Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - 08

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[Fu questo Nesso, tra’ centauri famosissimo, figliuolo d’Issione
e d’una nuvola, come gli altri, ed essendo insieme co’ fratelli in
Tessaglia alle nozze di Peritoo, con gli suoi insieme riscaldati di
vivanda e vino, volle tôrre la moglie a Peritoo; alla difesa della
quale si levò Teseo, amico di Peritoo, e un popolo il quale si chiamava
lapiti, e ucciserne assai. Dalla qual zuffa fuggendo pauroso Nesso,
gli disse un de’ suoi compagni, chiamato Astilo, il quale sapeva
vaticinare:—Nesso, non ti bisogna cosí frettolosamente fuggire,
percioché la tua morte è riservata da’ fati alle mani d’Ercule.—Per
la qual cosa egli se n’andò in Calidonia, e quivi allato ad un fiume
chiamato Eveno abitando, amò Deianira, figliuola del re Oeneo di
Calidonia. La quale, come appresso si dirá, essendo divenuta moglie
d’Ercule, ed Ercule con lei insieme tornandosi verso la patria,
trovarono per le piove fieramente cresciuto questo fiume Eveno; e
vedendolo Nesso star sospeso per Deianira, pensò che tempo gli fosse
prestato a dover potere avere il disiderio suo di Deianira; e fattosi
avanti, quasi pronto a’ servigi d’Ercule, disse: —Ercule, dove tu
creda poter notando passare il fiume, io, dove ti piaccia, sopra la
groppa mia ti passerò bene e salvamente di la Deianira.—Alla qual
profferta Ercule fu contento. Per la qual cosa, notando Ercule, Nesso
con Deianira velocemente passò il fiume, e cominciò velocissimamente a
fuggir con essa; per la qual cosa Ercule turbato, e pervenuto all’altra
riva, non correndo, ma con una delle sue saette il seguitò e ferillo.
Laonde Nesso, sentendosi ferito mortalmente, percioché sapea le
saette d’Ercule tutte essere intinte nel sangue della idra, la quale
uccisa avea, e casi essere velenosissime, pensò in vendetta della sua
morte subitamente una strana malizia; e spogliatasi la camiscia, la
quale giá era sanguinosa tutta del sangue avvelenato uscito della sua
piaga, disse:—Deianira, io non ho al presente che ti poter donare, in
riconoscenza del grande amore il quale io t’ho portato e porto, se non
questa mia camiscia, la qual se tu serverai senza farla lavare, ed egli
avvenga che Ercule in altra femmina ponga amore, dove tu possi fare
vestirgli questo vestimento, egli incontanente rimoverá il suo amore da
ogni altra femmina, e ritornerallo in te.—Deianira, credendo questo
dovere esser vero, prese la camiscia e guardolla; e ivi a certo tempo,
avendo Ercule quasi dimentica lei, e amando ardentissimamente una
giovane chiamata Iole, figliuola d’Eurito, re d’Etolia, occultamente
adoperò che egli questo vestimento si mise in dosso; e andato a
cacciare in sul monte Octa, e per la fatica della caccia riscaldatosi e
sudando forte, col sudore bagnò il sangue secco, e quello, liquefatto,
gli entrò per i pori, e misegli una sí fatta rabbia addosso, che esso,
composto un gran fuoco, volontariamente per morire vi si gittò dentro e
in quel morí. E cosí fece Nesso, dopo la sua morte, la vendetta di sé
egli stesso.]
[La bella Deianira fu figliuola d’Oeneo, re di Calidonia, e fu
ragguardevole vergine per singular bellezza, tanto che molti giovani
nobili la disiderarono e domandaron per moglie; ma, dopo molte cose,
essendo stata promessa ad Acheloo fiume, e ultimamente conceduta ad
Ercule domandantela, nacque guerra tra Acheloo ed Ercule; ma, essendo
Acheloo vinto da Ercule, ne rimase Ercule in pacifica possessione.
Dice Teodonzio che la guerra, la qual fu tra Ercule e Acheloo fiume,
fu in questa maniera, che, rigando Acheloo Calidonia con due alvei, e
per questo molto alcuna volta per le piove la provincia, crescendo,
guastasse, fu ad Ercule, addomandante Deianira, posta da Oeneo, padre
di lei, questa condizione, che egli la poteva avere dove recasse
Acheloo in un solo alveo, e quello sí d’argini forti chiudesse, che
egli crescendo non potesse guastare la contrada: la qual cosa Ercule
con grandissima fatica fece, e cosí, essendo vincitore del geminato
corso d’ Acheloo, ebbe Deianira, Costei è quella di cui di sopra è
detto, che ad Ercule mandò la camiscia di Nesso.]
«E quel», centauro, «di mezzo ch’al petto si mira. È ’l gran Chirone,
il qual nudrí Achille». [Questo Chirone non fu de’ figliuoli d’Issione,
ma fu, secondo che ad alcun piace, figliuolo di Saturno e di Fillira,
comeché Lattanzio dica che la madre di lui fosse Pelopea; e della sua
origine si recita questa favola: che Saturno, preso della bellezza
di Fillira, e avendola presa, avvenne, secondo che dice Servio, che,
giacendo egli con esso lei, sopravvenne nel luogo Opis, sua moglie, e
perciò, accioché da lei conosciuto non fosse, subitamente si trasformò
in un cavallo; per la qual cosa Fillira, avendo di lui conceputo,
partorí un figliuolo, il quale infino al bellico era uomo, e da indi
in giú era cavallo; il qual cresciuto, se ne andò alle selve e in
quelle abitò e in quelle nudrí Achille, come di sopra si disse, dove
d’Achille si fece menzione nel quinto canto. Poi, essendo stato dal
padre creato immortale, ed essendogli stato da Ociroe, sua figliuola
profetante, predetto che esso ancora disidererebbe d’esser mortale;
avvenne che, avendolo visitato Ercule, per caso gli cadde sopra il piè
una delle saette d’Ercule, le quali, come di sopra è detto, tutte erano
avvelenate nel sangue di quella idra lernea, la quale uccisa avea; ed
essendo dalla detta saetta fedito e gravemente dal veleno tormentato,
accioché compiuto fosse il vaticino della figliuola, cominciò a pregar
gl’iddii che il facessero mortale, accioché egli potesse morire: la
qual grazia gli fu conceduta. Laonde egli si morí, e dopo la morte sua
fu dagl’iddii trasportato in cielo, e fu posto nel cerchio del zodiaco,
ed è quel segno il quale noi chiamiamo Sagittario.]
«Quell’altro è Folo, che fu sí pien d’ira». Di questo Folo niuna cosa
abbiamo se non che esso fu figliuolo d’Issione e d’una nuvola, come gli
altri centauri.
«Dintorno al fosso», nel quale i violenti bollono nel sangue, «vanno a
mille a mille, Saettando quale anima», de’ miseri dannati, «si svelle
Del sangue», cioè esce, «piú che sua colpa sortille». E per queste
parole, e ancora per piú altre seguenti, appare che, secondo che la
violenza commessa è stata piú e men grave, ha la giustizia di Dio
voluto l’anime in quel sangue bogliente essere piú e meno tuffate.
«Noi ci appressammo a quelle fiere snelle», cioè leggieri; e chiamagli
«fiere», percioché sono mezzi uomini e mezze bestie. «Chirón prese uno
strale», cioè una saetta, «e con la cocca», di quello, «Fece la barba»,
la quale gli ricuopriva la bocca, «indietro alle mascelle»; e ciò fece,
accioché essa non impedisse le sue parole.
«Quando s’ebbe scoperta la gran bocca, Disse ai compagni:—Siete voi
accorti Che quel di dietro», che era l’autore, «muove», co’ piedi, «ciò
che tocca?» andando. «Cosí non soglion fare i piè de’ morti», cioè
dell’anime partite da’ corpi morti.
«E ’l mio buon duca, che giá gli era al petto», pervenuto, «Ove le due
nature», cioè l’umana e la bestiale, «son consorti», per congiunzione,
«Rispose:—Ben è vero», che egli muove ogni cosa che tocca, percioché
egli è vivo, «e sí soletto», come tu mi vedi, «Mostrargli mi convien la
valle buia», d’inferno; «Necessitá il conduce», in quanto, come altra
volta è detto, è di necessitá in questa forma, nella quale va l’autore,
andare a chi vuole uscire della prigione del diavolo; «e non diletto»,
ce lo conduce, che egli abbia di veder queste pene e questi dannati.
«Tal si partí da cantare _alleluia_»: e questa fu Beatrice, la quale,
lasciato il cielo, venne nel limbo a sollecitar Virgilio, che al
soccorso dell’autore andasse, come di sopra nel secondo canto è stato
detto.
[«_Alleluia_» è dizione ebraica, e secondo alcuni è «_interiectio
laetantis_»; ma Papia dice che «_alleluia_» in latino vuol dire «laude
di Dio»; o vero che ella abbia ad espriemere «laudate Iddio»; e oltre
a ciò, questa dizione s’interpetra in due modi, de’ quali è l’uno:
«cantate a colui il quale è», e cosí c’invita alla laude di questo
Iddio il quale è, percioché per addietro cantavamo, essendo gentili, a
quegli iddii li quali non erano: e l’altro modo è: «Iddio, benedicci
tutti in uno»; e questo percioché tutti siamo insieme in uno per fede
e umanitá, e cosí siam degni d’essere benedetti da Dio. Altri ne fanno
loro interpretazioni, le quali sarebbon molto lunghe, volendole tutte
mostrare.]
«Che mi commise quest’ufficio nuovo», e disusato, cioè d’accompagnare
uom vivo per lo ’nferno. E, déttogli questo, risponde alla domanda poco
avanti fatta da Nesso, quando domandò «a qual martíro venite voi»,
mostrandogli che essi non discendono ad alcun martíro, e però dice:
«Non è ladron», costui il qual io guido; e dice «ladrone», percioché
nell’ottavo cerchio si puniscono i ladroni; «né io anima fuia», quasi
dica: né io altresí son ladrone; percioché noi quelle femmine, le quali
son fure, noi chiamiam «fuie». E, poiché egli gli ha discoverta la lor
condizione, ed egli il priega gli dea alcun pedoto al cammino, e che
trapassi l’autore al valico del fossato, e dice: «Ma per quella virtú,
per cui io muovo Li passi miei per sí selvaggia strada», cioè per la
virtú di Dio, «Danne un de’ tuoi», centauri, «a cui noi siamo a provo»,
cioè allato; accioché da alcuno altro non possiamo essere impediti, e
«Che ne dimostri lá dove si guada», questo fiume, «E che porti costui
in su la groppa», accioché al passar non si cuoca, «Che non è spirto
che per l’aer vada»,—come fo io e gli altri.
«Chíron si volse in su la destra poppa», udito il priego di Virgilio,
«E disse a Nesso:—Torna, e si gli guida, E fa’ cansar», cioè cessare,
«s’altra schiera v’intoppa»,—cioè vi si scontra, di centauri.
[Lez. XLVI]
«Noi ci movemmo». Qui comincia la quinta parte di questo canto, nella
quale, avendo Virgilio certificati i centauri della lor qualitá, dice
l’autore come, seguendo il centauro, esso dimostrasse loro le pene
de’ tiranni e de’ rubatori. E comincia: «Noi ci movemmo con la scorta
fida», cioè con Nesso, «Lungo la proda del bollor vermiglio», cioè del
sangue il quale in quella fossa bolliva, «Ove i bolliti faceano alte
strida», per lo dolore il qual sentivano. «Io vidi», in quel sangue
bogliente, «gente sotto infino al ciglio», cioè infino a tutti gli
occhi, «E’ l gran centauro», cioè Nesso, «disse:—E’ son tiranni»,
quegli che bollono e che fanno cosí alte strida, per ciò «Che dier
nel sangue», uccidendo ingiustamente il prossimo, «e nell’aver», del
prossimo, «di piglio», rubando e occupando come non dovevano. «Quivi
si piangon gli spietati danni», da questi cotali tiranni dati nelle
persone e nell’avere del prossimo; «Quivi», tra questi tiranni che io
ti dico che piangono, «è Alessandro».
Non dice l’autore quale, conciosiacosaché assai tiranni stati sieno, li
quali questo nome hanno avuto; e, peroché nel maggiore si contengono
tutti i mali fatti da’ minori, credo sia da intendere che egli abbia
voluto dire d’Alessandro re di Macedonia; e perciò, di lui sentendo,
chi el fosse e delle sue opere succintamente diremo.
Fu adunque questo Alessandro figliuolo di Filippo, re di Macedonia,
e d’Olimpia, sua moglie, comeché alcuni voglian credere che egli non
fosse figliuolo di Filippo, ma piú tosto di Nettabo, re d’Egitto,
il qual, cacciato del suo reame e ridottosi a Filippo, venne nella
dimestichezza d’Olimpia, e di lei generò Alessandro; e come che questo
non fosse subitamente saputo, in processo di tempo, essendo giá
Alessandro grande, venne in tanta sospezion di Filippo re, che egli
addicò Olimpia, e prese per moglie una sua nepote chiamata Cleopatra;
né guari tempo visse, poiché, per quello che si credesse, per opera di
Olimpia egli fu da Pausania ucciso. Dopo la morte del quale, rimaso
Alessandro, sí come suo figliuolo, re di Macedonia, essendo giovane
di grande e d’ardente animo, primieramente i greci ribellantisi si
sottomise, e, disfatta la cittá di Tebe, a dare compimento alla guerra
contro a quegli di Persia, da Filippo suo padre cominciata, diede
opera; e, fatti uccidere quasi tutti i suoi parenti, di cui suspicava
non movessero in Macedonia alcuna novitá, essendo egli lontano, con
quattromiladugento cavalieri e con trentadue migliaia di pedoni, non
solamente Asia, ma tutto il mondo ardí d’assalire. E, pervenuto in
Frigia, ed entrato in una cittá chiamata Gordia, e quivi nel tempio di
Giove domandato il giogo del carro di Gordio, s’ingegnò di sciogliere
i legami di quello, percioché udito avea che gli oracoli antichi
avevan detto che, chi quegli sciogliesse, sarebbe signor d’Asia; e,
non trovando il modo da scioglierli, messo mano ad un coltello, li
tagliò, e cosí li sciolse. Quindi, passato il monte Tauro, in piú parti
con infinita moltitudine di gente di Dario, e con Dario medesimo piú
volte combatté, e fu sempre vincitore, e, avendo presa la moglie e’
figliuoli, e ultimamente sentendo Dario da’ suoi medesimi essere stato
ucciso, prese Persia; e quindi, ricevuto Egitto e Cilicia, e andato in
Libia al tempio di Giove Ammone, e ingegnatosi con inganni di farsi
reputare figliuolo del detto Giove, vinte molte altre nazioni, trapassò
in India. Quivi vinto Poro re e molte nazioni, e piú cittá edificate
in testimonianza delle sue vittorie, e lasciati prefetti dove credette
opportuno, andò ad Agisine fiume, altri dicono a Gange, per lo quale si
discende nel mare Oceano orientale; e quivi soggiogate alcune nazioni,
navicò agli ambri e a’ sicambri, li quali non senza suo gran pericolo
vinti, messi nelle sue navi molti de’ suoi, li quali estimò piú
valorosi, sotto il governo di Poliperconte, il suo esercito ne mandò in
Babilonia, ed esso pervenuto alla cittá d’un re chiamato Ambigeri, lui,
ancora che molti con saette avvelenate n’uccidesse, vinse; e di quindi
venendo alla seconda del fiotto del mare, pervenne alla foce del fiume
chiamato Indo; e quindi per terra venendone, se ne tornò a Babilonia,
dove sposò Rosanne, l’una delle figliuole del re Dario. E, mentre
che esso tornava, gli fu nel cammino nunziato come gli ambasciadori
de’ cartaginesi e degli altri popoli d’Affrica, e di piú cittá di
Spagna, di Gallia, d’Italia, di Sardigna e di Cicilia, lui attendevano
in Babilonia, li quali, spaventati dalle gran cose che da lui fatte
si dicevano, disideravano la grazia e l’amistá sua. I romani non vi
mandarono; anzi ne fa Tito Livio nel libro ottavo _Ab urbe condita_
quistione, se esso fosse in Italia venuto, se i romani avessero potuto
resistere alle sue forze o no; e per piú ragioni mostra che i romani
e si sarebber da lui difesi, e forse l’avrebber cacciato. Quivi in
Babilonia, da Cassandro, figliuolo d’Antipatro, si crede gli fosse dato
veleno, del quale infra pochi dí morí, e lasciò che il corpo suo ne
fosse portato in Libia nel tempio di Giove Ammone, e quivi seppellito.
Fu costui, quantunque vittorioso e magnifico signore, come assai
appare nelle sue opere, occupatore non solamente delle piccole fortune
degli uomini, ma de’ regni e delle libertá degli uomini, violentissimo;
e, oltre a ciò, crudelissimo ucciditore non solamente de’ nemici, ma
ancora degli amici, de’ quali giá caldo di vino e di vivanda, ne’
conviti e altrove molti fece uccidere: per le quali colpe si puote
assai convenientemente credere l’autore aver voluto s’intenda lui in
questo ardentissimo sangue esser dannato.
«E Dionisio fèro, Che fe’ Cicilia aver dolorosi anni». Furono, secondo
che Giustino scrive, due Dionisi, l’un padre e l’altro figliuolo,
e ciascun fu pessimo uomo; né appar qui di quale l’autor si voglia
dire: e però direm di ciascuno quello che scritto se ne truova. Fu
adunque, secondo che Tullio scrive nel quinto libro _De quaestionibus
Tusculanis_, il primo Dionisio nato di buoni e d’onesti parenti, e
similmente d’onesto luogo di Seragusa di Cicilia, del quale essendo
la madre gravida, vide nel sonno che ella partoriva un satirisco; per
che ricorsa al consiglio degl’interpetratori de’ sogni, le fu risposto
che ella partorirebbe uno il quale sarebbe chiarissimo e potentissimo
uomo, oltre a ciascun altro del sangue greco. E avanti che costui,
nato e giá d’etá di venticinque anni, occupasse il dominio di Siragusa
e di tutta Cicilia, parve nel sonno ad una nobile donna siragusana,
chiamata Imera, essere trasportata in cielo, e che le fossero quivi
mostrate tutte le stanze degl’iddii, le quali mentre riguardando
andava, le parve vedere appiè del solio di Giove un uomo di pelo rosso
e litiginoso, legato con fortissime catene. Per la qual cosa ella
domandò un giovane, il quale le pareva aver per dimostratore delle cose
celestiali, chi colui fosse; dal quale le parve le fosse risposto colui
essere crudelissima morte di Cicilia e d’Italia, e, come egli fosse
sciolto, sarebbe disfacimento di molte cittá. Il qual sogno la donna
il di seguente in publico disse a molte persone. Ma poi in processo
di tempo, quasi come se liberato fosse dalle catene, e ricevuto
Dionisio in signore de’ siracusani, e tutti i cittadini a vederlo
nella cittá venir corressono, come si suole a cosí fatti avvenimenti;
Imera similmente v’andò, e tantosto che ella il vide, altamente
disse:—Questi è colui, il quale io vidi legato a’ piedi di Giove;—il
che poi, da Dionisio risaputo, le fu cagione di morte. E cosí avendo
per la pestilenzia, la quale aveva gli eserciti dei cartaginesi del
tutto consumati, e da loro liberata l’isola, Dionisio occupata, secondo
che scrive Giustino, la signoria di quella, primieramente mosse guerra
a tutti i greci, li quali in Italia abitavano, e venne lor sopra con
grandissimo esercito; e, fatti molti danni, e vinti i locresi, e
guerreggiando que’ di Crotone, avvenne che con lui si congiunsero in
compagnia quelle reliquie de’ galli, li quali avevano Roma guasta.
Ma da questa guerra il richiamò in Cicilia un grande esercito di
cartaginesi venutovi; ed essendo da molti sinistri avvenimenti
debilitato assai, da’ suoi medesimi fu ucciso, avendo giá trentotto
anni regnato.
Il quale, secondo che scrive Tullio nel preallegato libro, fu nel
modo del suo vivere temperatissimo, e nelle operazioni sue fortissimo
e industrioso; e con questo fu pessimo e malefico, senza alcuna
giustizia, e crudelissimo occupatore dell’altrui sustanze, vago del
sangue degli uomini e disprezzator degl’iddii. Ed essendo allevato
con certi giovanetti greci, l’usanza de’ quali il dovea trarre
ad amarli, mai d’alcuno non si fidò, ma solo in quegli, li quali
eleggeva in servi, ogni sua fede pose. Ed essendo divenuto signore,
in ferocissimi barbari commise la guardia del corpo suo. Della qual
fu tanto sollecito, che, non volendo, per téma, nelle mani d’alcun
barbiere rimettersi, fece le figliuole, ancora piccole, apparare a
radere, e a loro rader si faceva; e, poi che crebbero, sospettando,
fece loro lasciare i rasoi, e prender gusci di ghiande e di noci o
di castagne, e quegli roventare, e con essi si faceva abbruciare i
peli della barba e quegli del capo. E, avendo due mogli, delle quali
l’una ebbe nome Aristomaten siragusana, e l’altra Dorida della cittá
di Locri, ad esse non andava mai, che esso primieramente non cercasse
che alcun ferro o altro nocivo non vi fosse. E, avendo circundata la
camera nella qual dormia, d’una larghissima fossa, e sopra quella fatto
un ponticello di legno levatoio, come in quella era entrato, e serrato
l’uscio, cosí levava il ponte; e, non avendo ardire di fidarsi nelle
comuni ragunanze, quante volte in esse voleva alcuna cosa dire, tante,
salito sopra un’alta torre, diceva quel che voleva a coloro che di
sotto dimoravano. E intra gli altri suoi commendatori e approvatori
di ciò che diceva, conciosiacosaché uno, nominato Damocle, alcuna
volta, parlando della felicitá di lui, raccontasse la copia delle sue
ricchezze, la signoria e la maestá e l’abbondanza delle cose e la
magnificenza delle case reali, e negasse alcuno esserne piú beato di
lui; gli disse Dionisio una volta:—O Damocle, percioché io m’accorgo
che la vita mia ti piace e diléttati, vuogli provare chente sia la mia
fortuna?—Al quale avendo Damocle risposto sé sommamente disiderarlo,
comandò Dionisio che esso fosse posto sopra un letto di preziosissimi
ornamenti coperto, e quindi comandò gli fosse apparecchiata una
ricchissima mensa, e preposto per servidori fanciulli bellissimi,
li quali sollecitamente ad ogni suo comandamento il servissero; e
quindi gli fece apporre preziosissimi unguenti e corone, e intendere
soavissimi odori, e apportare esquisite vivande: per le quali cose a
Damocle pareva essere fortunatissimo. Ma Dionisio, nel mezzo di cosí
ricco apparecchiamento, comandò che un coltello appuntatissimo, legato
con una setola di cavallo, fosse appiccato alla trave della casa sopra
la testa di Damocle, in maniera che la punta di quello sopra Damocle
pendesse: per la qual cosa Damocle, veduto quello, né a’ bellissimi
servidori, né al reale apparecchiamento riguardava, né stendeva la mano
alle dilicate vivande, e giá gli cominciavano a cadere di testa le
preziose ghirlande. Laonde egli caramente pregò Dionisio che egli, con
sua licenza, si potesse quindi partire, percioché piú non volea quella
beatitudine: in che assai bene mostrò Dionisio chente fosse la sua
beatitudine, e degli altri che in simile fortuna eran con lui.
Fu, oltre a questo, costui non solamente occupatore e violento de’
beni del prossimo, ma ancora sprezzatore degl’iddii e sacrilego.
Esso, secondo che Valerio Massimo scrive, avendo in Locri spogliato e
rubato il tempio di Proserpina, e con la preda tornando in Cicilia, e
avendo al suo navicare prospero vento, disse ridendo agli amici suoi,
li quali con lui erano:—Vedete voi come buon navicare sia conceduto
dagl’iddii a’ sacrilegi?—E, avendo tratto alla statua di Giove Olimpio
un mantello d’oro, il quale era di grandissimo peso, e messonele uno
di lana, disse che quello dell’oro era la state troppo grave e ’l
verno troppo freddo; ma, quello che messo l’avea, era a ciascun de’
detti tempi piú atto; e cosí, levata la barba dell’oro alla statua
d’Esculapio, affermò non convenirsi vedere il figliuolo con barba, ove
si vedea senza barba essere il padre. Similmente trasse de’ templi piú
mense d’oro e d’ariento, nelle quali, secondo il costume greco, era
scritto quelle essere de’ beni degl’iddii; dicendo, quando le prendeva,
sé usare de’ beni degl’iddii. E, oltre a ciò, molti doni d’oro e care
cose, le quali le statue degl’iddii con le braccia sportate innanzi
sosteneano, poste sopra quelle da coloro li quali li lor boti mandavano
ad esecuzione, prese piú volte, dicendo sé non rubarle, ma prenderle;
stolta cosa affermando, non prender quei beni, per li quali sempre gli
preghiamo, quando gli si porgono. E questo del primo Dionisio basti
aver detto.
E, venendo al secondo, scrive Giustino che, essendo il predetto
Dionisio stato ucciso da’ suoi, essi medesimi, che ucciso avevano
il padre, sostituirono a lui questo secondo Dionisio, il quale di
tempo era maggiore che alcun altro suo figliuolo; il quale, come la
signoria ebbe presa, per potere aver piú ampio luogo alle crudeltá giá
pensate, in quanto poté si fece favorevole il popolo con piú benefici
facendogli; e parendoli giá quello avere assai, avanti ogni altra cosa
tutti i parenti de’ fratelli suoi minori, e poi loro, fece tagliare a
pezzi, per levarsi ogni sospetto d’alcuno che al regno potesse aver
l’animo con titolo alcuno. E, levatisi questi davanti, quasi sicuro
si diede tutto all’ozio, per lo quale divenuto corpulento e grasso, e
ancora in gravissima infermitá degli occhi, intanto che né sole, né
polvere, né alcuna luce poteva sofferire, estimò per questo essere
da’ suoi avuto in dispregio; e perciò, non come il padre aveva giá
fatto, cioè di mettere in prigione quegli di cui sospettava, ma,
uccidendo e facendo uccidere or questi e or quegli altri, tutta la
cittá riempie’ d’uccisioni e di sangue. Per la qual cosa avendo i
siracusani diliberato di muovergli guerra, lungamente stette intra due,
se egli dovesse piú tosto o por giú la signoria o resistere con guerra
a’ siracusani; ma ultimamente fu costretto dalla sua gente d’arme,
sperante d’arricchire della preda e della ruberia della cittá, di
prender la guerra e di discender alla battaglia. Nella quale essendo
stato vinto, e avendo infelicemente un’altra volta tentata la fortuna
della battaglia, mandò ambasciadori a’ siracusani, promettendo che
esso diporrebbe la signoria, se essi gli mandassero uomini con li
quali esso potesse trattare le convenzioni della pace; e, avendo i
siracusani mandatigli a questo fare de’ migliori della cittá, esso,
ritenutigli in prigione, non prendendosi di ciò guardia i siracusani,
mandò subitamente la gente sua a guastare e a rubar la cittá: per
la qual cosa i cittadini difendendosi e combattendosi per tutto, e
vincendo la moltitudine dei cittadini la gente di Dionisio, e perciò
esso temendo di non essere nella ròcca assediato, se ne fuggí con ogni
suo reale arnese in Italia. E sí come sbandito ricevuto da’ locrensi
come compagno, sí come se giustamente in quella regnasse, occupò la
ròcca della cittá; e sí come in Siragusa era usato di fare, cosí quivi
incominciò ad esercitare la crudeltá; e alla sua libidine faceva
rapire le nobili donne de’ maggiori della cittá, e facevasi per forza
menare le vergini avanti il giorno delle nozze, e quando quanto a lui
piaceva tenute l’avea, le faceva rendere a’ parenti loro; oltre a ciò
li piú ricchi della cittá scacciava e rubava, o gli faceva uccidere,
e facendo cose ancora assai piú inique. Poi che sei anni ebbe tenuta
la signoria di Locri, non avendovi piú che rubare, occultamente e per
segreto trattato se ne tornò in Siragusa; dove essendo piú crudele che
mai, e peggio adoperando, fatta da tutti i cittadini congiurazione
contro a lui, fu nella ròcca della cittá assediato, dove costretto
per patti fatti co’ siracusani, lasciata la signoria, povero e misero
n’andò in esilio a Corinto; e quivi, per sicurtá della vita sua, datosi
alle piú infime e misere cose che poté, ne’ vilissimi luoghi e con
vilissimi uomini dimorava, male e vilmente vestito; e ultimamente si
diede a insegnar giucare alla palla a’ fanciulli; e in cosí fatta guisa
vilmente adoperando e vivendo, pervenne al fine incognito della sua
vita. Per le quali malvagitá e violenze, cosí nel sangue come nell’aver
del prossimo, o del padre o del figliuolo che intender vogliamo; e
percioché non come re ma come tiranni signoreggiarono: meritamente
l’autore qui, nel sangue bogliente, tra la prima spezie de’ violenti
nel dimostra.
«E quella fronte, c’ha il pel cosí nero, È Azzolino». Costui chiama
Musatto padovano in una sua tragedia _Ecerino_, ed è quello Azzolino,
il quale noi chiamiamo Azzolino «di Romano», e cosí similmente il
cognomina il predetto Musatto; e, secondo scrive Giovanni Villani, egli
fu gentile uomo di legnaggio. Fu adunque costui potentissimo tiranno
nella Marca trivigiana, e, per quello che si sappia, egli tenne la
signoria di Padova, di Vicenza, di Verona e di Brescia, e molti uomini
e femmine uccise, o fece andare tapinando per lo mondo, e massimamente
de’ padovani, de’ quali ad un’ora avendone nel prato di Padova
rinchiusi in un palancato undicimila, tutti gli fece ardere. E di
questa arsione si dice questa novella: che, avendo egli un suo notaio,
o cancelliere che fosse, chiamato ser Aldobrandino, il quale ogni suo
segreto sapea, e avendo preso tacitamente sospetto di lui, e volendolo
far morire, il domandò se egli sapeva chi si fossero quegli che nel
palancato erano legati. Gli rispose ser Aldobrandino che di tutti aveva
ordinatamente il nome in un suo quaderno, il quale aveva appresso di
sé.—Adunque—disse Azzolino,—avendomi il diavolo fatte molte grazie,
io intendo di fargli un bello e un grande presente di tutte l’anime di
costoro che legati sono; né so chi questo si possa far meglio di te,
poiché di tutti hai il nome e il soprannome; e però andrai con loro,
e nominatamente da mia parte gliele presenta.—E, fattolo menar lá
col suo quaderno, insieme con gli altri il fece ardere. Ultimamente,
avendo molte crudeltá operate, andando con molta gente per prendere
Melano, trovò al fiume d’Adda il marchese Palavicino con gente essergli
venuto all’incontro, e aver preso il ponte donde Azzolino credeva poter
passare: per la qual cosa egli con la sua gente mettendosi a nuoto
per lo fiume, furono dai nemici ricevuti con loro grande svantaggio,
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