Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - 02

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Altra volta è stato detto di sopra il «fato» doversi intendere la
divina disposizione, contro alla quale volere adoperare non è altro
se non voler cozzare col muro, ché si rompe l’uomo la testa, e ’l
muro non si muove. [Né è però da credere che Domeneddio col suo
provedere ponga necessitá ad alcuno, come pienamente si tratterá nel
decimosettimo canto del _Paradiso_. Ma, percioché qui, poeticamente
parlando, l’autore dice «fate» in plurali, è da sapere, secondo che
i poeti scrivono, che queste fate son tre, delle quali la prima è
nominata Cloto, la seconda Lachesis, la terza Atropos; e, secondo che
dice Teodonzio, elle furon figliuole di Demogorgone e di Caos. (Vuolsi
qui recitare la favola di Pronapide dell’origine di queste fate, e la
sposizion di quella). Ma Tullio, il quale le chiama Parche, _in libro
De natura deorum_, scrive queste essere state figliuole d’Erebo e
della Notte; ma io m’accosto piú con l’opinione di Teodonzio, il quale
vuole queste esser create insieme con la natura naturata, il che par
piú conforme alla veritá. Queste medesime nel preallegato libro chiama
Tullio «fato», quel medesimo dicendo essere stato figliuolo d’Erebo
e della Notte. Seneca, in una epistola a Lucillo, le chiama «fate»,
dicendo nondimeno quello che scrive essere stato detto d’un filosofo
chiamato Cleante, il qual dice: «i fati (o le fate), menano chi vuole
andare, e chi non vuole andare tirano». Ma questa è malvagia sentenza
e da non credere, percioché, se cosí fosse, noi saremmo senza il
libero arbitrio; il che è falso. E questa medesima sentenza par molto
piú apertamente sentire Seneca tragedo, in quella tragedia la quale è
intitolata _Edipo_, dove dice:
_Fatis agimur, credite Fatis:
non sollicitae possunt curae
mutare rati stamina fusi.
Quidquid patimur mortale genus,
quidquid facimus, venit ex alto,
servatque sua decreta colus
Lachesis. Dura revoluta manu,
omnia certo tramite vadunt,
primusque dies dedit extremum.
Non illa deo vertisse licet,
quae nexa suis currunt causis.
It cuique ratus, prece non ulla
mobilis, ordo; multis ipsum
timuisse nocet: multi ad fatum
venere suum, dum Fata timent_, ecc.
E questo medesimo mostra Ovidio d’aver sentito nel suo maggior volume,
dove introduce Giove cosí parlante a Venere:
_...tu sola insuperabile Fatum,_
_nata, movere putas? Intres licet ipsa sororum
tecta trium: cernes illic molimine vasto
ex aere, et solido rerum tabularia ferro:
quae neque concursum caeli, neque fulminis iram,
nec metuunt ullas, tuta atque aeterna, ruinas.
Invenies illic incisa adamante perenni
Fata tui generis_, ecc.
Nelle quali autoritá predette si può manifestamente comprendere
queste tre sirocchie chiamarsi «fate» e «fato». E ch’elle sieno state
da’ poeti nominate tre, credo essere addivenuto piú per mostrare la
diversitá delle operazioni del fato che per intendere che piú che
un fato sia. Scrivono, oltre a questo, queste tre fate essere state
attribuite al servigio d’un iddio, chiamato Pan. È vero che Fulgenzio
dice, nelle sue _Mitologie_, queste essere attribuite al servigio di
Plutone, iddio dello ’nferno, e questo, credo, accioché noi sentiamo
l’opere di queste solamente intorno alle cose terrene esercitarsi,
secondo una significazion di quelle.]
[E dice il predetto Fulgenzio che la interpetrazione di questo
nome Cloto è tanto a dire quanto «evocazione»; percioché a questa
fata s’appartiene dare ad ogni seme, nel debito luogo gittato,
accrescimento, tanto che esso sia atto a dover venire in luce. E, come
esso medesimo dice, Lachesis vien tanto a dire quanto «pertrazione»
o vero «sorte»; percioché quello, che Cloto ha composto e chiamato
fuori in luce, Lachesis l’ha a ricevere e trarlo avanti nella vita.
Atropos è detta ab «_a_», _quod est_ «_sine_», e «_tropos_», _quod
est_ «_conversio_», cioè «senza conversione»; percioché ogni cosa, la
quale nasce, incontanente che ella è pervenuta al termine postole, è
di necessitá che ella caggia nelle mani della morte, dalla quale per
opera naturale niuna conversione è indietro. E Apuleio madaurense,
filosofo di non piccola autoritá, del significato de’ nomi e dell’opere
di queste tre fate, in quel libro il quale egli compose e chiama
Cosmografia, scrive cosí: «_Etiam tria Fata sunt, numero cum ratione
temporis faciente, si potestatem eorum ad eiusdem similitudinem
temporis referas: nam quod in fuso perfectum est, praeteriti temporis
habet speciem; et quod torquetur in digitis, momenti praesentis indicat
spatia; et quod nondum ex colo tractum est subactumque curae digitorum,
id futuri et consequentis saeculi posteriora videtur ostendere.
Haec illis conditio ex nominum eorumdem proprietate contingit: ut
sit Atropos praeteriti temporis fatum, quod ne Deus quidem faciet
infectum; futuri temporis Lachesis, a fine cognominata, quod et illis,
quae futura sunt, finem suum Deus dederit; Clotho praesentis temporis
habet curam, ut ipsis actionibus suadeat, ne cura solers rebus omnibus
desit_», ecc. Son di quegli che vogliono che Lachesis, come altra volta
è detto, sia quella cosa la qual noi chiamiam «fortuna», e da lei
essere ogni cosa, la quale a’ mortali avviene, guidata e menata.]
[Ma, percioché della favola non s’avrebbe quello che per bisogno fa,
se il senso allegorico non si ponesse, verrò a quello. Altra volta
è stato mostrato il causato potersi dir figliuolo del causante; e,
peroché queste fate sono dalla divina mente causate, dir si possono
figliuole di Dio, comeché Demogorgone, di cui Teodonzio dice che
figliuole sono, non sia quello iddio del quale io intendo, quantunque,
secondo la vana opinione e dannevole d’alcuni antichi, fosse iddio
padre di tutti gli altri iddii. E che esse fossero figliuole d’Erebo
e della Notte, come a Tullio piace, si dee cosí intendere. È Erebo,
come altra volta è detto, secondo la veritá, un luogo della terra
profondissimo e nascoso, la qual profonditá è qui da intendere la
profonditá della divina mente, la quale è tanta e sí nascosa, che
occhio mortale non può ad essa trapassare; e conciosiacosaché la
divina mente, sí come se medesima vedente e intendente quello che far
dovea, e quindi queste tre fate con la natura delle cose attualmente
producesse: assai bene possiam dire loro esser nate del profondissimo
e segreto luogo della divina mente. Che esse fossero figliuole della
Notte, si può dire cosí essere quanto è a noi: percioché ciascuna
cosa, alla quale l’acume del nostro vedere non può trapassare, diciamo
essere oscura e simile alla notte; e cosí non potendo trapassare dentro
alle segrete cose del divino intelletto, essendo offuscati dalla
mortal caligine, quantunque esse in sé sieno splendidissime, a quelle
attribuiamo il vizio della debolezza del nostro intelletto, e chiamiamo
notte quella cosa che è chiarissimo dí: e cosí queste fate, da noi non
intese, diciamo essere state figliuole della Notte.]
[Sono, oltre a’ propri nomi, chiamate queste fate da Tullio Parche; e
credo le chiami cosí per contrario, percioché esse non perdonano ad
alcuno. «Fato» o «fate» son nominate da «_for faris_», il quale sta per
parlare; e questo è, percioché pare ciò che avviene essere stato prima
parlato, prevedendo, da Dio. Il che pare che santo Agostino senta nel
libro _De civitate Dei_: ma, come altra volta è detto, pare che egli
abbia in orrore il vocabolo, ammonendone che se alcuno la volontá di
Dio o la podestá chiami fato, che esso tenga la sentenza, ma rifreni
la lingua in non nominarlo cosí. E questo al presente basti aver detto
delle fate.]
Séguita adunque, continuando le parole dell’angelo, l’autore:
—«Cerbero vostro, se ben vi ricorda, Ne porta ancor pelato il mento e
’l gozzo».—Perché questo avvenisse è mostrato di sopra, dove di Teseo
si ragionò.
«Poi», che queste parole ebbe dette, «si rivolse», l’angelo, «per la
strada lorda», del padule di Stige, «E non fe’ motto a noi», percioché
l’uno era dannato, e l’altro non era ancora in tanta grazia di Dio, che
meritasse o saluto o altro dall’angelo. E se forse dicesse alcuno: esso
parlò verso i diavoli, come non poteva egli far motto a costoro, che
erano assai men colpevoli? Puossi cosí rispondere: esso aver parlato
a’ diavoli in loro confusione e danno; il che costoro non meritavano,
percioché non avean commesso quello che i demòni. «Ma fe’ sembiante
D’uomo, cui altra cura stringe e morda, Che quella di colui che gli è
davante»: e cosí trapassò oltre.
«E noi movemmo». Qui comincia la quinta e ultima parte di questo
canto, nella quale l’autor pone come nella cittá íentrassono, e quivi
vedessono in arche affocate punire gli eresiarci. Dice adunque:
«E noi movemmo i piedi inver’ la terra», cioè verso Dite, «Sicuri
appresso le parole sante», dette dall’angelo contro a que’ demòni che
contrastavano, le quali quanto a noi furono sonore, ma quanto a color,
contro a’ quali furon dette, furon dolorose e piene d’amaritudine.
«Dentro v’entrammo»; e cosí del quinto cerchio, qui discende l’autore
nel sesto, quantunque alcuna piú aperta menzion non ne faccia; «senza
alcuna guerra», cioè senza alcuno impedimento o contrasto.
«Ed io, ch’avea di riguardar disio», sí come universalmente abbiam
tutti di veder cose nuove, «La condizion», de’ peccatori, «che tal
fortezza serra»; percioché aveva, come di sopra è mostrato, le mura
di ferro, ed era guardata da tanti demòni, quanti in su la porta
trovarono, e ancora dalle tre furie; «Com’io fu’ dentro, l’occhio
intorno invio», si come investigatore delle cose che da vedere e da
notar vi fossono; «E veggio ad ogni man», a destra e a sinistra,
«grande campagna», cioè grandi spazi in forma di campagna, «Piena di
duolo e di tormento rio». [Dice «rio» essere il tormento de’ dannati,
per rispetto a quello che la giustizia di Dio dá a coloro li quali
de’ loro peccati si purgano; e percioché amenduni cocentissimi sieno,
quello de’ dannati sará eterno, dove quello di coloro che si purgano
avrá alcuna volta fine.]
E come questa campagna sia fatta, il mostra per due comparazioni,
dicendo primieramente esse campagne esser fatte «Sí come ad Arli».
Arli è una cittá antica in su il Rodano in Provenza, assai vicina alla
foce del mare, cioè lá dove il Rodano mette in mare, «ove il Rodano
stagna». È il Rodano un grandissimo fiume il quale esce, secondo che
Pomponio Mela nel secondo libro della sua _Cosmografia_ scrive, di
quella medesima montagna della quale escono il Danubio e ’l Reno, né
è la sua origine guari lontana a quella de’ predetti due; e quindi ne
viene in un lago chiamato Lemanno, volgarmente detto Losanna, nel quale
alquanto raffrena l’impeto suo; e nondimeno quale egli entra in questo
lago, tale se n’esce, cioè di quella grandezza, e quindi per alcuno
spazio corre verso occidente, dividendo l’una Gallia dall’altra; e
poi, rivolto il corso verso mezzodí, e ricevuto Arari, e ancora Isara
e Durenza, correntissimi fiumi, e altri assai, e divenuto grandissimo,
corre intra popoli anticamente chiamati i volchi e’ cavari; oltre a’
quali sono gli stagni de’ volchi, e un fiume secondo l’antico nome
chiamato Ledu, e un castello chiamato Letara; e quindi diviso mette
in mare. E, secondo che scrive Plinio nel libro terzo _De historia
naturali_, nella sua foce fu una terra chiamata Eraclea, oltre alla
fossa fatta del Rodano cento passi, da Mario fatta, e quivi essere
un ragguardevole stagno, per lo quale l’autor dice: «ove ’l Rodano
stagna», cioè fa il predetto stagno; ed estimo io Arli essere quella
terra la qual Plinio dice si chiamava Eraclea.
E, oltre a ciò, soggiugne l’autore la comparazion seconda, dicendo:
«Si com’a Pola». Pola è una cittá in Istria, la quale, secondo che
Giustino dice, fece Medea moglie di Giasone, capitata quivi con
lui quando di Colcos veniva, e abitolla di colchi. Il come quivi
capitasse, venendo nel mar maggiore, e volendo venire in Tessaglia,
sarebbe lunga istoria, e però la lascio. «Presso del Quarnaro,
Ch’Italia chiude, e suoi termini bagna». È il Quarnaro un seno di
mare, il qual nasce del mare Adriano, e va verso tramontana, e quivi
divide Italia dalla Schiavonia; e chiamasi Quarnaro da’ popoli li
quali sopr’esso abitarono, che si chiamarono _Carnares_. «Fanno i
sepolcri», li quali in quel luogo sono, «tutto ’l loco varo», cioè
incamerellato, come veggiamo sono le fodere de’ vai, il bianco delle
quali, quasi in quadro, è attorniato dal vaio grigio, il quale vi si
lascia accioché altra fodera che di vaio creduta non fosse da chi la
vedesse. È il vero che ad Arli, alquanto fuori della cittá, sono molte
arche di pietra, fatte ab antico per sepolture, e quale è grande e
quale è piccola, e quale è meglio lavorata e qual non cosí bene, per
avventura secondo la possibilitá di coloro li quali fare le fecero; e
appaiono in alcune d’esse alcune scritture secondo il costume antico,
credo a dimostrazione di chi dentro v’era seppellito. Di queste
dicono i paesani una lor favola, affermando in quel luogo essere già
stata una gran battaglia tra Guiglielmo d’Oringa e sua gente d’una
parte, o vero d’altro prencipe cristiano, e barbari infedeli venuti
d’Affrica; ed essere stati uccisi molti cristiani in essa; e che poi
la notte seguente, per divino miracolo, essere state quivi quelle
arche recate per sepoltura de’ cristiani, e cosí la mattina vegnente
tutti i cristiani morti essere stati seppelliti in esse. La qual
cosa, quantunque possa essere stata, cioè che l’arche quivi per li
morti cristiani recate fossero, io nol credo. Credo bene essere a Dio
possibile ciò che gli piace, e che forse quivi fosse una battaglia, e
che i cristiani morti fossero seppelliti in quelle arche: ma io credo
che quelle arche fossero molto tempo davanti fatte da’ paesani per loro
sepolture, come in assai parti del mondo se ne truovano; e quello che
di questo credo, quel medesimo credo di quelle che si dice sono a Pola.
Dice adunque l’autore, continuandosi al primo detto, che come ad Arli
e a Pola la moltitudine delle sepolture fanno il luogo varo, «Cosí
facevan quivi d’ogni parte», cioè a destra e a sinistra, «Salvo», cioè
eccetto, «che ’l modo v’era piú amaro», qui, che ad Arli o a Pola.
E poi discrive come piú amaro v’era il modo, dicendo: «Che tra gli
avelli», cioè tra le sepolture le quali quivi erano, chiamate in
fiorentin volgare «avelli»; e credo vegna questo vocabolo da «_evello
evellis_», percioché la terra s’evelle del luogo dove l’uom vuole
seppellire alcun corpo morto; «fiamme erano sparte, Per le quali
eran sí del tutto accesi», quegli avelli, «Che ferro piú», acceso,
cioè rovente, «non chiede verun’arte», la quale di ferro lavori, il
quale lavorare non si può né riducere in quella forma la quale altri
vuole, se egli non è molto rovente. «Tutti li lor coperchi», di quelle
arche, «eran sospesi», cioè levati in alto, «E fuor n’uscivan si
duri lamenti», per lo grieve martiro fatti da’ miseri che dentro vi
giaceano, «Che ben parean di miseri e d’offesi».
E però l’autore si mosse a domandar Virgilio, dicendo: «Ed
io:—Maestro, quai son quelle genti, Che seppellite dentro da
quell’arche», cioè affocate, «Si fan sentir con gli sospir dolenti.»?
-la qual cosa dice l’autore, percioché veder non si lasciano, e non si
possono.
[Lez. XXXVII]
«Ed egli a me:—Qui son gli eresiarche». «Eresiarche» si chiamano i
prencipi dell’eretica pravitá, e dicesi questo nome _ab_ «_haeresis_»
_et_ «_arce_», _quod est_ «_princeps_», quasi «principe d’eresi».
«Eresi», secondo che dice Papia, son quegli li quali di Dio o
delle creature o di Cristo e della chiesa diversamente sentono;
e cosí, avendo conceputa alcuna perfidia di nuovo errore, quella
pertinacissimamente difendono. E di questi dopo la resurrezione
di Cristo furon molti che diversamente opinarono, e perversamente
credettero e insegnarono. E per quello che appaia in un libretto il
quale sant’Agostino scrive _Degli eresiarci_, e delle qualitá de’ loro
errori, mostra che infino a’ tempi suoi ne fossero novantaquattro,
cioè prencipi d’eresie, li quali tutti diversamente l’uno dall’altro
errarono, ed ebbero uditori e fautori della loro eresia: tra’ quali
egli annovera Simon mago, Macedonio, Manicheo, Arrio, Nestoriano,
Celestino e altri assai, li quali l’autore qui dice esser puniti. E
mostra ancora l’autor sentire esser con questi, che dopo la resurrezion
di Cristo furono, certi filosofi gentili, comeché di quegli non nomini
che Epicuro solo; e dice non solamente costoro quivi esser puniti,
ma esservi «Co’ lor seguaci», ed esservi «d’ogni setta» d’eretici.
E chiamale «sètte», il qual nome viene da «_seco secas_», il qual
vuol dire «dividere»; percioché essi primieramente son divisi dalla
cattolica fede, e poi son divisi infra sé, si come coloro li quali
niuno crede quello che l’altro. E poi segue: «e molto Piú che non credi
son le tombe carche», cioè piene; percioché stati ne sono di quegli che
hanno avuto grandissimo séguito, e tra gli altri Arrio, il cui errore
tenne molti imperadori e altri principi e popoli, in tanto che quasi
non eran piú cristiani cattolici che fossero gli arriani: e durò lungo
tempo questa perfidia.
«Simile qui con simile è sepolto»: e cosí pare che i seguaci sieno in
una medesima arca col prencipe loro.
«E’ monimenti», cioè le sepolture. Le quali per molti nomi chiamate
sono; e averne alcuna volta fatta menzione in ammaestramento di coloro
che nol sanno, non sará altro che utile. E qui viene in destro, perché
in luogo di supplicio son date agli eretici. Chiamale adunque in questo
canto l’autore: «sepolcri», «avelli», «arche», «tombe», «monimenti»;
nominansi ancora: «locelli», «tumuli», «sarcofagi» e «mausolei»,
«busti», «urne». Chiamasi adunque «sepolcro», quasi «_seorsum a
pulchro_», percioché è da cosa bella separato, conciosiacosaché i corpi
corrotti, li quali in essi sono, siano turpissima cosa a vedere. Perché
«avello» si chiami, è detto davanti. Chiamasi «arca», percioché assai,
essendo di pietra e di marmo, hanno quella forma che hanno l’arche
del legno, nelle quali molti conservano il grano e le cose loro; ed
è detta questa «arca», percioché ella ha a rimuovere il vedere delle
cose che dentro vi sono, o il ladro da poterle tôrre, e di quinci
viene «arcano», la cosa segreta. Chiamansi «tombe», percioché, essendo
sotterra luoghi concavi, par che risuonino o rimbombino; e perciò si
dice «_tumba_», quasi «_tumulus bombans_», cioè cosa rilevata che
rimbombi. Chiamasi «monimento», percioché «ammoniscono» la mente de’
riguardanti, recando loro a memoria la morte o il nome di colui che in
esso è seppellito. Chiamasi ancora «locello», quasi «piccol luogo»,
per rispetto del grande, il quale vivi vogliamo occupare e occupiamo,
e poi, morti, in picciolissimo luogo capiamo. Chiamasi «tumulo», quasi
«terra gonfiata e rilevata», sí come talvolta veggiamo sopra i corpi
che nuovamente sono seppelliti in terra; e, oltre a ciò, solevano gli
antichi fare sopra i corpi de’ nobili uomini alcuno edificio alquanto
rilevato, il quale avesse a dimostrare il luogo dove quel cotale fosse
stato seppellito; de’ quali noi veggiamo ancora oggi per lo mondo
assai. Chiamasi «sarcofago», percioché in esso si consuma la carne di
chi v’è dentro seppellito, e dicesi da «_sarca_», _graece_, che tanto
vuol dire quanto «carne», e «_paghos_», che tanto vuol dire quanto
«mangiare»; e in essi i vermini mangiano la carne del seppellito.
Chiamansi ancora «mausolei», e questa è nobile spezie di sepolcri,
si come son quegli de’ re e de’ gran principi; e chiamansi cosí da
Mausolo, re di Caria, al quale, morto, Artemisia reina, sua moglie,
fece una mirabile sepoltura. La quale, secondo che l’antiche storie
testimoniano, fu di spesa e di grandezza e d’artificio maravigliosa;
percioché Artemisia, ogni femminile avarizia posta giú, fece chiamare
a sé i quattro maggiori maestri d’intaglio e di edificare che al mondo
avesse a’ suoi tempi, i nomi de’ quali furono Scopas, Bryaxes, Timoteo
e Leochares; e fuori d’Alicarnasso, sua real cittá, comandò loro che
ordinassero, senza avere riguardo ad alcuna spesa, il piú nobile e il
piú magnifico sepolcro che far si potesse. Li quali, preso uno spazio
quadro, la cui lunghezza fu sessantatré piedi, la larghezza non fu
tanta, l’altezza fu centoquaranta, il circúito del quale cinsero di
trentasei maravigliose colonne; e quella parte, la quale era vòlta a
levante, dicono che intagliò Scopas, e quella che era a tramontana
Bryaxes, e quella che vòlta era in ponente lavorò Leochares, e la
quarta Timoteo; li quali in intagliare istorie e immagini, ovvero
statue, posero tanto studio e tanta arte, per dover ciascuno apparere
il migliore, che, molti secoli poi, assai agevolmente apparve
agl’intendenti questi maestri avere lavorato per disiderio di gloria,
e non per guadagno; e cosí infino al disiderato fine il produssero.
Appresso a’ quali vi venne un quinto artefice, di non minore ingegno
che i quattro primi, chiamato Yteron, il quale per ventiquattro gradi
ragguagliò la piramide, cioè la punta quadra superiore; e poi vi
s’aggiunse il sesto, chiamato Pythis, il quale nella sommitá di tutto
il dificio fece una quadriga, cioè un carro con quattro ruote, tirato
da quattro cavalli, con maraviglioso artificio composta. E in questo
finí il lavorio di tanta bellezza e sí magnifico, che lungo tempo
fu annoverato l’uno de’ sette miracolosi lavorii, li quali in tutto
il mondo essere allora si ragionavano. E da Mausolo fu «mausoleo»
nominato; e cosí, come detto è, ancora si nominano le maravigliose
sepolture de’ re. Chiamansi ancora i sepolcri, «busti», e questi son
detti da’ corpi «combusti», cioè arsi, sí come anticamente far si
soleano. E chiamansi «urne», le quali erano certi vasi di terra e
d’ariento e d’oro, secondo che color potevano che ciò facevano, nelle
quali, con diligenzia ricolta, la cenere d’alcun corpo arso dentro vi
mettevano. E questo basti aver de’ sepolcri detto. Séguita: «son piú
e men caldi», secondo la gravezza maggiore e minore del peccato della
eresia di quegli eretici che dentro vi son tormentati.
E detto questo degli eretici, mostra come avanti procedessero, pur
tra le sepolture, dicendo: «E poi ch’alla man destra si fu vòlto»,
Virgilio, «Passammo tra i martiri», cioè tra quelle sepolture, «e
gli alti spaldi». «Spaldo» in Romagna è chiamato uno spazzo d’alcun
pavimento espedito; e perciò dice che tra’ martiri passò, e tra’ luoghi
che quivi espediti erano.

II
SENSO ALLEGORICO
«Quel color, che viltá di fuor mi pinse», ecc. Avendo l’autore ne’
precedenti canti, secondo, la dimostrazion fattagli dalla ragione,
dimostrato che peccati sien quegli a’ quali noi naturalmente tirati
siamo, e ne’ quali noi per incontinenzia vegnamo, e ancora quali
supplici ad essi dalla divina giustizia sieno imposti; e restandogli a
discriver quegli li quali per bestialitá e per malizia si commettono,
accioché, cognosciutigli, meglio da essi guardar ci sappiamo, e
ancora, se in essi caduti fossimo, ce ne dogliamo, e per penitenzia
perdono meritiamo; e parendogli opportuno, a dover questo fare, di
dimostrare superficialmente dove questi peccati si piangono, e, in
parte, la cagione dalla quale par che provengano: primieramente scrive
come alla cittá di Dite pervenisse, e come in quella gli fosse negata
l’entrata; e appresso come da tre furie infernali fosse provocato il
Gorgone per doverlo far rimanere, e quinci perché quello per opera
della ragione non aveva potuto avere effetto, come e per cui fosse la
porta della cittá aperta, e come dentro seguendo la ragione v’entrasse,
disegna; e quale spezie di peccatori, entratovi, primieramente in
doloroso tormento trovasse. E percioché a lui medesimo par sotto molto
artificioso velame aver queste cose nascose (come nel testo appare),
rende solleciti coloro li quali hanno sani gl’intelletti, a dovere
agutamente riguardare ciò che esso ha riposto sotto i versi suoi.
È adunque primieramente da vedere quello che esso abbia voluto che
s’intenda per la cittá di Dite. Il che se perspicacemente riguarderemo,
assai ben potremo comprendere lui voler sentire questa cittá niuna
altra cosa significare, che il luogo dello ’nferno nel quale si
puniscono gli ostinati. E ciò dimostra in due cose, delle quali
discrive questo luogo essere circundato, cioè dalla padule di Stige,
della quale dice i fossi di questa cittá esser pieni, e impedire ogni
entrata, fuori che quella alla quale Flegiás dimonio con la sua nave
perducesse altrui; e, appresso, essa cittá aver le mura di ferro, le
quali non si posson leggiermente rompere o spezzare. Per le quali due
cose sono da intendere due singulari proprietá degli spiriti maladetti
che in esso luogo tormentati sono, o vogliam dire dell’anime ostinate,
le quali in quello luogo in diversi supplici punite sono: ed è la prima
«tristizia», significata per Stige, percioché la tristizia si può dire
essere la prima radice della ostinazione, si come appresso apparirá;
la seconda è la «inflessibile fermezza» del malvagio proponimento,
nel quale senza mutarsi consiste l’ostinato, e questa è significata
per le mura del ferro, la cui durezza è tanta e tale, che per forza
di fuoco, non che d’altra cosa, non si può liquefare, come tutti gli
altri metalli fanno: e perciò per esso ferro assai ben si dimostra la
seconda qualitá degli animi degli ostinati, li quali né caldo alcuno di
caritá, né dimostrazione o ragione alcuna puote ammollire, né riducere
in alcuna laudevole forma.
E chiama l’autore questo luogo Dite, cioè «ricco» e «abbondante»; ed
esso medesimo mostra di che ricco e abbondante sia, cioè di «gravi
cittadini», e di «grande stuolo», cioè moltitudine: percioché, per
lo trasandare nelle colpe, li piú de’ peccatori da’ peccati naturali
trasvanno ne’ bestiali o ne’ fraudolenti; e cosí questa ultima e piú
profonda parte dello ’nferno è molto piú piena che la superiore. E
pare che questa pestilenza entri negli animi, come detto è, per lo
trasandar nelle colpe o per bestialitá o per malizia, delle quali
l’una non lascia cognoscer la misericordia di Dio, e l’altra non la
vuoi cognoscere; e però, trascorsi con abbandonate redine ne’ vizi
e in quegli per lungo trasandare abituati, gli s’hanno ridutti in
costume; e quando il vizio è convertito in costume, niuna speranza di
poterlo rimuovere si puote avere; e cosí indurati e sassei divenuti,
caggiono in questo miserabile luogo. Nel quale per ciò è vietata
l’entrata alla ragione e all’autore: alla ragione, percioché il
costume degli ostinati è non volere, come detto è, alcuna ragione
udire incontro alla loro sassea e dannosa opinione; all’autore fu
vietata, percioché nel vizio della ostinazione non era venuto. E
cosí, parendo a’ ministri del doloroso luogo lui non dover venire
per rimanere, come gli altri facevano che v’entravano, non fu voluto
ricevere, ma essere alla ragione e a lui stata serrata la porta non
di Dite, ma de lo ’ntelletto, da’ loro avversari, li quali con ogni
lor forza e con tutto il loro ingegno adoperano che alcuno conoscer
non possa quello, che, conosciuto, gli sia cagione di schifare la sua
perdizione, e quel seguire che sua salute sia. Ché per altro non si
curerebbe il demonio che l’uomo conoscesse il vizio e ancora la pena
apparecchiata a quello, se non fosse che vede che, per lo conoscere,
l’uomo si guarda di non cadere, e diviene piú costante contro alle sue
tentazioni; e non conoscendolo ancora, e non essendo tanto pienamente
informato, quanto bisogno fa a ciascuno che intera contrizion vuole
avere, e per conseguente pervenire ben disposto alla confessione;
s’ingegna di doverlo far cadere nella ostinazione, accioché piú avanti
non vada a quello che sua salute può essere. E percioché negli animi,
li quali sono in pendulo e spaventati, piú leggiermente s’imprieme
questa maladizione, cioè l’ostinazione, vegnono le tre furie infernali
orribili a vedere, e con pianti e con rumore è da loro chiamato il
Gorgone, cioè la ostinazione, cioè per quegli rumori s’ingegnano
d’occupare con questo vizio il petto dell’autore: ma per l’opera e
dimostrazione della ragione ciò non avviene, anzi piú tosto è da lui la
sua origine conosciuta e dimostrata a noi.
[Alla qual dimostrazione voler con minor difficultá comprendere, è da
vedere chi fossero queste tre furie infernali, i nomi loro e’ loro
effetti, secondo che sentirono gli antichi poeti. Furono dunque, le
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