Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - 06

Total number of words is 4719
Total number of unique words is 1309
34.6 of words are in the 2000 most common words
48.4 of words are in the 5000 most common words
55.7 of words are in the 8000 most common words
Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
di fare questa distinzione nelle sue parole, in quanto dice «d’ogni
malizia ch’odio in cielo acquista», intendendo di questa ultima;
percioché la prima alcun odio non acquista in cielo, quantunque ella
sia in terra in odio a colui che la patisce; e per tanto dice «odio»,
perché l’operazioni, le quali seguono della malizia delle nostre menti,
son malvagie e dispiacciono a Dio, il qual dimora in cielo; e quindi,
perduta la sua grazia, meritiamo l’ira sua, la quale, perseverando
noi nel male adoperare, diventa odio, se in esso male adoperare senza
pentirci moiamo. «Ingiuria è il fine»; percioché quante volte i nostri
maliziosi pensieri si mettono ad esecuzione, mai non si mettono se non
per fare ingiuria ad alcuna persona; «ed ogni fin cotale», cioè di fare
ingiuria ad alcuno, «O con forza o con frode altrui», cioè colui che
riceve la ’ngiuria, «contrista», affligge e noia; mostrando in queste
parole due essere i modi ne’ quali per la malizia della nostra mente si
fa altrui ingiuria, cioè o violentemente o fraudolentemente.
E questo dimostrato, ne chiarisce in qual di questi due modi piú
s’offenda Iddio, dicendo: «Ma perché frode è dell’uom proprio male»,
cioè che in esso si crea, nasce e dilibera, e in questo è «proprio
male» dell’uomo; «Piú spiace a Dio», che non spiace la forza, la quale
non è proprio male dell’uomo, conciosiacosaché molte cose esteriori
siano all’uomo di necessitá per dovere potere usar la forza, le quali
se l’uomo non le si sentirá, non si metterá a doverla usare: «e però»,
che la fraude spiace a Dio piú che la forza, per la ragion detta, «stan
di sotto Gli frodolenti», nell’ottavo e nel nono cerchio, li quali sono
di sotto al settimo, nel quale intende dimostrare esser posti e dannati
coloro, li quali per forza fanno ingiuria ad altrui, «e», percioché
si stanno ne’ cerchi piú inferiori, «piú dolor gli assale», cioè sono
oppressi da maggior tormenti.
E, detto questo, viene alla prima parte della sua distinzione, cioè a
dimostrare in quanti modi e a quante persone si possa fare per forza
ingiuria altrui, e questi modi e persone dimostra esser tre: e cosí
dimostra il settimo cerchio esser distinto in tre parti come apparirá.
Dice adunque: «Di violenti», cioè di coloro li quali con forza fanno
altrui ingiuria, «il primo cerchio è tutto», cioè il primo cerchio
de’ tre, li quali mostra essere sotto quei sassi, il quale nel numero
de’ cerchi dello ’nferno è settimo; e dice, «è tutto», percioché il
distingue, come detto è, in tre parti, le quali tutte e tre son piene
di violenti.
E mostra la ragione perché in tre parti il distingua, dicendo: «Ma,
perché si fa forza a tre persone», in se medesime diverse e separate,
come apparirá; «in tre gironi è distinto e costrutto», questo primo
cerchio. E, detto questo, mostra quali sieno le tre persone, alle quali
i violenti o fanno o si sforzan di fare ingiuria, dicendo; «A Dio», il
qual noi dobbiamo amare e onorare sopra ogni altra cosa, e lui solo
adorare, e questi è l’una persona; «a sé» medesimo, cui noi dobbiamo,
appresso a Dio, amare piú che alcuna altra cosa, e questo è la seconda
persona; «al prossimo», il quale noi dobbiamo amare come noi medesimi.
[È vero che in questo prossimo ha differenza da un prossimo ad un
altro, percioché a tutti gli uomini, di che che setta, di che che
nazion si sieno, secondo la legge naturale, siam prossimi; percioché
tutti da un principio, cioè da’ primi parenti, proceduti siamo, e
però tutti ci dobbiamo amare. Ma a questa generalitá si prepone una
particularitá, percioché noi dobbiamo amare piú i cristiani che l’altre
sètte; conciosiacosaché noi siamo da una medesima legge, da una
medesima dottrina, da quegli medesimi sagramenti costretti insieme,
dove dall’altre sètte noi siam separati. E, oltre a questa, pare ancora
che questa particularitá riceva alcuna divisione, in quanto pare che
ciascun debba piú amare colui che con congiunzione di piú prossimana
consanguinitá è congiunto, che un altro piú lontano di parentela amare;
e cosí potrebbe seguire che, quanto alcun dee piú strettamente amare un
che un altro, piú gravemente pecchi, se in colui, che piú dee amare, fa
violenza: ma questo si rimanga al presente.]
«Si puone», cioè si puote, «Far forza»; e, detto questo, apre piú la
sua intenzione, dicendo: «dico in loro», cioè nelle proprie persone de’
detti tre, «ed in lor cose, com’udirai con aperta ragione».
E cosí, di tre, paion divenute sei quelle cose nelle quali far si può
violenza. E quali queste sieno, e in che maniera si possa in esse
far violenza, distingue e dichiara, cosí cominciando dal prossimo: e
dice che «Morte per forza», come uccidere col coltello, col veleno,
col capestro, o col fuoco o in altra maniera, le quali son morti
violente che si possono nel prossimo dar per forza; «e ferute dogliose
Nel prossimo si dánno», cioè nella propria persona del prossimo; e
quinci dimostra quello che violentemente s’adopera, o può adoperare,
nelle sustanze del prossimo, dicendo: «e nel suo avere», cioè nelle
sue possessioni e ricchezze, «Ruine», come è disfargli le case, «e
incendi», come è ardergliele o ardergli le biade, e «tollette dannose»,
come è il rubargli le sue cose, tôrgli la moglie, la figliuola, il
bestiame e simili sustanze. E, questo dimostrato, piú particularmente
narrandogli, dimostra in qual de’ tre gironi tormentati sieno, dicendo:
«Odii», cioè coloro che odio portano al prossimo, volendo per questo
s’intendano coloro in questo medesimo luogo esser dannati, li quali,
quantunque queste violenze non facciano, le farebbon volentieri se
potessono, e, perché piú non possono, hanno in odio il prossimo;
«omicide, e ciascun che mal fiere» (dice «mal fiere», a distinguer da
questi cotali coloro li quali, posti per esecutori della giustizia,
giustamente uccidono e feriscono); «Guastatori», come sono incendiari
e simili uomini, «e predón», cioè rubatori, corsari e tiranni e
simiglianti, «tutti tormenta Lo giron primo», di questo primo cerchio,
e tormentali «per diverse schiere», volendo che per questo s’intenda
questi cotali peccatori esser piú e men tormentati, secondo che hanno
piú o meno offeso, sí come apparirá lá dove tormentati gli discrive.
E, mostrato della violenza che si può fare nel prossimo e nelle sue
cose, dimostra quello che l’uom può fare in se medesimo e nelle sue
cose, e quello che di ciò gli segua, e dice: «Puote uomo avere in sé
man violenta», uccidendosi col coltello e col capestro, come molti
hanno giá fatto, «E ne’ suoi beni», giucando quegli; «e però nel
secondo Giron», de’ tre predetti, «convien che senza pro si penta»,
sostenendo gravissimi tormenti. E, questo detto, se medesimo dichiara
con piú aperto parlar, dicendo: «Qualunque priva sé del vostro mondo»,
uccidendosi, come detto è, «Biscazza, e fonde», consuma, «la sua
facultade», cioè la sua ricchezza, e, per conseguente, «E piagne»,
d’aver cosí fatto, «lá dove esser dee giocondo», avendole guardate e
servate come si convenia.
E, mostrato della violenza, la quale l’uomo può fare in se medesimo e
nelle sue cose, e quello che di ciò gli segua, viene a dimostrare come
si possa far violenza a Dio e alle cose sue, e dice: «Puossi», da’
violenti, «far forza nella deitade, Col cuor negando e bestemmiando
quella», come molti, o adirati o per mostrar di non temere Iddio, non
che altrui, fanno; «E», appresso, si può far forza nelle cose di Dio
«spregiando natura e sua bontade», cioè adoperando contro alle naturali
leggi, come assai bestialmente fanno; «E però lo minor giron», de’ tre
predetti, ne’ quali il primo cerchio è distinto, «suggella Del segno
suo», cioè de’ tormenti che in quel sono, «e Sogdoma e Caorsa». E vuole
l’autore per questi nomi di queste due cittá intendere due spezie
d’uomini, li quali offendono o fanno violenza a Dio nelle cose sue,
cioè nella natura e nell’arte, le quali sono sue cose, sí come appresso
mostrerà l’autore: e intende per «Sogdoma» coloro li quali contro alle
leggi della natura con sesso non debito lussuriosamente adoperano; e
per «Caorsa» intende gli usurai, li quali fanno violenza alle leggi
della natura e al buon costume dell’arte.
Ed accioché piú manifestamente appaia l’autore intender questo, è
da sapere che Sogdoma, secondo si legge nel _Genesi_, fu una cittá
vicina a Ierico in Soria, la qual fu abbondantissima di tutti i beni
temporali; per la quale abbondanza i cittadini di quella in tanta
viziosa vita trascorsono, che né legge divina né umana seguivano, e
ogni vizio, quantunque detestabile fosse, era a ciascuno, secondo che
piú gli piacea, lecito d’esercitare; e, tra gli altri, era in tutti
generale il sogdomitico, per lo quale, e sí ancora per gli altri,
meritaron l’ira di Dio. Il quale, essendo disposto a volerla insieme
co’ cittadini sovvèrtere, prima il manifestò ad Abraam, il quale il
pregò che non volesse fare a’ buoni sostener pena per le colpe de’
malvagi; e, promettendo Iddio di perdonare a’ malvagi per amor de’
buoni, se alquanti vi se ne trovassono, non sappiendovene Abraam
trovare quantitá alcuna di quelli che domandati avea, fu contento al
piacer di Dio. Per la qual cosa Iddio mandò due suoi angeli a Lot,
nepote d’Abraam, il quale abitava in quella, ed era buono e onesto e
santo uomo; e per loro gli comandò che di quella con la sua famiglia si
dovesse partire, manifestandogli quello che di fare intendeva. Erano
i due angeli, quando alla casa di Lot pervennero, in forma di due
speziosissimi giovanetti, li quali da’ sogdomiti veduti, incontanente
corsono alla casa di Lot, addomandando d’aver questi giovani. Lot, il
quale sí come messi del suo Signore ricevuti li avea, non gli volle lor
dare, ma per sodisfare all’impeto della lor lussuria, e per servare
l’onore de’ giovani che a casa gli eran venuti, volle lor dare due
sue belle figliuole vergini, le quali in casa aveva: ma essi, non
volendole, e volendo far impeto nella casa, subitamente per divino
giudicio tutti divennero ciechi. Lot con la famiglia sua poi uscí della
cittá, secondo il comandamento fattogli, e incontanente sentí dietro
a sé grandissima tempesta e orribili tuoni e folgori cader da cielo,
le quali Sogdoma e’ suoi cittadini, e alcune altre terre le quali
in simiglianti vizi peccavano, arsono e consumaron tutte, lasciando
nondimeno, in detestabile memoria di sé, questo infame sopranome a
tutti coloro li quali in vizio contro natura peccano.
Caorsa è una cittá di Proenza, ovvero in Tolosana, secondo che si
racconta, sí del tutto data al prestare a usura, che in quella non è
né uomo né femmina, né vecchio né giovane, né piccol né grande che a
ciò non intenda; e non che altri, ma ancora le serventi, non che il lor
salario, ma se d’altra parte sei o otto denari venisser loro alle mani,
tantosto gli dispongono e prestano ad alcun prezzo. Per la qual cosa è
tanto questo lor miserabile esercizio divulgato, e massimamente appo
noi, che, come l’uom dice d’alcuno:—Egli è caorsino,—cosí s’intende
ch’egli sia usuraio.
Séguita poi: «E chi spregiando Iddio col cuor favella», percioché in
questo fa violenza alla divinitá, ché in altro non può; percioché andar
non si può in cielo a far violenza a Dio nella persona, fassi adunque
qui in quel che si può, bestemmiandolo, dispettandolo, avvilendolo e
negandolo, come di sopra è detto.
«La frode, ond’ogni coscienza». Poi che Virgilio ha pienamente
mostrato all’autore i gironi del primo cerchio, e ancora quegli che in
essi son tormentati, che sono la prima spezie d’uomini che a fine di
fare ingiuria usano violenza; ed esso diviene a dimostrare la seconda
spezie, la quale esso chiama i «fraudolenti», che non con violenza
manifesta, come i sopradetti, ma con fraude e occultamente s’ingegnano
di fare altrui ingiuria. Dice adunque: «La frode»; che cosa sia fraude
si mostrerá appresso nel principio del diciassettesimo canto; «onde»,
dalla quale, «ogni coscienza è morsa», cioè offesa, «Può l’uomo
usare». Intende qui l’autore di dimostrare esser due spezie principali
di fraude, delle quali dice l’una esser quella fraude la quale si
commette contro a coloro li quali non si fidano di colui che poi con
fraude l’inganna; e l’altra esser quella che si commette contra coloro
li quali si fidano di colui che poi fraudolentemente gl’inganna; e
perciò vuole queste due spezie di fraudolenti ne’ due seguenti cerchi,
li quali sono li due ultimi dello ’nferno; e vuole nel superiore, il
quale è il secondo de’ tre predetti, sien puniti que’ fraudolenti li
quali ingannano chi di lor non si fida, e nell’inferiore, il quale è
il piú profondo dello ’nferno, sien puniti i fraudolenti, li quali
ingannano chi si fida di loro. E però dice: «Può l’uomo usare», fraude,
«in colui», cioè contra colui, «che si fida», e questa è l’una spezie
e la peggiore, «E», puolla ancora usare, «in quello che fidanza non
imborsa». cioè con tra colui il quale non ha fidanza nel fraudolente.
«Questo modo di dietro», cioè d’ingannare chi non si fida, «par che
uccida», cioè offenda, «Pur lo vincol d’amor, che fa natura», cioè
quel legame col quale la natura tutti ci lega e costrigne a doverci
amare, in quanto tutti siamo animali d’una medesima spezie e discesi
da un medesimo principio; «Onde», cioè per la qual cagione, «nel
cerchio secondo», de’ tre di sopra dimostrati, che dice che son sotto
quei sassi, «s’annida», cioè l’è data per istanza, sí come all’uccello
il nido, «Ipocrisia, lusinghe e chi affattura; Falsitá, ladroneccio
e simonia, Ruffian, baratti e simile lordura»: delle quali tutte
partitamente si dirá, dove appresso de’ tormenti attribuiti ad esse si
tratterá.
«Per l’altro modo». cioè per l’usar frode in colui che d’altrui si
fida, «quell’amor s’oblia», cioè si mette in non calere, «Che fa
natura», del quale poco dianzi è detto, «e», obliasene, «quel», amore,
«ch’è poi aggiunto», al naturale, o per amistá o per benefici ricevuti
o per parentado; «Di che», cioè delle quali cose, «La fede spezial
si cria», cioè la singulare e intera confidenza che l’un uomo prende
dell’altro, per singulare amicizia congiuntogli: «Onde», cioè, e
perciò, «nel cerchio minore», de’ tre sopra detti, «ov’è il punto»,
cioè il centro, «Dell’universo» (piú volte s’è di sopra detto il centro
della terra essere centro di tutto il mondo, cioè del cielo ottavo
e degli altri cieli e degli elementi tutti), «in su che Dite siede»
fondata, sí come tutte l’altre cittá e edifici, li fondamenti delle
quali, se con diritta linea si tireranno al centro della terra, tutti
si troveranno sovra quello esser fondati o fermati. O puossi intendere
per lo Lucifero, il quale ha quel medesimo nome, secondo i poeti, che
ha la cittá sua, cioè Dite, il quale, come nella fine del presente
libro si vedrá, dimora sí in sul centro della terra bilanciato, che
egli non può né piú in su farsi, né piú in giú scendere, percioché
il piú in giú non v’è. Adunque, secondo che l’autor vuole, in questo
cerchio ultimo, «Qualunque trade», cioè fraudolentemente adopera contro
a colui che di lui si fida, «in eterno è consunto», cioè tormentato.
E cosí ha ottimamente l’autore distinti e dichiarati i tre cerchi, li
quali Virgilio dice essere sotto a quei sassi, li quali presente a sé
gli dimostra.
«Ed io:—Maestro». Qui comincia la terza parte del presente canto,
nella quale l’autore muove un dubbio a Virgilio, domandando perché i
peccatori, che ne’ seguenti cerchi sono, sieno puniti dentro alla cittá
di Dite, piú che quegli de’ quali di sopra ha parlato; e primieramente
concede assai bene essere stato dimostrato da lui quello che detto
ha de’ tre cerchi inferiori, dicendo: «Ed io:—Maestro, assai chiaro
procede La tua ragione», nel dimostrare, «ed assai ben distingue
Questo baratro», cioè questo inferno, il quale è da quinci in giù,
«e», similmente distingue bene, «il popol che ’l possiede», cioè i
peccatori li quali in esso son tormentati. «Ma dimmi: Que’ della palude
pingue», cioè gl’iracundi e gli accidiosi, li quali son tormentati
nella palude di Stige, la quale cognomina «pingue» per la sua grassezza
del loto e del fastidio il quale v’è dentro; e quegli «Che mena il
vento», cioè i lussuriosi, che son di sopra nel secondo cerchio, «e»
quegli «che batte la pioggia», cioè i golosi, li quali sono di sopra
nel terzo cerchio, «E» quegli «che s’incontran con sí aspre lingue»,
cioè gli avari e’ prodighi, li quali sono nel quarto cerchio (e dice
«si scontran con sí aspre lingue», cioè mordaci, in quanto dicono
l’un contro all’altro:—«Perché tieni?»—e«Perché burli?»—). «Perché
non dentro della città roggia», cioè rossa per lo fuoco, il quale,
facendola rovente, la fa di nera divenir rossa, «Son e’ puniti», come
son costoro, de’ quali tu mi ragioni, «se Dio gli ha in ira?», cioè se
Dio è adirato contro a loro; «E se non gli ha», in ira, «perché sono a
tal foggia?»,—cioè puniti, come di sopra abbiam veduto.
«Ed egli a me». Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella
quale Virgilio, mostrandogli la ragione per la quale quello avviene di
che egli domanda, gli solve il dubbio mossogli. Dice adunque: «Ed egli
a me» (_supple_), rispose, alquanto commosso e dicendo:—«Perché tanto
delira,—Disse—lo ’ngegno tuo da quel ch’e’ suole?», cioè, perché
esce tanto della diritta via piú che non suole? «_Lira lirae_» sí è il
solco il quale il bifolco arando mette diritto co’ suoi buoi, e quinci
viene «_deliro deliras_», il quale tanto viene a dire quanto «uscire
dal solco»; e però, _metaphorice_ parlando, in ciascuna cosa uscendo
della dirittura e della ragione, si può dire e dicesi «delirare».
E cosí qui vuol Virgilio dire all’autore: tu suogli nelle cose
dirittamente giudicare; questo perché avviene ora, che tu non giudichi
cosí? E perché questo suole avvenire dall’una delle due cose (cioè il
non giudicar dirittamente delle cose e però muoverne dubbio), o per
ignoranza o per l’aver l’animo impedito d’altro pensiero, e perciò
segue: «Ovver la mente», tua, «dove altrove mira?». E, questo déttogli,
gli ricorda quello di che esso si dovea ricordare, ed, essendosene
ricordato, non avrebbe mosso il dubbio, e dice: «Non ti rimembra di
quelle parole, Con le quai la tua _Etica_ pertratta».
_Etica_ è un libro, il quale Aristotile compose in filosofia morale,
il quale Virgilio dice qui all’autore esser «suo», non perché suo
fosse, come detto è, ma per darne a vedere questo libro fosse
familiarissimo all’autore e ottimamente da lui inteso: e tratta
Aristotile in piú luoghi di queste tre disposizioni, e massimamente nel
settimo. E quinci segue: «Le tre disposizion», d’uomini, «che il ciel
non vuole», cioè recusa, sí come reprobi e malvagi. E quinci dimostra
quali quelle disposizioni sieno, dicendo: «Incontinenza»: questa è
l’una per la qual noi dagli appetiti naturali inchinati e provocati,
non potendo contenerci, pecchiamo e offendiamo Iddio; «malizia»: questa
è l’altra disposizione la quale il ciel non vuole, e questa non procede
da operazion naturale, ma da iniquità d’animo, ed è dirittamente contro
alle virtù, secondo che Aristotile mostra nel sesto dell’_Etica_;
ma in questa opera intende l’autore questa malizia esser gravissimo
vizio e opposto alla bontà divina, come appresso apparirà; «e la matta
Bestialitade?»: e questa è la terza disposizione che ’l ciel non vuole.
Questo adiettivo «matta», pose qui l’autore piú in servigio della
rima, che per bisogno che n’avesse la bestialità, percioché bestialità
e mattezza si posson dire essere una medesima cosa. È adunque questa
«bestialità» similmente vizio dell’anima opposto, secondo che piace ad
Aristotile nel settimo dell’_Etica_, alla divina sapienza, il quale,
secondo che l’autor mostra di tenere, non ha tanto di gravezza quanto
la malizia, sí come nelle cose seguenti apparirà. «E come incontinenza
Men Dio offende», che non fanno le due predette, «e piú biasimo
accatta?» negli uomini, li quali il piú giudicano delle cose esteriori
e apparenti, percioché le intrinseche e nascose son loro occulte, e per
questo non le posson cosí biasimare e dannare; e i peccati, li quali
noi commettiamo per incontinenza, son quasi tutti negli occhi degli
uomini, dove gli altri due il piú stanno serrati nelle menti di coloro
che li commettono, quantunque poi pure appaiono; e sono, oltre a ciò,
piú rade volte commessi che quegli degli appetiti carnali, li quali
continuamente ne ’nfestano. «Se tu riguardi ben questa sentenza», cioè
che la incontenenza offenda meno Iddio che l’altre due; «E rechiti alla
mente chi son quegli Che su di fuor», della cittá di Dite, «sostengon
penitenza», per le colpe commesse; «Tu vedrai ben perché da questi
félli». cioè malvagi, «Sien dipartiti», percioché tu conoscerai questi
cotali, de’ quali io ti dico che di fuor di Dite son puniti, tutti
esser peccatori, li quali hanno peccato per incontinenza; «e perché men
crucciata La divina giustizia li martelli»,—cioè tormenti; e dice «men
crucciata», imitando nel parlare il costume umano, il quale quanto piú
di cruccio porta verso alcuno, tanto piú crudelmente il batte.
—«O sol, che sani». Qui comincia la quinta parte di questo canto,
nella quale l’autor muove un dubbio a Virgilio, e prima capta la
benivolenza sua con una piacevole laude, la quale gli dá, dicendo:—«O
sol, che sani ogni luce turbata». Sono le nostre luci alcuna volta
turbate dalle tenebre notturne, percioché, stanti quelle, alcuna
cosa veder non possiamo; sono, oltre a questo, turbate da’ vapor
grossi surgenti della terra, li quali impediscono il riguardo di
quello, e non lasciano andar molto lontano; sono ancora impedite e
turbate dalle nebbie e da simili cose, le quali tutte il sole rimuove
e purga, percioché col suo salire nel nostro emisperio esso caccia
le tenebre notturne (e cosí pare per la sua luce essere agli occhi
nostri restituito il benificio del vedere, il quale turbato aveva la
notturna tenebra), poi co’ suoi raggi esso ogni vapore e ogni nebbia
risolve, e con questo ne fa il cielo espedito a poter in ciascuna parte
liberamente guardare, quanto alla virtú visiva è possibile: e cosí pare
aver sanata, cioè nella sua propria virtú rivocata, ogni luce turbata
da alcuno de’ predetti accidenti. Cosí adunque, _metaphorice_ parlando,
dice l’autore a Virgilio, intendendo per la chiaritá delle sue
dimostrazioni cessarsi della mente sua ogni dubbio, il quale offuscasse
o impedisse la luce dello ’ntelletto; e però segue: «Tu mi contenti sí,
quando tu solvi», cioè apri e dimostri la ragion delle cose, le quali,
a me occulte, mi son cagion di dubitare; «Che non men che ’l saver,
dubbiar m’aggrata», per udir le tue chiare dimostrazioni. «Ancora un
poco indietro ti rivolvi,—Diss’io», e questo fa’, accioché tu mi
dichiari,—«lá dove di’ ch’usura offende La divina bontade» (la qual
cosa ha detta di sopra, quivi dove dice: «Del segno suo, e Sogdoma e
Caorsa), e ’l groppo solvi»,—cioè il dubbio, il quale mostrava l’autor
d’avere, in quanto non discernea perché l’usuraio offendesse la natura
e l’arte, le quali son cose di Dio, come dimostrato è di sopra.
—«Filosofia,—mi disse». Qui comincia la sesta parte del presente
canto, nella quale l’autore mostra come da Virgilio gli sia soluto il
dubbio mosso, dicendo:—«Filosofia,—mi disse», Virgilio,—«a chi la
’ntende, Nota», cioè dimostra, «non pure in una sola parte», ma in
molte, «Come natura». È qui da sapere che, secondo piace a’ savi, egli
è «_natura naturans_», e questa è Iddio, il quale è d’ogni cosa stato
creatore e produttore; ed è «_natura naturata_», e questa è l’operazion
de’ cieli potenziata e creata da Dio, per la quale ciò, che quaggiú si
produce, nasce. E di questa seconda intende qui l’autore, dicendo che
questa natura naturata «lo suo corso prende Dal divino intelletto», in
quanto piú non adopera, se non quanto conosce essere della ’ntenzion di
Dio; e percioché essa prende quindi il suo movimento all’operare, cosí
ancora da quello, in quanto puote, prende la forma dell’operare: per la
qual cosa l’autor dice: «e da sua arte». L’arte del divino intelletto
è il producere ogni cosa perfetta e a certo e determinato fine; e in
questo s’ingegna quanto può la natura d’imitarla, e fallo secondo la
disposizione della materia suggetta, la quale, percioché è finita, non
può ricevere intera perfezione, come riceve la materia sopra la quale
se esercita la divina arte; ché, se ricevere la potesse la natura
naturata, producerebbe cosí i nostri corpi perpetui, come l’arte divina
produce l’anime. Nondimeno essa ogni cosa, la quale essa produce,
produce a certo e determinato fine; ma non è questo fine della qualitá
che è il fine al quale Iddio produce le cose, le quali esso fa con la
sua arte: percioché il fine al quale Iddio produce le cose, le quali
esso compone. è ad essere eterne; ma la natura le produce al fine di
dovere alcuna volta venir meno, cosí come veggiamo che fanno tutte le
cose prodotte da lei.
Segue adunque l’autore: «E se tu ben la tua _Fisica_ note», cioè
riguardi e tieni a mente: e dice «la tua _Fisica_», come di sopra fece
dell’_Etica_; percioché Aristotile, non l’autore, fu quegli che compose
il libro della _Fisica_; «Tu troverrai», esser dimostrato, «non dopo
molte carte», nel secondo libro di quella, «Che l’arte vostra», cioè
quella che appo voi mortali se esercita, «quella», cioè la natura,
«quanto puote Segue», in quanto, secondo che ne bastano le forze
dello ’ngegno, c’ingegnamo nelle cose, le quali il naturale esempio
ricevono, fare ogni cosa simile alla natura, intendendo, per questo,
che esse abbiano quegli medesimi effetti che hanno le cose prodotte
dalla natura, e, se non quegli, almeno, in quanto si può, simili a
quegli, sí come noi possiam vedere in alquanti esercizi meccanici.
Sforzasi il dipintore che la figura dipinta da sé, la quale non è altro
che un poco di colore con certo artificio posto sopra una tavola,
sia tanto simile, in quello atto ch’egli la fa, a quella la quale
la natura ha prodotta e naturalmente in quello atto si dispone, che
essa possa gli occhi de’ riguardanti o in parte o in tutto ingannare,
facendo di sé credere che ella sia quello che ella non è; similmente
colui che fará una statua; e il calzolaio, quanto piú conforme fará
la scarpetta al piede, miglior maestro è reputato: intendendo sempre
in questo che, medianti questi esercizi e le forze degl’ingegni,
séguiti quel frutto all’artefice che a noi séguita dell’operazion della
natura, la quale in ogni sua operazione per alcuni mezzi, sí come
per istrumenti a ciò atti, è fruttuosa. E perciò aggiugne l’autore
le parole seguenti, dicendo l’arte nostra seguire la natura «come il
maestro fa il discente», cioè come lo scolaro fa il maestro; per che
dice Virgilio: «Sí che vostr’arte a Dio quasi è nepote», cioè figliuola
della figliuola; percioché la natura è figliuola di Dio, in quanto sua
creatura, e l’arte nostra è figliuola della natura, in quanto si sforza
di somigliarla, come il figliuolo somiglia il padre. Ma dice «quasi», e
questo dice peroché propriamente dir non si può la nostra arte essere
nepote di Dio, percioché conviene che la successione sia simigliante a’
suoi predecessori; il che della nostra arte dir non si può, in quanto
ella è in molte cose difettiva, dove Iddio in tutte è perfettissimo.
E, questo detto, per esemplo dimostra cosí dovere essere, come di
sopra ha detto, dicendo: «Da queste due», cioè da natura e da arte,
«se tu ti rechi a mente Lo _Genesi_», quello libro il quale è il
primo della Bibbia, «dal principio», del mondo, «conviene» all’umana
generazione, «Prender sua vita», dall’un di questi, cioè dall’arte;
percioché Adam, secondo alcuni vogliono, fu lavorator di terra, e
cosí Cain suo figliuolo, e Abel fu pastore, e, per doversi poter
nell’opportunitá sostentare, preson queste arti; e cosí, mediante la
terra e il bestiame, della fatica e dello ingegno loro traevano il
frutto del quale si sostentavano; «ed avanzar la gente», prendendo
questa parte della natura, la quale mediante le congiunzion de’ maschi
e delle femmine, produce gli animali secondo la loro spezie; e cosí ad
Adam e ad Eva convenne per la lor congiunzione avanzare, cioè producere
e multiplicar la gente. Ma «perché l’usuriere»; chiamasi «usuriere»,
percioché vende l’uso della cosa la qual di sua natura non può fare
alcun frutto, cioè de’ danari: «altra via tiene», in quanto fa quello
che detto è, cioè che i denari faccian frutto, li quali di sua natura
You have read 1 text from Italian literature.
Next - Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - 07