra terra in alcuni luoghi per
molto spazio, e cosí poi, ritraendosi, lascia quelle terre espedite, le
quali aveva occupate. E questo suo movimento entra con tanta forza nel
mare Mediterraneo, che in assai luoghi, e massimamente nella cittá di
Vinegia, si pare. E chiamano i navicanti questo movimento il «fiotto»:
e questo è quello del quale l’autore intende qui, e contro al quale
dice che i fiamminghi fanno riparo.
Appresso dimostra l’autore, per lo secondo esemplo, la qualitá degli
argini del detto fiumicello, dicendo: «E quale i padovan lungo la
Brenta». Padova è una cittá molto antica, la quale Tito Livio, il
qual fu cittadino di quella, e Virgilio e altri molti dicono che,
dopo la distruzione di Troia, fu composta da Anténore troiano, il
quale, partitosi da Troia, con certi popoli chiamati eneti, stati di
Paflagonia, quivi dopo lunga navigazione pervenne, e, cacciati della
contrada gli antichi abitanti, li quali si chiamavano euganei, compose
la detta cittá, e fu il suo nome Patavo; e, oltre a questo, occupò una
gran provincia, sí come da Padova infino a Bergamo e poi da Padova
infino al Friuli, e quella da’ suoi eneti, aggiunta una lettera al
nome loro, chiamò Venezia. Allato a questa cittá corre un fiume il
qual si chiama Brenta, e nasce nelle montagne di Chiarentana, la quale
è una regione posta nell’Alpi, che dividono Italia dalla Magna. La
qual contrada è freddissima, e caggionvi grandissime nevi, le quali
non si risolvono infino a tanto che l’aere non riscalda, del mese di
maggio o all’uscita d’aprile; e allora, risolvendosi, cascano l’acque
di quelle nella Brenta, e fannola maravigliosamente crescere; e, se
racchiusa non fosse, come discende al piano, infra alti e fortissimi
argini, li quali quelli della contrada fanno, essa allagherebbe tutta
la contrada, e guasterebbe le strade, le biade e il bestiame, del quale
v’ha grandissima quantitá. E perciò dice l’autore che i padovani,
cioè quegli del distretto di Paùova, fanno simiglianti schermi che
i fiamminghi, cioè argini, «Per difender lor ville e lor castelli»,
cioè i campi e’ lavorii delle villate e delle castella, le quali per
lo piano di Padova sono; e questo fanno «Anziché Chiarentana», cioè
la neve la quale è in Chiarentana, «il caldo senta», della state, la
quale s’appropinqua. E, questi due esempli posti, dice che «A tale
immagine», cioè similitudine, «eran fatti quelli», li quali lungo
questo fiumicello erano, «Tutto», cioè posto, «che né si alti né sí
grossi», come quegli che fanno i fiamminghi e’ padovani, «Qual che si
fosse, lo maestro félli», cioè gli fece.
«Giá eravam dalla selva rimossi», cioè dal bosco, del quale di sopra
ha detto nel canto decimoterzo; «Tanto, ch’ io non avrei visto», cioè
veduto, «dov’era, Per ch’io ’ndietro rivolto mi fossi», a riguardare;
e ciò fu «Quando incontrammo d’anime», dannate, «una schiera»,
cioè molte, «Che venien lungo l’argine», sopra’l quale andavamo,
«e ciascuna», di quelle, «Ci riguardava come suol da sera», cioè
nel crepuscolo, che non è dí e non è notte, «Guardare uno», cioè
alcuno, «altro», cioè alcuno altro, «sotto nuova luna», cioè essendo
la luna nuova, la quale, percioché poca luce puote ancora avere o
dare, non ne fa tanta dimostrazione quanto alla vera conoscenza
delle cose bisognerebbe; «E si», cioè e cosí, «ver’ noi aguzzavan
le ciglia. Come vecchio sartor fa nella oruna», dell’ago, quando il
vuole infilare. Questo avviene per difetto degli spiriti visivi, li
quali, o da grossezza o da altra cagione impediti, quando non posson
ben comprendere le cose opposite, ne stringono ad aguzzar le ciglia,
percioché in quello aguzzar le ciglia ristrignamo in minor luogo la
virtú visiva, e, cosí ristretta, diviene piú acuta e piú forte al suo
uficio; cosí dunque, dice, facevan quelle anime per lo luogo nel quale
era poca luce. «Cosí», come di sopra è dimostrato, «adocchiato», cioè
riguardato, «da cotal famiglia», quale era quella che quivi passava,
«Fui conosciuto da un», di loro, «che mi prese Per lo lembo», del
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