Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - 04

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per quello andassero, avendo per avventura altra via coloro li quali
dannati lá giú ruinavano; e, per dimostrare quella via non essere
usitata da gente, la chiama «calle», il quale è propriamente sentieri
li quali sono per le selve e per li boschi, triti dalle pedate delle
bestie, cioè delle greggi e degli armenti, e per ciò son chiamati
«calle», perché dal callo de’ piedi degli animali son premute e fatte.
«Tra ’l muro della terra», di Dite «e li martíri», cioè tra’ sepolcri,
ne’ quali martirio e pena sostenevano gli eretici, «Lo mio maestro, ed
io dopo le spalle», cioè appresso a lui, seguendolo.
-«O virtú somma». Qui comincia la seconda parte di questo canto,
nella quale l’autore muove a Virgilio alcun dubbio, e Virgilio gliele
solve. Dice adunque:—«O virtú somma», nelle quali parole l’autore
intende qui per Virgilio la ragion naturale, la quale tra le potenzie
dell’anima è somma virtú; «che per gli empi giri», cioè per i crudeli
cerchi dello ’nferno, «Mi volvi»,—menandomi, «cominciai,—com’a te
piace», percioché mai dal suo volere partito non s’era; «Parlami»,
cioè rispondimi, «e satisfammi a’ miei disiri», cioè a quello che io
disidero di sapere. Il che di presente soggiugne, dicendo: «La gente,
che per li sepolcri giace», cioè gli eretici, «Potrebbesi veder?». E,
volendo dire che si dovrebbon poter vedere, séguita: «Giá son levati
Tutti i coperchi», delle sepolture; e cosí mostra che tutti erano
aperti; e per questo segue: «e nessun», che ne’ sepolcri sia, «guardia
face»,—per non esser veduto. E in queste parole par piú tosto domandar
del modo da potergli vedere, che dubitare se vedere si possono o no.
«Ed egli a me». Qui comincia la risposta di Virgilio, la qual non
pare ben convenirsi alla domanda dell’autore, in quanto colui domanda
se quegli che sono dentro a’ sepolcri veder si possono, e Virgilio
gli risponde che essi saranno serrati tutti dopo il di del giudicio.
Ma Virgilio gli dice questo, accioché esso comprenda e il presente
tormento degli eretici e il futuro, il quale sarà molto maggiore,
quando serrati saranno i sepolcri, che ora, che aperti sono, percioché,
quanto il fuoco è piú ristretto, piú cuoce. E nondimeno, mostratogli
questo, e chi sieno gli eretici che in quella parte giacciono, gli
risponde alla domanda. Dice adunque:—«Tutti saran serrati», questi
sepolcri, li quali tu vedi ora aperti, «Quando di Iosafà», cioè della
valle di Iosafà, nella qual si legge che, al dí del giudicio, tutti,
quivi, giusti e peccatori, rivestiti de’ corpi nostri, ci raguneremo
ad udir l’ultima sentenzia, e di quindi i giusti insieme con Gesù
Cristo se ne saliranno in cielo, e i dannati discenderanno in inferno;
e chiamasi quella valle di Iosafà, poco fuori di Gerusalem, da un re
chiamato Iosafà, che fu sesto re de’ giudei, il quale in quella valle
fu seppellito; «qui torneranno, co’ corpi che lassù hanno lasciati»,
quando morirono, li quali, risurgendo, avranno ripresi. «Suo cimitero»,
cioè sua sepoltura: ed è questo nome d’alcun luogo dove molte sepolture
sono, sí come generalmente veggiamo nelle gran chiese, nelle quali sono
alcuni luoghi da parte riservati per seppellire i corpi de’ morti; e
queste cotali parti si chiamano cimitero, quasi «_communis terra_»,
percioché quella terra pare esser comune a ciascuno il quale in essa
elegge di seppellirsi; «da questa parte hanno Con Epicuro tutti i suoi
seguaci, Che l’anima col corpo morta fanno».
Epicuro fu solennissimo filosofo, e molto morale e venerabile uomo
a’ tempi di Filippo, re di Macedonia e padre d’Alessandro. È il vero
che egli ebbe alcune perverse e detestabili opinioni, percioché egli
negò del tutto l’eternità dell’anima e tenne che quella insieme col
corpo morisse, come fanno quelle degli animali bruti; e cosí ancora piú
altri filosofi variamente e perversamente dell’anima stimarono. Tenne
ancora che somma beatitudine fosse nelle dilettazioni carnali, le quali
sodisfacessero all’appetito sensibile: sí come agli occhi era sommo
bene poter vedere quello che essi disideravano e che lor piaceva di
vedere, cosí agli orecchi d’udire, e alle mani di toccare, e al gusto
di mangiare. Ed estiman molti che questo filosofo fosse ghiottissimo
uomo; la quale estimazione non è vera, percioché nessun altro fu piú
sobrio di lui; ma accioché egli sentisse quello diletto, nel quale
poneva che era il sommo bene, sosteneva lungamente la fame, o vogliam
piú tosto dire il disiderio del mangiare, il qual, molto portato,
adoperava che, non che il pane, ma le radici dell’erbe selvatiche
meravigliosamente piacevano e con disiderio si mangiavano; e cosí,
sostenuta lungamente la sete, non che i deboli vini, ma l’acqua, e
ancora la non pura, piaceva e appetitosamente si beveva; e similmente
di ciascuna altra cosa avveniva. E perciò non fu ghiotto, come molti
credono; né fu perciò la sua sobrietá laudevole, in quanto a laudevol
fine non l’usava. [Adunque per queste opinioni, separate del tutto
dalla veritá, sí come eretico mostra l’autore lui in questo luogo esser
dannato, e con lui tutti coloro li quali le sue opinioni seguitarono].
Poi séguita l’autore: «Però», cioè per quello che detto t’ ho, che da
questa parte son gli epicúri, «alla dimanda che mi faci», cioè se veder
si possono quelle anime che nelle sepolture sono, «Quinc’entro», cioè
tra queste sepolture, «satisfatto sarai tosto»; quasi voglia Virgilio
dire: percioché tra questi epicúri sono de’ tuoi cittadini, li quali,
sentendoti passare, ti si faranno vedere, di che fia satisfatto al
disiderio tuo; «Ed al disio ancor, che tu mi taci».—Il qual disio,
taciuto dall’autore, vogliono alcuni che fosse di sapere perché
l’anime dannate mostrano di sapere le cose future, e le presenti non
par che sappiano; la qual cosa gli mostra appresso messer Farinata.
Ma io non so perché questo disiderio gli si dovesse esser venuto,
conciosiacosaché niun altro vaticinio per ancora avesse udito se
non quello che detto gli fu da Ciacco; salvo se dir non volessimo
essergli nato da questo, che Ciacco gli disse le cose future, e Filippo
Argenti nol conobbe, essendo egli presente: ma questa non pare assai
conveniente cagione da doverlo aver fatto dubitare, conciosiacosaché,
come Ciacco il vide, il conoscesse, come davanti appare; e però, che
che altri si dica, io non discerno assai bene qual si potesse essere
quel disio, il quale Virgilio dice qui che l’autor gli tace.
«Ed io:—Buon duca, non tegno nascosto A te mio dir, se non per dicer
poco», per non noiarti col troppo; «E tu m’hai non pur mò a ciò
disposto»,—ammonendomi di non dir troppo.
—«O tosco, che per la cittá». Qui comincia la terza parte del
presente canto, nella quale con alcune dell’anime dannate in questo
lungamente parla l’autore. Nella qual terza parte l’autore fa sette
cose: primieramente discrive le parole uscite d’una di quelle arche;
appresso come Virgilio gli nominasse e mostrasse messer Farinata e
a lui il sospignesse; susseguentemente come con lui parlasse; oltre
a questo, come un’altra anima il domandasse d’alcuna cosa ed egli
gli rispondesse; poi mostra come messer Farinata, continuando le sue
parole, gli predicesse alcuna cosa; dopo questo, scrive come movesse
un dubbio a messer Farinata ed egli gliele solvesse; ultimamente come
imponesse a messer Farinata quello che all’anima caduta dicesse. La
seconda comincia quivi: «Ed el mi disse:—Volgiti»; la terza quivi:
«Com’io al piè»; la quarta quivi: «Allor surse alla vista»; la quinta
quivi: «Ma quell’altro»; la sesta quivi:—«Deh! se riposi»; la settima
quivi: «Allor come di mia».
Dice adunque nella prima cosí:—«O tosco». Dinomina qui colui, che
queste parole dice, l’autore dalla provincia, forse ancora non avendo
tanto compreso di qual cittá lo stimasse, e chiamal «tosco», cioè
«toscano». [Intorno al qual nome se noi vorremo alquanto riguardare,
forse conosceremo avere a render grazie a Dio che toscani, piú tosto
che di molte altre nazioni, esser ci fece, se la nobiltá delle
province, come alcuni voglion credere, puote alcuna particella di
gloria aggiugnere a quegli che d’esse sono provinciali. È adunque
Toscana una non delle meno nobili province d’Italia, dal levante
terminata dal Tevero fiume, il qual nasce in Appennino, e mette in
mare poco sotto la cittá di Roma; e di verso tramontana e di ponente è
chiusa tutta dal monte Appennino, quantunque vicino al mare le sieno
da diversi posti diversi termini, percioché alcuni dicono quella
essere dalla foce della Macra divisa da Liguria, altri la ristringono
e dicono i suoi termini essere al Motrone sotto a Pietrasanta, e sono
ancor di quegli che vogliono lei finita essere da un piccolo fiumicello
chiamato Ausere, propinquissimo a Pisa (e i pisani medesimi, forse piú
nobile cosa estimando esser galli che toscani, hanno alcuna volta detto
quella di ver’ ponente essere chiusa dal fiume nostro, cioè da Arno, il
qual mette in mare poco sotto Pisa); di verso mezzodí è tutta chiusa
dal mare Mediterraneo, il quale i greci chiamano Tirreno. E questa
terminazione è secondo il presente tempo; percioché anticamente essa
si stendeva, passato il monte Appennino, infino al mare Adriano: ma di
quindi i galli, li quali seguir Brenno, cacciarono i toscani, e mutaron
nome alla provincia, e chiamaronla Gallia.]
[E fu Toscana, secondo che alcuni antichi scrivono, primieramente
abitata da certi popoli li quali si chiamarono lidi, li quali,
partendosi d’Asia minore, di dietro a due fratelli, nobili giovani,
chiamati l’uno Lido e l’altro Tireno, in quella vennero, e fu la
provincia chiamata Lidia da Lido ed il mare fu chiamato il mar Tireno
dall’altro fratello. E non solamente quello il quale bagna i termini
di Toscana, ma, cominciandosi dal Fare di Messina infino alla foce del
Varo, tra Nizza e Marsilia, tutto fu chiamato Tireno; e cosí ancora
il chiamano i greci. Poi cambiò la provincia il nome, dall’esercizio
generale di tutti quegli d’essa intorno all’atto del sacrificare alli
loro iddii, nel quale essi furono piú che altri popoli ammaestrati
(e perciò usaron lungo tempo i romani di mandare de’ lor piú nobili
giovani a dimorar con loro, per apprender da loro il rito del
sacrificare); e peroché essi quasi tutti li lor sacrifici facevano con
incenso, e lo ’ncenso in latino si chiama «_thus_», furon chiamati
«_tusci_», li quali per volgare son chiamati «toscani»: e da questo
dirivò il nome, il qual noi ancora serviamo. Ed è, come assai chiaro si
vede, Toscana piena di notabili cittá, in sé, tra l’altre, contenendo
tanto della cittá di Roma, quanto di qua dal Tevere se ne vede, e,
appresso, questa nostra cittá, cioè Fiorenza, la qual tanto sopra ogni
altra è eminente, quanto è il capo sopra gli altri membri del corpo;
e però meritamente poté l’autore, il quale di questa cittá fu natio,
esser da messer Farinata chiamato «tosco».]
Séguita poi: «che per la cittá del foco», cioè per la cittá di Dite,
ardente tutta d’eterno fuoco, «Vivo ten vai, cosí parlando onesto»,
cioè reverentemente, come poco avante faceva parlando a Virgilio;
«Piacciati di ristare in questo loco»; quasi voglia dire: tanto che io
ti possa vedere e possati parlare. «La tua loquela ti fa manifesto»
esser «Di quella nobil patria», cioè di Fiorenza, «natio, Alla qual
forse fui troppo molesto».—Guarda, colui che parla, di dover per
queste parole potere piú tosto ritenere l’autore, come davanti il
priega; conciosiacosaché volentieri ne’ luoghi strani sogliano l’un
cittadino l’altro voler vedere, e ancora volere udire, quando da
alcuna singular cosa son soprapresi, come qui faceva quella anima,
dicendo forse essere stato alla cittá dell’autore troppo molesto. E
dice avvedutamente qui questo spirito «forse», percioché, se assertive
avesse detto sé essere stato troppo molesto alla sua cittá, si sarebbe
fieramente biasimato, in quanto alcuno non dee contro alla sua cittá
adoperare se non tutto bene, conciosiacosaché noi nasciamo al padre
e alla patria; e il biasimare se medesimo è atto di stolto; e perciò
disse lo spirito «forse», suspensivamente parlando, volendo questo
«forse» s’intenda per l’esser paruto a molti lui esser molesto, al
giudicio de’ quali per avventura non era da credere: sí come al
giudicio de’ guelfi, sí come di nemici, non parea da dover credere
contro al ghibellino. Nondimeno come molesto fosse alla patria sua e
nostra costui, nelle cose seguenti apparirá.
«Subitamente questo suono», cioè questa voce; e pone questo vocabolo
«suono» _improprie_, percioché propriamente «suono» è quello che
procede dalle cose insensate, come è quello della campana, del tuono
e simiglianti: «uscío D’una dell’arche», le quali eran quivi: «però
m’accostai, Temendo, un poco piú al duca mio».
«Ed el mi disse». Qui comincia la seconda particella della parte
terza principale, nella quale Virgilio gli mostra messer Farinata, e
sospignelo ad esso. Dice adunque: «Ed el mi disse:—Volgiti», inverso
l’arca onde uscí il suono, «che fai?», cioè come fuggi tu? «Vedi la
Farinata», cioè l’anima di messer Farinata degli Uberti, «che s’è
dritto», nella sepoltura nella qual giacea; «dalla cintola in su»,
cioè da quella parte della persona sopra la quale l’uom si cigne,
[La quale non era tanta parte quanta è quella che oggi si vedrebbe;
percioché gli uomini soleano andar cinti sopra i lombi, oggi vanno
cinti sopra le natiche; e soleva essere la cintura istrumento opportuno
a tenere ristretta la larghezza de’ vestimenti, ove ne’ giovani d’oggi
è ornamento superfluo d’assai vil parte del corpo loro, percioché, in
luogo di cinture, essi fanno ricchissime corone, e, come per addietro
delle corone si solea ornar la fronte, cosí delle presenti si coronan
le natiche.] «Tutto il vedrai».—Per le quali parole di Virgilio,
l’autore, prestamente verso quel luogo rivoltosi, cominciò a riguardare
questo messer Farinata.
E però segue: «Io avea il mio viso», cioè la mia virtú visiva, «nel
suo», viso, cioè negli occhi suoi, «fitto», fiso riguardando: «Ed el»,
cioè messer Farinata, il quale io riguardava, «s’ergea», cioè surgea,
levandosi da giacere; ed ergevasi «col petto e con la fronte», li
quali l’uomo levandosi mette innanzi; il che messer Farinata faceva,
«Come avesse l’inferno in gran dispitto», cioè a vile e per niente: e
in questo vuole l’autore mostrare messer Farinata essere stato uomo
di grande animo, né averlo potuto, vivendo, piegare né rompere alcuna
fatica, pericolo o avversitá.
«E l’animose man»: diciamo allora le mani essere «animose», quando
elle son pronte e destre all’oficio il quale esse vogliono o debbon
fare; «del duca e pronte Mi pinser tra le sepolture a lui». Non è da
credere che violentemente il sospignessero, ma fecero un atto, il
quale colui, che bene intende, prende per sospignere, cioè per essere
animato da colui che fa sembiante di sospignere ad andare; «Dicendo»,
in quell’atto:—«Le parole tue sien cónte»,—cioè composte e ordinate a
rispondere; quasi voglia dire: tu non vai a parlare ad ignorante.
[Lez. XL]
«Com’io al piè». Qui comincia la terza particula di questa terza parte
principale, nella quale dimostra l’autore come con messer Farinata
parlasse: dove, avanti che piú oltre si proceda, è da mostrare chi
fosse messer Farinata. Fu adunque messer Farinata cittadino di Firenze,
d’una nobile famiglia chiamata gli Uberti, cavaliere, secondo il
temporal valore, da molto, e non solamente fu capo e maggiore della
famiglia degli Uberti, ma esso fu ancora capo di parte ghibellina in
Firenze, e quasi in tutta Toscana, sí per lo suo valore, e sí per lo
stato, il quale ebbe appresso l’imperadore Federigo secondo, il quale
quella parte manteneva in Toscana, e dimorava allora nel Regno; e sí
ancora per la grazia, la quale, morto Federigo, ebbe del re Manfredi,
suo figliuolo, con l’aiuto e col favore de’ quali teneva molto
oppressi quegli dell’altra parte, cioè i guelfi. E, secondo che molti
tennero, esso fu dell’opinione d’Epicuro, cioè che l’anima morisse
col corpo, e per questo tenne che la beatitudine degli uomini fosse
tutta ne’ diletti temporali; [ma non seguí questa parte nella forma
che fece Epicuro, cioè di digiunare lungamente, per avere poi piacere
di mangiare del pan secco, ma fu disideroso di buone e di dilicate
vivande, e quelle, eziandio senza aspettar la fame, usò.] E per questo
peccato è dannato come eretico in questo luogo.
Dice adunque l’autore: «Com’io al piè della sua tomba fui»; appare qui
che quelle arche non erano in terra, ma levate in alto; «Guardommi un
poco», forse per vedere se il conoscesse, «e poi quasi sdegnoso»; è
questo atto d’uomini arroganti, li quali quasi, ogni altra persona che
sé avendo in fastidio, con isdegno riguardano altrui; «Mi domandò:—Chi
fûr li maggior tui?»—cioè gli antichi tuoi: e questo per ricordarsi se
cognosciuti gli avesse, posciaché lui non ricognoscea.
«Io, ch’era d’ubbidir disideroso, Non gliel celai, ma tutto gliele
apersi», dicendo che gli antichi suoi erano stati gli Alighieri,
onorevoli cittadini di Firenze, e antica famiglia, sí come piú
distesamente si narrerá nel canto decimoquinto del _Paradiso_; «Ond’ei
levò le ciglia un poco in suso». Sogliono fare questo atto gli uomini
quando odono alcuna cosa, la quale non si conformi bene col piacer
loro, quasi, in quello levare il viso in su, di ciò che odono si
dolgano con Domeneddio o si dolgano di Domeneddio.
«Poi disse:—Fieramente fûro avversi», cioè contrari e nemici,
percioché guelfi erano, «A me», in singularitá, «e a’ miei primi», cioè
a’ miei passati, «e a mia parte».
[Era, come di sopra è detto, la parte di costui quella che ancora
si chiama «parte ghibellina», della qual parte, e della opposita, e
della loro origine, par di necessitá di parlare alquanto diffusamente,
accioché poi, dovunque se ne tratterá in questo libro appresso,
senza avere a replicare, s’intenda. Sono adunque in Italia, giá è
lungo tempo, perseverate, con grandissimo danno e disfacimento di
molte famiglie e cittá e castella, due parti, delle quali l’una è
chiamata parte guelfa e l’altra ghibellina, e hannosi sí fervente odio
portato l’una all’altra, che né il gittar le proprie sustanze, né
il perder gli stati, né il metter se medesimi a pericolo e a morte,
pare che curati si sieno. E questi due nomi, secondo che recitava il
venerabile uomo messer Luigi Gianfigliazzi, il quale affermava averlo
avuto da Carlo quarto imperadore, vennero della Magna, lá dove dice
nacquero in questa forma. Fu in Italia, giá son passati dugento anni,
una nobile donna e di grande animo, e abbondantissima di baronie e
delle mondane ricchezze, chiamata la contessa Matelda, delle cui
laudevoli operazioni distesamente si dirà nel canto vigesimottavo del
_Purgatorio_; la quale, accioché alcun certo erede di lei rimanesse,
cercò di volersi maritare, e, non trovando in Italia alcuno che assai
le paresse conveniente a sé, mandò nella Magna; e qui trovatosi un
barone, il cui nome fu il duca Gulfo, ovvero Guelfo, e costui parendole
e per nobilitá di sangue e per grandigia convenirlesi, fece con lui
trattare il matrimonio. La qual cosa sentendo un parente di questo
Gulfo, il cui nome fu Ghibellino, e udendo la maravigliosa dota che
a costui dovea da questa donna esser data, divenne invidioso della
sua buona fortuna, e occultamente cominciò a cercar vie per le quali
questo potesse sturbare; e ultimamente s’avvenne ad alcuna persona
ammaestrata in ciò, il quale adoperò, con sue malie e con sue malvagie
operazioni, cose, per le quali questo Gulfo fu del tutto privato del
potere con alcuna femina giacere. Per lo qual malificio, essendo
dato opera alle sponsalizie, e Gulfo venuto in Italia, e cercato piú
volte di dare opera al consumamento del matrimonio, e non avendo mai
potuto; tenendosi la donna schernita da lui, con poco onor di lui il
mandò via, né poi volle marito giammai. Gulfo, tornatosi a casa, o
che Ghibellino sospicasse non questo gli venisse che fatto avea, agli
orecchi, o per altro odio che gli portasse, il fece avvelenare, e cosí
morí. Ma questa seconda malvagitá di Ghibellino, conosciuta, manifestò
ancor la prima: per le quali cose assai nobili uomini della Magna si
levarono a dover questa iniquitá vendicare; e cosí molti ne furono in
aiuto e in sussidio di Ghibellino; e tanto procedette la cosa avanti,
che quasi tutta Alamagna fu divisa, e sotto questi due nomi, Guelfo e
Ghibellino, guerreggiavano. Né stette questa maladizione contenta a’
termini della Magna, ma trapassò la fama d’essa in Italia; la quale
udita dalla contessa Matelda, e conoscendo la innocenzia di Gulfo e
la iniquitá di Ghibellino, in aiuto di quegli che vendicar voleano
la morte di Gulfo mandò grandissimo sussidio, nel quale furono molti
nobili uomini italiani. E, percioché per avventura in Italia erano
similmente delle divisioni, quantunque senza alcun notabile nome
fossero, assai di quegl’italiani, che d’altro animo erano che coloro
li quali erano andati a vendicar Guelfo, andarono dalla parte avversa,
mossi da questa ragione, che, se avvenisse agli avversari loro d’aver
bisogno d’aiuto contra di loro, pareva loro essi, con l’avere aiutata
la parte di Gulfo, aver dove ricorrere, e perciò, accioché a loro
similmente non fallasse ricorso, se bisognasse, andarono nell’aiuto
di Ghibellino: e poi l’una parte e l’altra tornatisene di qua, ne
recarono questi sopranomi; cioè quegli, che in aiuto della parte di
Gulfo erano andati, si chiamaron «guelfi», e gli altri «ghibellini».
Ed essendo questa pestilenza per tutta Italia distesa, divenne nella
nostra cittá potentissima: e per la uccisione stata fatta d’un nobile
cavaliere, chiamato messer Bondelmonte, mise maravigliosamente le
corna fuori, e quegli che co’ parenti del cavaliere ucciso teneano,
si chiamaron «guelfi», de’ quali furon capo i Bondelmonti; e la parte
degli ucciditori si chiamò «ghibellina», e fúronne capo gli Uberti. E
questa è quella parte alla quale messer Farinata dice che gli antichi
dell’autore furono fieramente avversi, sí come uomini li quali erano
guelfi, e con quella parte teneano contro a’ ghibellini.]
«Sí che per due fiate gli dispersi», cioè gli cacciai di Firenze
insieme con gli altri guelfi. E questo fu, la prima volta, essendo lo
’mperador Federigo privato d’ogni dignitá imperiale da Innocenzio papa
e scomunicato, e trovandosi in Lombardia, per abbattere e indebolire
le parti della Chiesa in Toscana mandò in Firenze suoi ambasciadori,
per opera de’ quali fu racceso l’antico furore delle due parti guelfa
e ghibellina nella cittá, e cominciaronsi per le contrade di Firenze,
alle sbarre e sopra le torri, le quali allora c’erano altissime, a
combattere insieme e a danneggiarsi gravissimamente, e ultimamente in
soccorso della parte ghibellina mandò Federigo in Firenze milleseicento
cavalieri; la venuta de’ quali sentendo i guelfi, né avendo alcun
soccorso, a dí 2 di febbraio nel 1248, di notte s’usciron della
cittá, e in diversi luoghi per lo contado si ricolsono, di quegli
guerreggiando la cittá. È vero che poi, venuta in Firenze la novella
come lo ’mperador Federigo era morto in Puglia, si levò il popolo della
cittá, e volle che i guelfi fossero rimessi in Firenze: e cosí furono a
dí 7 di gennaio 1250.
La seconda volta ne furon cacciati quando i fiorentini furono
sconfitti a Monte Aperti da’ sanesi, per l’aiuto che’ sanesi ebbero
dal re Manfredi per opera di messer Farinata, il quale avea mandata la
piccola masnada avuta da Manfredi, con la sua insegna, in parte che
tutti erano stati tagliati a pezzi, e la ’nsegna, ecc. La qual novella
come fu in Firenze, sentendo i guelfi che i ghibellini con le masnade
del re Manfredi ne venieno verso Firenze, senza aspettare alcuna forza,
con tutte le famiglie loro, a dí 13 di settembre 1260, se n’uscirono; e
poi, avendo il re Carlo primo avuta vittoria, e ucciso il re Manfredi,
tutti vi ritornarono, e i ghibellini se n’uscirono. De’ quali mai poi
per sua virtú o operazione non ve ne ritornò alcuno; per la qual cosa
dice l’autore:—«S’e’ fûr cacciati», i miei antichi da voi, «e’ tornar
d’ogni parte»,—dove ch’e’ si fossero, «Risposi lui,—e l’una e l’altra
fiata», come di sopra è stato mostrato: «Ma’ vostri», cioè gli Uberti,
li quali con gli altri ghibellini furon cacciati quando la seconda
volta vi ritornarono i guelfi, «non appreser ben quell’arte»,—cioè
del ritornare: percioché, come detto è, mai non ci ritornarono, né,
per quel che appaia, sono per ritornarci. «Allor surse». Qui comincia
la quarta particella di questa terza parte principale, nella quale
l’autore mostra come un’altra anima surgesse e dimandasselo d’alcuna
cosa, ed egli le rispondesse; e però dice: «Allor», mentre io
rispondea, come detto è, a messer Farinata, «surse», si levò, «alla
vista scoperchiata», cioè infino a quella parte della sepoltura non
coperchiata, della qual si poteva veder di fuori; «Un’ombra, lungo
questa, insino al mento»: non si levò diritta in piè, come s’era levato
messer Farinata, ma tanto che dal mento in su si vedea; «Credo che
s’era inginocchion levata»; e cosi dovea essere, poiché piú non se ne
vedea. «D’intorno mi guardò, come talento», cioè volontá, «Avesse di
veder s’altri era meco; Ma, poi che’l sospicciar fu tutto spento»,
cioè poi che vide che io era solo. «Piangendo disse:—Se per questo
cieco Carcere», dello ’nferno, il quale meritamente chiama «carcere»,
percioché alcuno che v’entri mai uscir non ne puote; e chiamal «cieco»,
non perché cieco sia, percioché il luogo non ha attitudine niuna di
poter vedere né d’esser cieco, ma percioché ha a far cieco chi v’entra,
in quanto egli è tenebroso, e ne’ luoghi tenebrosi non si può veder
lume; «vai per altezza d’ingegno», avendo per quella saputo trovar via
e modo, per lo quale, senza ricevere offesa o doverci rimanere, tu ci
vai; «Mio figlio ov’è? e perché non è el teco?»—quasi voglia dire:
conciosiacosaché egli sia cosí di maraviglioso ingegno dotato, come
siè tu. «Ed io a lui:—Da me stesso non vegno»; cioè per l’altezza
d’ingegno che in me sia; «Colui che attende lá», e mostrò Virgilio,
«per qui mi mena», cioè per questo luogo, «Forse cui Guido vostro»,
figliuolo, «ebbe a disdegno».—
«Le sue parole» (cioè: se tu vai per altezza d’ingegno, come non è mio
figlio teco?) «e ’l modo della pena», cioè vederlo dannato tra gli
epicurei, «M’avevan di costui», che mi parlava, «giá detto il nome»,
cioè m’avevan fatto conoscere chi egli era: «Però fu la risposta», mia
a lui, «cosi piena», senza mostrare in alcuna cosa di non intenderlo.
È qui adunque da sapere che costui, il quale qui parla con l’autore,
fu un cavalier fiorentino chiamato messer Cavalcante de’ Cavalcanti,
leggiadro e ricco cavaliere, e seguí l’opinion d’Epicuro in non credere
che l’anima dopo la morte del corpo vivesse, e che il nostro sommo bene
fosse ne’ diletti carnali; e per questo, sí come eretico, è dannato.
E fu questo cavaliere padre di Guido Cavalcanti, uomo costumatissimo
e ricco e d’alto ingegno, e seppe molte leggiadre cose fare meglio
che alcun nostro cittadino; e, oltre a ciò, fu nel suo tempo reputato
ottimo loico e buon filosofo, e fu singularissimo amico dell’autore, sí
come esso medesimo mostra nella sua _Vita nuova_, e fu buon dicitore
in rima: ma, percioché la filosofia gli pareva, sí come ella è, da
molto piú che la poesia, ebbe a sdegno Virgilio e gli altri poeti. E
percioché messer Cavalcante conosceva lo ’ngegno del figliuolo, e la
singulare usanza la quale con l’autore avea, riconosciuto prestamente
l’autore, senza alcuna premessione d’altre parole, nella prima giunta
gli fece la domanda che di sopra si disse.
Poi séguita l’autore e dice che, attristatosi messer Cavalcante per
la risposta udita, «Di subito drizzato, gridò:—Come Dicesti, ’egli
ebbe’?», il che si suol dire delle persone passate di questa vita, e
però segue: «non viv’egli ancora? Non fiere gli occhi suoi il dolce
lome?»—del sole; percioché gli occhi de’ morti non sono quanto i
corporali feriti, cioè illuminati da alcun lume.
«Quando s’accorse», aspettando, «d’alcuna dimora Ch’io faceva dinanzi
alla risposta, cioè non rispondea cosí subitamente, «Supin ricadde»;
segno di pena è il cader supino, la quale assai bene si può comprendere
essergli venuta estimando che ’l figliuolo fosse morto, poiché l’autore
non gli rispondea cosí tosto; percioché gli uomini sogliono soprastare
alla risposta, quando la conoscono dovere esser tale che ella non debba
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