Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - 09

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e fu in quella zuffa gravemente fedito e preso Azzolino, e menatone
in Casciano, un castello ivi vicino, dove mai né mangiar volle, né
bere, né lasciarsi curare; e cosí si morí nel 1260, e fu onorevolmente
seppellito nel castello di Solcino. E percioché violentissimo fu, come
mostrato è, il pone l’autore qui in quel sangue bollire e esser dannato.
[Lez. XLVII]
«E quell’altro, ch’ è biondo, È Opizzo da Esti, il qual per vero Fu
spento dal figliastro sú nel mondo». Questo Opizzo da Esti dice alcuno
che fu dei marchesi da Esti, li quali noi chiamiamo da Ferrara, e fu
fatto per la Chiesa marchese della Marca d’Ancona, nella quale, piú la
violenza che la ragione usando, fece un gran tesoro, e con quello e con
l’aiuto di suoi amici occupò la cittá di Ferrara, e cacciò di quella
la famiglia de’ Vinciguerre con altri seguaci di parte imperiale; e,
appresso questo, per piú sicuramente signoreggiare, similmente ne
cacciò de’ suoi congiunti; ultimamente dice lui una notte esser costui
stato, da Azzo suo figliuolo, con un piumaccio affogato. Ma l’autor
mostra di voler seguire quello che giá da molti si disse, cioè questo
Azzo, il quale Opizzo reputava suo figliuolo, non essere stato suo
figliuolo; volendo questi cotali la marchesana moglie d’Opizzo averlo
conceputo d’altrui, e dato a vedere ad Opizzo che di lui conceputo
l’avesse: e perciò dice l’autore «Fu spento», cioè morto, «dal
figliastro». E, percioché violento uom fu, quivi tra’ tiranni e omicide
e rubatori il dimostra esser dannato.
«Allor mi volsi al poeta», per veder quello che gli paresse di ciò
che il centauro diceva, e se esso gli dovesse dar fede, «e que’
disse:—Questi ti sia or primo», cioè dimostratore, «ed io secondo».—E
vuole in questo affermar Virgilio che al centauro sia da dar fede a
quel che dice.
«Poco piú oltre il centauro s’affisse Sovr’una gente che ’nfino alla
gola Parca che di quel bullicame uscisse», tenendo tutto l’altro corpo
nascoso sotto il bogliente sangue. E chiamalo «bullicame» da un lago il
quale è vicino di Viterbo, il qual dicono continuamente bollire; e da
quello bollire o bollichío esser dinominato «bullicame»: e perdoché, in
questo bollire, quel sangue è somigliante a quell’acqua, per lo nome di
quella, o pur per lo suo bollir medesimo, il nomina «bullicame».
«Mostrocci un’ombra dall’un canto sola. Dicendo:—Colei fesse in
grembo a Dio, Lo cor, che ’n su Tamigi ancor si cola». A dichiarazion
di questa parte è da sapere che, essendo tornati da Tunisi in Barberia
il re Filippo di Francia e il re Carlo di Cicilia e Adoardo e Arrigo,
fratelli, e figliuoli del re Riccardo d’Inghilterra, e pervenuti a
Viterbo, dove la corte di Roma era allora nel 1270, e attendendo a
riposarsi e a dare ancora opera che i cardinali riformassero di buon
pastore la Sedia apostolica, la quale allora vacava; avvenne che,
essendo il sopradetto Arrigo, il quale divoto e buon giovane era, ad
udire in una chiesa la messa, in quella ora che il prete sacrava il
corpo di Cristo, entrò nella detta chiesa il conte Guido di Monforte;
e, senza avere alcun riguardo alla reverenza debita a Dio o al re
Carlo suo signore, essendo venuto bene accompagnato d’uomini d’arme,
quivi crudelmente uccise Arrigo predetto. Ed essendo giá della chiesa
uscito per andarsene, il domandò un de’ suoi cavalieri ciò che fatto
avea; il quale rispose che egli aveva fatta la vendetta del conte
Simone, suo padre (il quale era stato ucciso in Inghilterra, e,
secondo che alcuni voglion dire, a sua gran colpa). A cui il cavaliere
disse:—Monsignore, voi non avete fatto alcuna cosa, percioché vostro
padre fu strascinato.—Per le quali parole il conte, tornato indietro,
prese per li capelli il morto corpo d’ Arrigo, e quello villanamente
strascinò infin fuori della chiesa; e, ciò fatto, montato a cavallo,
senza alcuno impedimento se n’andò in Maremma nelle terre del conte
Rosso, suo suocero: per lo quale omicidio l’autore il dimostra essere
in questo cerchio dannato. E in quanto l’autor dicesse «fesse»,
intende: aperse violentemente col coltello; «in grembo a Dio», cioè
nella chiesa, percioché la chiesa è abitazion di Dio, e, chiunque è
in quella, dee casi essere da ogni secular violenza sicuro, o ancora
legge o podestá, come se nel grembo di Dio fosse; e séguita l’autore
essere stato fesso «in grembo a Dio», da questo conte Guido, «Lo cuor,
che ’n su Tamigi ancor si cola», cioè d’Arrigo, ucciso dal detto conte.
Il quale Aduardo, suo fratello, seppellito tutto l’altro corpo con
molte lacrime, seco se ne portò in Inghilterra, e quello, pervenuto a
Londra, fece mettere in un calice d’oro; e, fatta fare una statua di
pietra o di marmo che sia, o vero, secondo che alcuni altri dicono, una
colonna sopra ’l ponte di Londra, il quale è sopra il fiume chiamato
Tamigi, pose nella mano della detta statua, o vero sopra la colonna,
questo calice, a perpetua memoria della ingiuria e violenza fatta
al detto Arrigo e alla real casa d’Inghilterra. E quegli che dicono
questa essere statua, vi aggiungono essere nel vestimento della detta
statua scritto, o vero intagliato, un verso il quale dice cosí: «_Cor
gladio scissum do cui sanguineus sum_»; cioè: «io do il cuor fesso col
coltello a qualunque è colui di cui io sono consanguineo», cioè d’un
medesimo sangue: e in questo pareva e al padre e al fratello e agli
altri suoi domandar della violente morte vendetta. E dice l’autore che
questo cuore d’ Arrigo, ancora in quel luogo dove posto fu, «si cola»,
cioè onora; e viene da _colo, colis_; e pertanto dice che egli s’onora,
in quanto con reverenza e compassione, avendo riguardo alla benignitá e
alla virtú di colui di cui fu, è da tutti quegli, che per quella parte
passano, riguardato.
«Poi vidi gente, che di fuor del rio», cioè a quel fiume bogliente,
«tenean la testa, ed ancor tutto il casso», cioè tutta quella parte
del corpo che è di sopra al luogo ordinato in noi dalla natura per
istanza del ventre e delle budella, la quale da quella è divisa da
una pellicula, la quale igualmente si muove da ogni parte, cioè dalla
destra e dalla sinistra, e quivi si congiugne insieme, donde il cibo
digesto discende alle parti inferiori; e chiamasi «casso», percioché
in quella parte ha assai del vacuo, il quale la natura ha riservato al
battimento continuo del polmone, col quale egli attrae a sé l’aere, e
mandalo similmente fuori; per la quale esalazione persevera la virtú
vitale nel cuore. E puossi in queste parole, e ancora in alcune altre
che seguono, comprendere, secondo il piú e ’l meno avere violentemente
ucciso o rubato, avere dalla divina giustizia piú o meno pena in quel
sangue bogliente. Poi séguita: «E di costoro», li quali eran tanto
fuori del bollore, «assai riconobb’io», ma pur non ne nomina alcuno.
«Cosí», procedendo noi, «a piú a piú si facea basso», cioè con minor
fondo, «Quel sangue sí», in tanto «che copria pure i piedi:, a quegli
che dentro v’erano: «E quivi», dove egli era cosí basso, «fu del
fosso», cioè di quel fiume, «il nostro passo», cioè per quel luogo
passammo in un bosco, il quale nel seguente canto discrive.
E, passati che furono:—«Sí come tu da questa parte», dalla qual venuti
siamo, «vedi, Lo bullicame, che sempre si scema», tanto che, come tu
vedi, non cuopre piú su che i piedi: «—Disse ’l centauro,—voglio
che tu credi, Che da quest’altra», parte, lungo la quale noi non siam
venuti, «a piú a piú giú priema Lo fondo suo», e cosí si fa piú cupo,
«infin ch’e’ si raggiugne, Ove la tirannia convien che gema», cioè a
quel luogo dove io ti mostrai essere Alessandro e Dionisio. E, accioché
egli sia informato di quegli che in quel profondo tutti coperti del
sangue sostengon pena, ne nomina alcuni dicendo: «La divina giustizia
di qua», cioè da questa parte da te non veduta, «pugne», cioè tormenta,
«Quell’Attila, che fu flagello in terra».
Attila, secondo che scrive Paolo Diacono nelle sue Croniche, fu re
de’ goti al tempo di Marziano imperadore. Ed essendo egli, e un suo
fratello chiamato Bela, potentissimi signori, sí come quegli che per la
lor forza s’avevano molti reami sottomessi; accioché solo possedesse
cosí grande imperio, iniquamente uccise Bela. E quindi, venutogli in
animo di levar di terra il nome romano, con grandissima moltitudine
de’ suoi sudditi passò in Italia; al quale fattisi i romani incontro,
con loro molti popoli e re occidentali combatteron con lui; nella
qual battaglia furono uccise tante genti dell’una parte e dell’altra,
che quasi ciascun rimase come sconfitto; e, secondo che scrive Paolo
predetto, e’ vi furono uccisi centottanta migliaia d’uomini. Per la
qual cosa Attila, tornato nel regno, inanimato piú che prima contro
al romano imperio, restaurato nuovo esercito, passò di qua la seconda
volta, e, dopo lungo assedio, prese Aquileia, e poi piú altre cittá e
terre di Frigoli, e tutte le disolò: e passato in Lombadia, similmente
molte ne prese e disfece: ma quasi tutte, fuori che Modona, per la
quale passò col suo esercito, e per i meriti de’ prieghi di san
Gimignano, il quale allora era vescovo di quella, non la vide infino
a tanto che fuori ne fu, né egli né alcun de’ suoi; per la qual cosa,
avendo riguardo al miracolo, la lasciò stare senza alcuna molestia
farle. Similmente passò in Toscana, e in quella molte ne consumò; e tra
esse, scrive alcuno, con tradimento prese Firenze e quella disfece.
Scrive nondimeno Paolo Diacono che, avendo Attila rubate e guaste piú
cittá in Romagna, e avendo il campo suo posto in quella parte dove il
Mencio mette in Po, e quivi stesse intra due, se egli dovesse andare
verso Roma, o se egli se ne dovesse astenere (non giá per amore né
per reverenza della cittá, la quale egli aveva in odio, ma per paura
dello esempio del re Alarico, il quale, andatovi e presa la cittá, poco
appresso morí): avvenne che Leone papa, santissimo uomo, il quale in
que’ tempi presedeva al papato, personalmente venne a lui, e ciò che
egli addomandò, ottenne. Di che maravigliandosi i baroni d’Attila,
il domandarono perché, oltre al costume suo usato, gli avea tanta
reverenza fatta, e, oltre a ciò, concedutogli ciò che addomandato avea;
a’ quali Attila rispuose sé non avere la persona del papa temuta,
ma un altro uomo, il quale allato a lui in abito sacerdotale avea
veduto, uomo venerabile molto e da temere, il quale aveva in mano
un coltello ignudo, e minacciavalo d’ucciderlo se egli non facesse
quello che’l papa gli domandasse. Cosí adunque repressa la rabbia e
l’impeto d’Attila, senza appressarsi a Roma, se ne tornò in Pannonia;
e quivi, oltre a piú altre mogli le quali aveva, ne prese una chiamata
Ilditto, bellissima fanciulla: e celebrando nelle nozze di questa
nuova moglie un convito grandissimo, bevé tanto vino in quello, che la
notte seguente, giacendo supino, se gli ruppe il sangue del naso, come
altra volta soleva fare, e fu in tanta quantitá, che egli l’affogò,
e cosí miseramente morí. La cui morte per sogno fu manifestata a
Marziano imperadore, il quale essendo in Costantinopoli, quella notte
medesima nella quale morí Attila, gli parve in sogno vedere l’arco
d’Atti a esser rotto; per la qual cosa comprese Attila dovere esser
morto, e la mattina seguente a piú de’ suoi amici il disse; e poi si
ritrovò esser vero che propriamente quella notte Attila era morto. Fu
costui cognominato «_flagellum Dei_», e veramente egli fu flagello di
Dio in Italia: e ciò fu estimato, percioché, essendo ancora le forze
degl’italiani grandi, dalla prima battaglia fatta con lui, nella quale
igualmente ciascuna delle parti fu vinta, non ardirono piú a levare il
capo contro di lui: laonde apparve, alle crudeli cose da Attila fatte
in Italia, lui essere stato un flagello mandato da Dio a gastigare
e punire le iniquitá degl’ italiani, le quali in tanto ogni dovere
eccedevano, che esse erano divenute importabili.
Sono, oltre a questo, molti che chiamano questo Attila, Totila,
li quali non dicon bene, percioché Attila fu al tempo di Marziano
imperadore, il qual fu promesso all’imperio di Roma, secondo che scrive
Paolo predetto, intorno dell’anno di Cristo 440, e Totila, il quale fu
suo successore, fu a’ tempi di Giustino imperadore, intorno agli anni
di Cristo 529: per che appare Attila stato dinanzi a Totila vicino
di novanta anni; e, oltre a ciò, avendo Totila occupata Roma, e giá
regnato nel torno di dieci anni, fu da Narsete patrizio, mandato in
Italia da Giustino, sconfitto e morto.
«E Pirro». Leggesi nelle istorie antiche di due Pirri, de’ quali
l’uno fu figliuolo d’Achille, l’altro fu figliuolo d’Eacida, re degli
epiroti. E, peroché ciascuno fu violento uomo e omicida e rubatore,
pare a ciascuno questo tormento per le sue colpe convenirsi; ma, perché
l’autore non distingue di quale intenda, come di sopra di Dionisio
facemmo, cosí qui faremo di questi due: e primieramente narreremo del
primo Pirro.
Fu adunque, come detto è, il primo di questi due figliuolo d’Achille
e di Deidamia, figliuola di Licomede re; ed essendo stato Achille
morto a Troia per l’inganno d’Ecuba, e per la sua follia, ché, tirato
dall’amore il qual portava a Polissena, figliuola del re Priamo, era
solo e di notte andato nel tempio d’Apolline timbreo; fu di costui
cercato, e assai garzone fu menato all’assedio di Troia. E, secondo
che scrive Virgilio, sí come ferocissimo giovane, non degenerante
dal padre, fu di quegli li quali entrarono nel cavallo del legno,
il qual fu tirato in Troia per gl’inganni di Sinone: ed essendo di
quello uscito, e giá i greci essendo in Troia entrati per forza,
trapassò nelle case di Priamo, e nel grembo di Priamo uccise Polite,
suo figliuolo, e poi uccise Priamo altresì, quantunque vecchio fosse;
e, oltre a ciò, presa Troia, domandò Polissena, per farne sacrificio
alla sepoltura del padre, e fugli conceduta: ed egli, non riguardando
all’etá né al sesso innocuo, crudelmente l’uccise. Poi, essendogli, fra
l’altre cose, venuta in parte della preda troiana, Andromaca, moglie
stata d’Ettore, ed Eleno, figliuolo di Priamo, e con questi per lo
consiglio d’Eleno tornatosene per terra in Grecia, e trovando essergli
stato, per l’assenza del padre e di lui, occupato il regno suo; occupò
una parte di Grecia, la qual si chiamava il regno de’ molossi, li quali
dal suo nome primieramente furono chiamati «pirride», e poi in processo
di tempo furono chiamati «epirote»: e giá quivi fermato, secondo che
alcuni scrivono, esso rapi Ermione, figliuola di Menelao e d’Elena,
stata sposata ad Oreste, figliuolo d’Agamennone; e ad Eleno, figliuolo
di Priamo, diede per moglie Andromaca, secondo che Virgilio scrive.
Appresso questo, o che Ermione da lui si partisse, o che ella da Oreste
gli fosse tolta, non si sa certamente; ma, secondo che Giustino scrive,
essendo egli andato nel tempio di Giove dodoneo a sapere quello che far
dovesse d’alcuna sua bisogna, e qui trovata Lasana, nepote d’Ercule,
la rapi, e di lei, la quale per moglie prese, ebbe otto figliuoli tra
maschi e femmine. E in questi mezzi tempi, essendo rapacissimo uomo,
o bisogno o fierezza di natura che a ciò lo strignesse, armati legni
in mare, divenne corsaro; e da lui furono, e ancor sono, i corsari
dinominati «pirrate»; e per certo tempo rubò e prese e uccise chiunque
nelle sue forze pervenne. Ultimamente per fraude di Macareo, sacerdote
del tempio d’Apolline delfico, in quello fu ucciso da Oreste, forse in
vendetta della ingiuria fattagli d’Ermione.
Il secondo Pirro, per piú mezzi disceso del primo, e figliuolo
d’Eacida, fu re degli epiroti. Questi, essendo piccol fanciullo, rimase
in Epiro, essendo stato cacciato Eacida, suo padre, da’ suoi cittadini,
per le troppo gravezze le quali lor poneva; fu in grandissimo pericolo
di morte, percioché, come gli epiroti avevan cacciato Eacida, cosí
di lui fanciullo cercavano per ucciderlo; e avvenuto sarebbe, se non
fosse stato che da alcuni amici fu furtivamente portatone in Illirio,
e quivi dato a nutricare e a guardare a Beroe, moglie di Glauco, re
degl’illirii, la quale era del legnaggio del padre. Appo la quale, o
per la compassione avuta alla sua misera fortuna, o per le sue puerili
opere amabili e piacevoli a Glauco e agli altri, venne in tanta lor
grazia che, saputo lá dov’egli era, non dubitasse Glauco di prender
guerra con Cassandro, re di Macedonia, il quale, avendo il suo reame
occupato, minaccevolmente il richiedea; e non solamente per servarlo
sostenne la guerra, ma oltre a ciò, non avendo figliuoli, lui si fece
figliuolo adottivo. Per le quali cose mossi gli epiroti, trasmutarono
l’odio in misericordia, e lui raddomandato a Glauco ricevettono d’etá
d’undici anni, e restituironlo nel regno del padre, e diedergli tutori,
li quali infino all’etá perfetta il governassero e guardassero. Il qual
poi molte e notabili guerre fece; e chiamato da’ tarentini venne in
Italia contro a’ romani; e ancora chiamato in Cicilia da’ siragusani,
quella occupò. Ma, riuscendo tutto altro fine alle cose, che esso
estimato non avea, senza avere acquistata alcuna cosa, se ne tornò
in Epiro; e quindi occupò e prese il regno di Macedonia, cacciatone
Antigono re. Poi, avendo giá levato l’animo a voler prendere il reame
d’Asia e di Siria, avvenne che, avendo assediata la cittá d’Argo in
Acaia, fu d’in su le mura della cittá percosso d’un sasso, il quale
l’uccise.
Ora, come di sopra è detto, di qual di questi due l’autor si voglia
dire, non appare: ma io crederei che egli volesse piú tosto dire del
primo, che di questo secondo: percioché il primo, come assai si può
comprendere, per lo suo corseggiare e per l’altre sue opere, fu e
crudelissimo omicida e rapacissimo predone; questo secondo, quantunque
occupator di regni fosse, e ogni suo studio avesse alle guerre, fu
nondimeno, secondo che Giustino e altri scrivono, giustissimo signore
ne’ suoi esercizi.
«E Sesto». Questi fu figliuolo di Pompeo magno, ma male nell’opere
fu simigliante a lui; percioché, poiché esso fu morto in Egitto, e
Gneo Pompeo, suo fratello, fu morto in Ispagna, essendo giá Giulio
Cesare similmente stato ucciso, e Ottavian Cesare insieme con Marco
Antonio e con Marco Lepido avendo preso l’oficio del triumvirato, e
molti nobili uomini proscritti; sentendo sé esser del numero di quegli,
raccolte le reliquie degli eserciti pompeiani, e ancora molti servi
tolti dal servigio loro, e armate piú navi, si diede come corsaro ad
infestare il mare e a prendere e a rubare e ad uccidere quanti poteva
di quegli che delle sue parti non erano. E, tenendo Cicilia e Sardigna,
intrachiuse quasi sí il mare, che le opportune cose non potevano a
Roma andare, di che egli la condusse a miserabil fame. Col quale
essendosi poi paceficati li tre predetti prencipi, poco perseverò nella
pace; percioché, raccettando i fuggitivi, li quali erano rimasi degli
eserciti di Bruto e di Cassio, fu giudicato nemico della republica.
Per la qual cosa avendo trecentocinquanta navi armate, primieramente
Menna, suo liberto, con sessanta navi, da lui ribellato, passò nelle
parti d’Ottaviano; appresso Statilio Tauro combatté in naval battaglia
contro a Menecrate, uno de’ duchi di Sesto, e sconfisselo, e Ottavian
Cesare ancora combattendo contro a’ pompeiani gli sconfisse; appresso
Marco Agrippa similmente tra Melazzo e Lipari combatté contro a Pompeo
e contro a Democare e vinsegli, e nel terzo di trenta navi sommerse
in mare o prese; e Pompeo si fuggí a Messina, e Cesare incontanente
trapassò a Tauromena, e quivi nella prima giunta fieramente afflisse
Pompeo e’ suoi: e in quella rotta molte navi furono affondate, e
Pompeo, perdutavi molta della sua gente, se ne rifuggí in Italia.
Poi ancora ricolte insieme le sue navi, essendo Agrippa venuto in
Cicilia, e Ottaviano veggendo l’armata di Pompeo ordinata, comandò al
detto Agrippa che contro ad essa andasse, il quale atrocissimamente
commessa co’ nemici la battaglia, vinse i pompeiani e nel torno di
centosessantatré navi prese e affondò, e Pompeo si fuggí con forse
diciotto, con gran fatica scampato delle mani de’ nemici. Che molte
parole? Colui, che poco avanti era signore di trecentocinquanta navi,
con sei o con sette si fuggí in Asia. Ultimamente, sforzandosi in
Grecia di rifare il suo esercito, e quivi essendo venuto Marco Antonio,
e avendo sentito come esso era stato vinto da Cesare, gli mandò
comandando che con pochi compagni venisse a lui; ma Pompeio fuggendosi,
fu da Tizio e da Furnio, antoniani duci, piú volte vinto, e ultimamente
preso e ucciso. Dopo il quale miserabile fine, percioché violento
raptore, corseggiando e guerreggiando, fu dell’altrui sostanze e vago
versatore del sangue degli uomini, in questo fiume di sangue bogliente,
secondo che qui mostra l’autore, fu dalla divina giustizia dannato.
«Ed in eterno munge», questo fiume cosí bogliente, «Le lagrime che col
bollor disserra», cioè manda fuori, «a Rinier da Corneto». Questi fu
messer Rinieri da Corneto, uomo crudelissimo e di pessima condizione,
e ladrone famosissimo ne’ suoi di, gran parte della marittima di Roma
tenendo con le sue perverse operazioni e ruberie in tremore. «A Rinier
Pazzo». Questi fu messer Rinieri de’ Pazzi di Valdarno, uomo similmente
pessimo e iniquo, e notissimo predone e malandrino, per le cui malvagie
operazioni l’autore qui il discrive esser dannato. «Che fecero alle
strade tanta guerra», pigliando, rubando e uccidendo chi andava e chi
veniva.
«Poi si rivolse». Qui comincia la sesta e ultima parte del presente
canto, nella quale l’autore, poi che ha discritto ciò che dal centauro
dice essergli stato mostrato, ed è stato da lui dall’altra parte
portato, mostra come esso, ripassato il fiume, se ne tornasse, dicendo:
«Poi», che cosí ebbe detto, «si rivolse», al passo donde passato
l’avea, «e ripassossi ’l guazzo», cioè quel fossato del sangue.

II
SENSO ALLEGORICO
[Lez. XLVIII]
«Era lo loco, ove a scender la riva», ecc. Avendo la ragione co’ suoi
utili e sani consigli condotto l’autore, senza lasciarlo nelle miserie
temporali intignere l’affezion sua, per infino a qui, e mostratogli i
supplici che sostiene la eretica pravitá, e similmente disegnatogli
l’ordine degl’inferiori cerchi della prigione eterna, e la qualitá
de’ peccatori che in essi si puniscono; in questo canto il conduce
a vedere i tormenti della prima spezie de’ violenti, cioè di quegli
che nel sangue e nelle sustanzie del prossimo hanno bestialmente
usata forza. E, percioché in questo luogo primieramente entra nel
cerchio settimo, dove la matta bestialitá è punita, per farne l’autore
accorto, gli dimostra la ragione, in un dimonio discritto in forma
d’un Minotauro, in che consista la bestialitá. Ad evidenza della quale
primieramente presuppone l’autore essere stata vera la favola di
sopra narrata del Minotauro, accioché per questa presupposizione piú
leggermente si comprenda quello che di dimostrare intende; [e però,
questo presupposto, è da considerare qual sia la generazione di questo
Minotauro, e quali sieno i suoi costumi; e, questi considerati, assai
bene apparirá qual sia la qualitá della bestialitá, e per conseguente
de’ bestiali.]
[Dico adunque primieramente essere da riguardare in che forma fosse
questo animale generato, accioché per questo noi possiam conoscere
come negli uomini la bestialitá si crei. Fu adunque, sí come nella
favola si racconta, generato costui d’uomo e di bestia, cioè di
Pasife e d’un toro: dobbiamo adunque qui intendere per Pasife l’anima
nostra, figliuola del Sole, cioè di Dio Padre, il quale è vero sole.
Costei è infestata da Venere, cioè dall’appetito concupiscibile e
dallo irascibile, in quanto Venere, secondo dicono gli astrologi, è di
complessione umida e calda, e però per la sua umiditá è inchinevole
alle cose carnali e lascive, e per la sua caldezza ha ad escitare
il fervore dell’ira. Questi due appetiti, quantunque l’anima nostra
infestino e molestino, mentre essa segue il giudicio della ragione,
non la posson muovere a cosa alcuna men che onesta: ma come essa, non
curando il consiglio della ragione, s’inchina a compiacere ad alcuno di
questi appetiti o ad amenduni, ella cade nel vizio della incontinenzia
e giá pare avere ricevuto il veleno di Venere in sé, percioché transvá
ne’ vizi naturali. Da’ quali non correggendosi, le piú delle volte
si suole lasciare sospignere nell’amor del toro, cioè negli appetti
bestiali, li quali son fuori de’ termini degli appetiti naturali,
percioché, naturalmente, come mostrato è di sopra, disideriamo di
peccare carnalmente, e di mangiare e d’avere, e ancora d’adirarci
talvolta: ne’ quali appetiti se noi passiamo i termini della ragione,
pecchiamo per incontinenza, e, non trapassando i termini della natura,
come detto è, naturalmente pecchiamo; ma, come detto è, di leggieri si
trapassano questi termini naturali; percioché poi qualunque s’è l’uno
de’ due appetiti ha tratto il freno di mano alla ragione, non essendo
chi ponga modo agli stimoli, si lascia l’anima trasportare ne’ disideri
bestiali, e cosí si sottomette a questo toro, del quale nasce il
Minotauro, cioè il vizio della matta bestialitá generato nell’uomo, in
quanto ha ricevuto il malvagio seme degli appetiti e della bestia, in
quanto s’è lasciato tirare all’appetito bestiale ne’ peccati bestiali.]
[I costumi di questa bestia, per quello che nella favola e nella
lettera si comprenda, son tre: percioché, secondo i poeti scrivono,
esso fu crudelissimo, e, oltre a ciò, fu divoratore di corpi umani, e
appresso fu maravigliosamente furioso; per li quali tre costumi sono
da intendere tre spezie di bestialitá. Ma, vogliendo seguire l’ordine,
il quale serva l’autore in punire queste colpe, n’è di necessitá di
permutare l’ordine il quale nel raccontare i tre costumi di questa
bestia è posto, e da cominciare da quel costume, il quale esser secondo
dicemmo, cioè dal divorare le carni umane. Il qual bestial costume
ottimamente si riferisce alla violenza, la quale i potenti uomini fanno
nelle sustanze e nel sangue del prossimo, le quali essi tante volte
divorano con denti leonini o d’altro feroce animale, quante le rubano,
ardono o guastano o uccidono ingiustamente: le quali cose quantunque
molti altri facciano, ferocissimamente adoperano i tiranni. L’altro
costume di questa bestia dissi ch’era l’esser crudelissimo: il qual
costume mirabilmente si conforma con coloro che usano violenza nelle
proprie cose e nelle loro persone, percioché, come assai manifestamente
si vede, quantunque crudel cosa sia l’uccidere e il rubare altrui,
quasi dir si puote esser niente per rispetto a ciò ch’è il confonder
le cose proprie e all’uccidere se medesimo, percioché questo passa
ogni crudeltá che usar si possa nelle cose mondane; e cosí per questo
costume ne disegna l’autore in questo animale la seconda spezie de’
violenti. Il terzo costume di questa bestia dissi che fu l’esser
fieramente furioso: e questo terzo costume s’appropria ottimamente alla
colpa della terza spezie de’ violenti, li quali, in quanto possono,
fanno ingiuria a Dio e alle sue cose, o bestemmiando lui, o contro alle
naturali leggi o contro al buon costume dell’arte adoperando: e contro
a Dio e contro alle sue cose non si commette senza furia, percioché la
furia ha ad accecare ogni sano consiglio della mente e ad accenderla e
renderla strabocchevole in ogni suo detto e fatto; e cosí per questo
terzo costume ne disegna la terza spezie de’ violenti.]
E, poiché la ragione ha mostrato all’autore la bestialitá e’ suoi
effetti, ed ella discendendo gli mostra a qual pena dannati sieno
quelli che nella prima spezie di violenza peccarono, cioè i tiranni e
gli altri che furono micidiali e rubatori e arditori e guastatori delle
cose del prossimo; e, sí come nel testo è dimostrato, questi cotali
violenti sono in un fiume di sangue boglientissimo, e, secondo il piú
e ’l meno aver peccato, sono piú e men tuffati in questo sangue; e,
oltre a ciò, accioché niuno non esca de’ termini postigli dalla divina
giustizia, vanno d’intorno a questo fiume centauri, con archi e con
saette, i quali, incontanente che alcuno uscisse piú fuori del sangue
che non si convenisse, quel cotale senza alcuna misericordia saettano
e costringono a dover rientrare sotto il sangue. Della qual pena è in
parte assai agevole a veder la cagione, percioché e’ par convenevole
che in quello, in che l’uomo s’è dilettato, in quello perisca: questi
furon sempre, sí come per le loro operazioni appare, vaghi del sangue
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