Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - 03

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furie, tre, e, secondo che pare che tutti tengano, furono figliuole
d’Acheronte, fiume infernale, e della Notte; e che esse fossono
figliuole d’Acheronte il testimonia Teodonzio; e che esse fossero
figliuole della Notte, appare per Virgilio, il quale, cosí scrivendo,
il dimostra:
_Dicuntur geminae pestes, cognomine Dirae,
quas et Tartaream nox intempesta Megaeram
uno eodemque tulit partu,_ ecc.
E, secondo che essi vogliono, queste son diputate al servigio di Giove
e di Plutone, sí come per Virgilio appare, dove scrive:
_Hae Iovis ad solium, saevique in limine regis
apparent, acuuntque metum mortalibus aegris
si quando lethum horrificum morbosque deum rex
molitur meritis, aut bello territat urbes_, ecc.
E i loro nomi sono Aletta, Tesifone e Megera, come nel testo dimostra
l’autore. E, oltre a questi, hanno altri piú nomi, e massimamente in
diversi luoghi, percioché chiamate sono «cani infernali», sí come per
li versi di Lucano si comprende, quando dice:
_Iam vos ego nomine vero_
_eliciam, Stygiasque canes in luce superna
destituam_, ecc.
Sono, oltre a questo, appo noi chiamate «furie» dallo effetto loro, sí
come per Virgilio appare, dove dice:
_... caeruleis unum de crinibus anguem_
_coniicit, inque sinum praecordia ad intima subdit,
quo furibunda domum monstro permisceat omnem_.
E ancora appo noi son chiamate «eumenide», sí come ne dimostra Ovidio
dicendo:
_Eumenides tenuere faces de funere raptas_, ecc.
E questo è assai chiaro essere intervenuto appo noi in uno sventurato
matrimonio. Appo i superiori iddii sono appellate «dire», come per
Virgilio si può vedere:
_At procul ut Dirae stridorem agnovit et alas,
infelix crines scindit Iuturna solutos_, ecc.
Fu Iuturna dea, e questo stridor di queste dire il cognobbe in cielo
non in terra. Sono appresso da Virgilio chiamate «uccelli» in questi
versi:
_Iam iam linquo acies: ne me terrete timentem
obscoenae volucres: alarum verbera nosco_, ecc.
Oltre a questo, dice Teodonzio queste furie, appo coloro li quali
abitano alle marine, esser chiamate «arpie».]
[Discrivonle similmente con orribili forme, le quali, percioché
dall’autore discritte in parte sono, lasceremo stare al presente.]
[Attribuiscono, oltre alle cose dette, a ciascuna di queste furie
singulare oficio e spaventevole. E primieramente l’uficio attribuito ad
Aletto appare per questi versi di Virgilio:
_Cui tristia bella_
_iraeque insidiaeque et crimina noxia cordi.
Odit et ipse pater Pluton, odére sorores
Tartareae monstrum; tot sese vertit in ora,
tam saevae facies, tot pullulat atra colubris_.
E un poco appresso séguita:
_Tu potes unanimes armare in praelia fratres
atque odiis versare domos; tu verbera tectis
funereasque inferre faces; tibi nomina mille,
mille nocendi artes_, ecc.
A Tesifone dicono quello appartenersi che per gl’infrascritti versi
appare; e prima Virgilio dice di lei:
_Egrediturque domo, luctus comitatur euntem,
et pavor et terror trepidoque insania vultu_, ecc.
A’ quali aggiugne Stazio, dicendo:
_Suffusa veneno_
_tenditur, ac sanie gliscit cutis: igneus atro
ore vapor, quo longa sitis morbique famesque
et populis mors una venit_, ecc.
A Megera similmente aspetta quello che per gli infrascritti versi di
Claudiano si può comprendere, dove nel libro _De laudibus Stiliconis_,
dice:
_Quam penes insani fremitus, animique prophanus
error, et undantes spumis furialibus irae,
non nisi quaesitum cognata caede cruorem,
illicitumque bibit patrius, quem fuderat ensis,
quem dederint fratres_, ecc.]
[Ma, accioché noi possiam vedere quello che alla presente intenzione
è di bisogno, si vuol guardare ciò che sotto cosí mostruose favole
sentissono i poeti, e primieramente quel che volessero dire queste
furie essere state figliuole d’Acheronte e della Notte. Della qual cosa
pare che questa possa essere la ragione: pare che sia di necessitá
che, avendo noi separata la ragione e seguendo l’appetito, che, non
avvegnendo le cose secondo che noi disideriamo, ne debba turbazion
seguitare, la quale ha a tôrre da noi e a rimuovere allegrezza: la qual
perturbazion non si riceve se non per malvagio giudicio, procedente da
animo offuscato da ignoranza; e perseverando la perturbazione, e, come
il piú delle volte avviene, divegnendo, per la perseveranza, maggiore,
convien che proceda ad alcuno atto, sí come quella che continuamente
molesta il perturbato: e questo atto non regolato dalla ragione sará
di necessitá furioso. Per la qual cosa assai convenevolmente si può
comprendere questo atto furioso esser nato dall’aver cacciata la
letizia e la quiete della mente per la turbazion presa: e questo
primo atto potersi chiamare Acheronte, che tanto vuol dire quanto
«senza allegrezza». E appresso, avere la perturbazion ricevuta, essere
avvenuto per ignoranzia d’animo: e la ignoranzia è similissima alla
notte. E cosí, questa seconda cagione, cioè la notte della ignoranza,
aver causata la furia della turbazion seguita. E cosí si può dire le
furie esser figliuole d’Acheronte e della Notte.]
[Esser queste furie poste al servigio di Plutone, intendendo lui per
lo ’nferno, attissimamente si può comprendere e concedere essere stato
fatto, percioché, sí come noi veggiamo per li loro effetti, infinite
anime traboccano in quello; ma che esse al servigio di Giove sieno, par
da maravigliare, conciosiacosaché Iddio sia in tutto contrario ad esse,
come colui che in tutte le sue operazioni è pieno d’ottimo consiglio,
di pace, di mansuetudine e di misericordia. Ma intorno a questo si può
cosí dire: i nostri peccati son tanti, che noi con la nostra perfidia
vinciamo la divina pazienza, e commoviamla a dovere operare contra
di noi; per la qual cosa esso Iddio (sí come egli dice nel Vangelio:
«Io pagherò il nimico mio col nimico mio»), permette a queste furie,
quantunque sue nemiche sieno, l’adoperare contra di noi; per la qual
cosa, per opera di quelle, le tempeste, le fami, le mortalitá e le
guerre vengono sopra di noi. E per questa cosí fatta permissione si
posson dire essere e star davanti a Giove e al servigio suo.]
[Appresso è da vedere quel che volesser gli antichi per li nomi di
queste furie sentire: e però la prima, la quale è chiamata Aletto,
secondo che a Fulgenzio piace, non vuole altro dire che «senza riposo»,
accioché per questo s’intenda ogni furioso atto prender principio dal
continuo e noioso stimolo, il quale l’animo nostro riposar non lascia,
quando in perturbazione alcuna caduti siamo di cosa la quale appetisca
vendetta. La seconda è chiamata Tesifone, la quale, si come Fulgenzio
medesimo dice, è detta cosí, quasi dicessimo «_tritonphones_», il
che in latino viene a dire «voce d’ira»; la qual voce d’ira dobbiamo
intendere esser quella, la quale l’animo perturbato e inquietato, con
contumelia e vituperio di chi è cagione della sua perturbazione, manda
fuori, come sono le villanie le quali gli adirati si dicono insieme.
La terza è chiamata Megera, e, secondo che ancora Fulgenzio dice,
questo nome vien tanto a dire, quanto «gran litigio»; per lo quale
dobbiamo intendere le vendette, l’uccisioni e le guerre, nelle quali
si dimostrano le contenzioni grandi e pericolose e piene d’impeti
furiosi e di danni inestimabili. E cosí della perturbazion presa
non giustamente séguita o nasce l’inquietudine dell’animo; e dalla
inquietudine dell’animo si viene ne’ romori e nelle obiurgazioni; e da’
romori si viene nella zuffa e nelle morti e nelle guerre e in ostinati
odii.]
[Oltre a questi principali nomi, son chiamate appo quegli d’inferno,
cioè appo gli uomini di bassa e infima condizione, «cani»; percioché,
pervegnendo essi, o per ingiuria o per altra cagione che ricevano o
paia loro ricevere non giustamente, in perturbazione, similmente, per
desiderio di vendetta, sono da rabbiosi pensieri angosciati nell’animo;
e, non potendo ad altro atto di vendetta procedere, furiosamente
gridando, abbaiano come fanno i cani, di quali contro a’ lor maggiori
niuna altra cosa adoperano che l’abbaiare.]
[Appo noi, li quali siamo in mezzo tra ’l cielo e lo ’nferno (e perciò
si deono per noi intendere gli uomini di mezzano stato), son chiamate
«furie» ed «eumenide»; e questo, percioché esse con piú focosa ira
incendono il perturbato, in quanto, essendo stimolato, percioché
ricever gli pare ingiuria da chi non gli par che piú di lui vaglia, e
però, parendogli equivalere e non potere, secondo l’appetito correndo,
pervenire alla vendetta, tutto in sé si rode; e ultimamente non potendo
a tanta passion sussistere, vergognandosi d’abbaiare come i minor
fanno, prorompe furioso all’esecuzion del suo appetito, e le piú delle
volte con suo gravissimo danno: e quinci si può dire le furie esser
chiamate «eumenide», che tanto viene a dire quanto «buone»; percioché,
essendo cosí chiamate per contrario, mai in altro che in male non
riescono a ciascun che ad esse si lascia sospignere.]
[Sono queste medesime, come detto è, appo gl’iddii, cioè appo gli
eccelsi e grandi uomini, chiamate «dire», cioè «crudeli», dalla
crudeltá la quale essi, sí come potenti, per ogni menoma perturbazione
usano ne’ minori.]
[E sono ancora chiamate «ucceli» dalla velocitá del furore, percioché
velocissimamente da ogni piccola perturbazione ci commoviamo, e fannoci
dalla mansuetudine trascorrere nel furore. «Arpie» son chiamate, quasi
«rapaci»; e percioché gli uomini di mare, e quegli ancora che alle
marine abitano, con tanto fervore prorompono alla preda, che in cosa
alcuna da’ superiori discordanti non paiono.]
[Gli ufici loro attribuiti, percioché assai, per le molte cose
dimostrate di loro e ancora per i versi medesimi che gli discrivono, si
possono comprendere, senza altrimenti aprirgli, trapasseremo; e cosí
ancora gli abiti loro orribili.] E possiamo per tante cose comprendere
l’animo, nel quale le turbazioni sono, e per conseguente tanti e sí
orribili commovimenti, quanti hanno a suscitare e a conservare e ancora
ad accrescere li mal regolati appetiti, non potere in quello trovare
alcun luogo amore, né caritá di Dio o di prossimo, o virtuoso pensiero:
e per questo, sí come in luogo freddissimo e terreo, essere ogni
attitudine e opportuna disposizione a doversi creare e imprimere il
ghiaccio e la durezza dell’ostinazione: e per questo artificiosamente
fingere l’autore queste furie gridare, accioché in lui, posto nel luogo
dove ha la tristizia di Stige e il furor degl’iracundi contemplato,
possano col romor loro mettere, con paura, perturbazione, accioché per
gli stimoli di quella recati nell’animo, esso divegna atto a dover
ricevere quella impressione, che pare il debbia fare perpetuo cittadino
d’inferno, cioè l’ostinazione. E quinci, discrive l’autore, essendo giá
la perturbazion venuta per la separazion della ragione, alquanto da lui
dilungata per l’andare a parlare, cioè a tentare l’entrata nel luogo
degli ostinati, e poi per lo invilimento di quella, per lo non potere
avere ottenuto quello che disiderava; che la ostinazione, chiamata
dalle furie, cioè provocata dalle misere sollecitudini dell’animo suo,
veniva. E deonsi queste perturbazioni e sollecitudini intendere esser
quelle che a ciascun peccatore possono intervenire nel mezzo delle
meditazioni delle lor colpe, e massimamente quando per falsa credenza
paion loro quelle esser maggiori che la misericordia di Dio, come
parve a Caino e a Giuda, e quinci, di quella disperandosi, caggiono in
ostinazione, e, se medesimi riputando dannati, continuamente di male in
peggio adoperando procedono.
[Lez. XXXVIII]
Ma, percioché l’autor dice che questa ostinazione era dalle furie
per lo nome di Medusa chiamata, è da vedere quello che per questa
Medusa sia da sentire, cioè come s’adatti alla ’ntenzione lei aver
per l’ostinazione, piú tosto che alcuna altra cosa, chiamata. [E
primieramente è da vedere quello che favolosamente ne scrivono i poeti,
e poi quello che sotto il favoloso parlare abbiano voluto sentire.]
[Scrivono adunque, secondo che Teodonzio afferma, che Forco, figliuolo
di Nettuno e dio del mare, generò d’un mostro marino tre figliuole,
delle quali la prima fu chiamata Medusa, la seconda Steno, la terza
Euriale, e tutte e tre furon chiamate Gorgoni; e secondo che testimonia
la fama antica, non ebbero tra tutte e tre che uno occhio, il quale
vicendevolmente usavano; e, come scrive Pomponio Mela nella sua
_Cosmografia_, esse signoreggiarono l’isole chiamate Orcade, le quali
si dicono essere nel mare oceano etiopico, di rincontro a quegli etiopi
che son cognominati esperidi. La qual cosa par che testimoni Lucano,
dove scrive:
_Finibus extremis Libyes, ubi fervida tellus accipit Oceanum demisso
sole calentem, squalebant late Phorcynidos arva Medusae_, ecc.
E dicesi queste sorelle avere avuta questa proprietà, che, chiunque
le riguardava, incontanente si convertiva in sasso. E di Medusa, la
maggior delle tre, sí come Teodonzio scrive, si dice che ella fu oltre
ad ogni altra femmina bella; e intra l’altre cose piú ragguardevoli
della sua bellezza, dicono essere stati i suoi capelli, li quali non
solamente avea biondi, ma gli aveva che parevan d’oro. Dallo splendore
de’ quali preso Nettuno, giacque con lei nel tempio di Minerva; e di
questo congiugnimento vogliono nascesse il cavallo nominato Pegaso. Ma
Minerva, turbata della ignominia nella qual pareva il suo tempio venuto
per questo adulterio, accioché non rimanesse impunita, dicono che i
capelli d’oro di Medusa trasformò in serpenti; per la qual cosa Medusa,
di bellissima femmina, divenne una cosa mostruosa. La qual cosa essendo
per fama divulgata per tutto, pervenne in Grecia agli orecchi di
Perseo, in quei tempi valoroso e potente giovane; laonde egli, a dover
questa cosa mostruosa tôr via, venne di Grecia lá dove Medusa dimorava,
e quivi, armato con lo scudo di Pallade, la vinse e tagliolle la testa,
e con essa se ne ritornò in Grecia. E questo quanto alle fizioni basti.
E veggiamo quello che sotto questo voglian sentire coloro che finsono,
e poi al nostro proposito il recheremo.]
[Puossi adunque leggiermente concedere queste sorelle essere state
figliuole di Forco; ma perché dette sieno figliuole d’un mostro marino,
credo preso fosse dalla loro singular bellezza, l’ammirazion della
quale non lasciava credere al vulgo ignorante lor potere esser nate di
femmina, come l’altre nascono: ma di questo sia la quistione terminata.
Che esse avessero tra tutte e tre solamente un occhio, par che credano
Sereno e Teognide, antichissimi istoriografi, per ciò esser detto,
perché esse tutte e tre fossero d’una medesima e igual bellezza, e
per questo fosse un medesimo il giudicio di tutti coloro li quali le
riguardavano. Altri voglion dire che esse tra tutte e tre avessero
un solo regno, e quello vicendevolmente reggessero, e per quello
vedessero, cioè valessono. L’esser giaciuta con Nettuno, niuna altra
cosa dimostra se non essersi dilettata dell’abbondanza delle cose, e
però nel tempio di Minerva, perché ella mostrò molte lucrative arti,
per le quali l’abbondanza diventa maggiore. I crini esser convertiti in
serpenti, niuna altra cosa vuole se non mostrare le sustanze temporali,
le quali per li capelli si dimostrano, convertirsi in amare e mordaci
sollicitudini di coloro che l’hanno, percioché temono or di questa e or
di quella cosa, ecc. Che esse convertissono in sassi coloro li quali le
riguardavano, credo essere stato detto per ciò, che tanta e sí grande
era la lor bellezza, che, come da alcuno veduta era, cosí diventava
stupido e attonito, e quasi mutolo e immobile per maraviglia, non
altrimenti che se sasseo divenuto fosse.]
[Gorgone furon chiamate, percioché, secondo che Teodonzio dice,
essendo dopo la morte del padre loro rimase ricchissime, con tanta
sollecitudine e avvedimento curarono le cose, nelle quali consistevano
le loro ricchezze, le quali il piú erano in terre, che dalli loro
uomini furon chiamate Gorgoni, il qual nome suona «cultrici di terra».
Ma Fulgenzio, il quale intorno alle fizioni poetiche ebbe mirabile
e profondo sentimento, par che senta tutto altrimenti; percioché
egli scrive essere tre generazioni di paura, le quali per li nomi di
queste tre sorelle si dimostrano: e primieramente dice che Steno è
interpetrata «debilitá», cioè principio di paura, il qual solamente
debilita l’animo di colui in cui cade; appresso dice che Euriale è
interpetrata «lata profonditá», cioè stupore o amenzia, la quale con
un profondo timore sparge o disgrega l’animo debilitato; ultimamente
dice che Medusa significa «oblivione», la qual non solamente turba
l’avvedimento dell’animo, ma ancora mescola in esso caligine e
oscuritá.] Delle quali cose possiamo al nostro proposito raccogliere
sotto il nome di questa Medusa essere, come di sopra è stato detto,
chiamata la ostinazione, in quanto essa faceva chi la riguardava
divenir sasso, cioè gelido e inflessibile. Ma son molti, i quali per
avventura non s’accorgono quando questo Gorgon riguardano; e però è da
sapere che sono alcuni li quali sempre tengon gli occhi della mente
fissi nella loro bella moglie, ne’ lor figliuoli, ne’ lor be’ palagi,
ne’ lor be’ giardini, e questi paion loro da dover preporre ad ogni
letizia di paradiso; altri tengono l’animo fisso a’ lor cavalli, a’
lor fondachi, alle loro botteghe, a’ lor tesori; altri agli stati e
agli onori publichi e a simili cose. E non s’accorgono che questo cotal
riguardare è riguardare il Gorgone, cioè gli ornamenti terreni: da’
quali e’ traggono quella durezza che gli convertisce in pietra, la
quale è di complession fredda e secca: per la qual possiamo intendere
questi cotali esser freddi del divino amore e della caritá del
prossimo, e in tanto secchi, in quanto i terreni secchi né ricevono
alcun seme, né fanno alcun frutto.
Così adunque divenuti e caduti nella perseveranza del peccare, quasi
della divina misericordia disperandosi, strabocchevolmente si lasciano
andare in qualunque colpa, dicendo sé sapere quel c’hanno, e non sapere
quel che avranno, e che se pure avviene che perdano i beni dell’altra
vita, non voler perdere quegli di questa. E puossi dire che a coloro
avviene li quali nel furore iracundo trascorrono, in quanto niun altro
giudicio che il loro seguir vogliono; o a coloro li quali oltre ad ogni
debito gli animi pongono a’ piaceri, li quali smisuratamente procuran
d’avere, delle cose terrene, e tanto in esse s’invescano, che cosa, che
contro a questo piacer faccia, udir non possono. E, quantunque questo
atto furioso non paia, egli è; percioché la perturbazione si prende
nell’animo dalla nostra insaziabilitá; e però, non avendo né quello né
tanto quanto vorremmo, ci turbiamo in noi medesimi contro alla fortuna,
e spesse volte contro a Dio, che quello non ne concedono, di che a noi
pare esser degni. E da questa perturbazione nascono gli stimoli, li
quali il dí e la notte ne infestano a dover trovar modo come pervenir
possiamo a quello che noi disideriamo; e da questi stimoli nascon
le disposizioni, le quali sempre dannose sono; e appresso a questo
seguono gli atti e l’operazioni, le quali pognamo ad avere quello che
bisogno non era. E questi, nel giudicio de’ savi uomini, piú tosto da
furioso animo che da composta mente procedono: e in questi intanto ci
abituiamo, che né salutevol consiglio, né altro ce ne può rivocare;
e cosí come se veduto avessimo il Gorgone, sassei diventiamo, cioè
ostinati cultivatori delle terrene cose.
Era adunque a questo provocata Medusa, accioché veduta, cioè ricevuta
nella mente dall’autore, lui avesse fatto sasseo divenire, e per
conseguente ritenuto in inferno, cioè intorno agli esercizi terreni,
e avesse lasciata stare la buona disposizione nella quale era entrato
dietro alla ragione per acquistare i frutti celestiali. Ma ciò non poté
avvenire, percioché la ragione il fece volgere in altra parte che in
quella donde dovea mostrarsi il Gorgone, cioè il fece volgere ad altro
studio che a riguardare le vanitá temporali e a porvi l’animo. Il che
pregava il salmista quando diceva: «_Averte oculos meos, ne videant
vanitatem_», cioè con affetto riguardino le cose temporali; le quali
son tutte vane, come dice l’Ecclesiastes: «_Vanitas vanitatum et omnia
vanitas_». E non solamente fu la ragion contenta d’avergli imposto che
con le mani gli occhi chiudesse, ma essa ancora con le sue proprie
gliele chiuse. E non dobbiamo qui intendere degli occhi corporali, ma
delle nostre affezioni mosse e sospinte da due potenze dell’anima, cioè
dall’appetito irascibile e dal concupiscibile. Questi son da chiuder
con le mani, cioè con l’operazioni della ragione, le quali quante volte
questi appetiti raffreneranno e adopereranno che l’uomo piú che il
dovere non s’adiri o concupisca, tante cesserá che il Gorgone veder non
si possa, cioè non si caggia nella ostinazione.
E séguita, di questo, che a coloro, li quali con fermo animo seguitano
la ragione, Iddio, dovunque lor bisogna, manda il suo sussidio: il
quale in questo luogo l’autore figura per l’angelo, il quale aperse la
porta. Ed è questo divino aiuto di tanta virtú e di tanta potenzia,
che ogni infernale arroganza, i demòni, le Furie, il Gorgone e l’anime
de’ dannati, pieni di paura e di sbigottimento, impetuosamente gli
fuggon davante, lasciando aperta e spedita la via a dover poter
vedere e conoscere ciò che per la lor salute bisogna a coloro li
quali sperano in lui. E questo credo che sia quello, al quale vedere
l’autore sollecita gl’intelletti sani, entrando poi dietro alla ragione
a discernere distintamente le colpe de’ caduti nella ostinazione,
e i tormenti dati a quelle, accioché da esse, cauto divenutone, si
sappia guardare, [e dalla paura del divino giudicio compunto, proceda
al sacramento della penitenza, mediante il quale possa alla gloria
pervenire.]
Ma da vedere ne resta quello che esso intenda per lo supplicio dato
agli eresiarci. Sono gli eresiarci, sí come assai chiaro si legge
nel testo, in sepolture, da eterno e cocentissimo fuoco tormentati;
nel qual supplicio io intendo disegnarsi l’apparenza degli eretici
in questa vita, e la pena loro attribuita nell’altra. Dico adunque
che, per le sepolture, l’autore vuol dimostrare di questi peccatori
l’apparenza in questa vita, accioché noi non siam troppo correnti a
credere al giudicio degli occhi nostri, il quale, essendo spesse volte
falso, ne ’nduce o può inducere in parte, della quale o non possiamo
uscire, o con difficultá n’usciamo. Possonsi adunque gli eretici
simigliare alle sepolture, le quali spessamente sono ornatissime di
marmi, d’intagli, d’oro, di dipinture e d’altre cose dilettevoli a
riguardare; e questo dalle parti esteriori; e poi, aprendole, si
truovano dentro piene d’ossa e di corpi morti, fetidi e orribili a
riguardare, senza senso, senza potenza o virtú alcuna in sé avere.
E cosí gli eretici, veggendo i loro atti esteriori, paiono persone
oneste, venerabili, mansueti e divoti, e da dovere essere da ciascun
buono uomo disiderata la loro amicizia e la loro conversazione;
ma come il discreto uomo gli apre e riguardagli dentro, cioè per
i ragionamenti loro comprende qual sia il loro stato intrinseco,
esso gli truova pieni di perverse e dannabili opinioni, di malvagia
dottrina, e d’intendimenti intorno a’ sensi della Scrittura di Dio
tanto discordanti dalla veritá, che assai manifestamente appare loro
esser pieni di cose troppo piú abominevoli che l’ossa o i corpi de’
morti non sono. Percioché l’ossa de morti, quantunque sieno orribili a
riguardare, non possono ad alcun nuocere; ma il puzzo del veneno delle
opinioni degli eretici è cosa la quale uccide l’anime che dentro a sé
il ricevono. E perciò gli eretici sono, ne’ lor intrinseci sentimenti,
molto piú sozzi e piú orribili ch’e’ sepolcri aperti, e per questo
assai convenientemente si possono assomigliare a’ sepolcri. E quinci
estimo, percioché ne’ sepolcri, a’ quali li lor corpi simiglianti
furono, portarono la loro eretica pravitá, e quella di quegli traendo
seminarono e sparsono, e con esso loro molti stolti nelli loro errori
trassono; che l’ autore volesse che essi nell’altra vita ne’ sepolcri
piagnessero insieme con li lor seguaci. E, percioché essi le lor false
e riprovate opinioni, sí come freddi dell’ardore dello Spirito santo,
ostinatamente servarono, credo voglia l’autore che nel fuoco eterno
senza pro si riscaldino, e la lor freddezza maturino.
Ma potrebbesi qui muovere un dubbio e dir cosí: e’ pare che l’autor
voglia, nel canto decimoprimo di questo libro, che dentro alla cittá
di Dite si punisca solamente la bestialitá e la malizia; e queste
mostra punirsi in diversi cerchi, li quali discrive essere di sotto
al luogo, dove allora si ritrova, e passato questo luogo dove gli
eretici son puniti; e di fuori della cittá mostra punirsi solamente
l’incontinenzia; e di questi eretici non fa in questa distinzione
menzione alcuna, e perciò pare che ella sia spezie singulare per sé di
peccato: che spezie dunque diremo che questa sia?
Al qual dubbio si può cosí rispondere: la eresia spettare a
bestialitá, e in quella spezie inchiudersi; percioché bestial cosa
è estimare di se medesimo quello che estimar non si dee, cioè di
vedere e di sapere d’alcuna cosa piú che non veggono o sanno molti
altri, che di tale o di maggiore scienza son dotati, e volere, oltre
a ciò, ostinatamente tenere ferma la sua opinione contro alle vere
ragioni dimostrate da altrui. La qual cosa gli eretici sempre feciono
e fanno, con tanta durezza di cuore tenendo e difendendo quello che
vero credono, che avanti si lascerebbono e lasciano uccidere che essi
di quella si vogliano rimuovere (sí come noi al presente veggiamo in
questi, li quali tengono che da Celestino in qua alcun papa stato non
sia, de’ quali oltre a seicento, in questa pertinacia perseverando,
sono stati arsi); e perciò meritamente reputar si posson bestiali.
Ma incontanente da questo surgerá un altro dubbio, e dirá alcuno: se
gli eretici son bestiali, perché non sono essi puniti piú giú dove gli
altri bestiali si puniscono?
E a questo ancora si può rispondere in questa guisa: pare che gli
eretici abbiano meno offeso Iddio che quegli bestiali che piú giú
puniti sono; e perciò qui e non piú giú si puniscono. E che essi
abbiano meno offeso Iddio che coloro, pare per questa ragione: il
peccato, il quale gli eretici hanno commesso, non è stato commesso da
loro per dovere offendere Dio, anzi è stato commesso credendosi essi
piacere e servire a Dio, in quanto estimavano le loro opinioni dovere
essere rimovitrici di quegli errori, li quali pareva loro che non ci
lasciassono debitamente sentir di Dio, e per conseguente non ce lo
lasciassono debitamente onorare e adorare: lá dove i bestiali, che
piú giú si puniscono, disiderarono e sforzaronsi in quanto poterono,
bestemmiando e maladicendo, d’offendere Iddio; e, oltre a ciò,
adoperando violentemente e bestialmente contro alle cose di Dio. E però
pare questi cotali debitamente piú verso il centro esser puniti che gli
eretici.

CANTO DECIMO
[Lez. XXXIX]
«Ora sen va per un segreto calle», ecc. Seguendo il cominciato modo
di procedere, dico che il presente canto si continua al precedente
in questo modo, che, avendo l’autore nella fine del canto superiore
discritta la qualitá del luogo piena di sepolcri, e chi dentro a quegli
è tormentato; nel principio di questo mostra come dietro a Virgilio
per lo detto luogo si mettesse ad andare, e quello che nell’andar gli
avvenisse. E fa l’autore in questo canto quattro cose: primieramente ne
dice il suo procedere per lo luogo disegnato; appresso muove a Virgilio
alcun dubbio, il quale Virgilio gli solve; oltre a questo ne mostra
come con alcuna dell’anime dannate in quel luogo lungamente parlasse;
ultimamente dice come, tornato a Virgilio, dove con lui seguitandolo
pervenisse. La seconda comincia quivi: «O virtú somma»; la terza
quivi:—«O tosco»; la quarta quivi: «Indi s’ascose».
Dice adunque l’autore, continuandosi al fine del precedente canto,
che «Ora», cioè in quel tempo che esso era in questo viaggio, «sen
va per un segreto calle». Chiamalo «segreto», a dimostrare che pochi
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