Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - 05

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piacere a colui che ha fatta la domanda: «e piú non parve fuora».
Puossi nelle predette cose comprendere quanto sia l’amor de’ padri ne’
figliuoli, quando veggiamo che in tanta afflizione, in quanta i dannati
sono, essi non gli dimenticano, e accumulano la pena loro quando di
loro odono o suspicano alcuna cosa avversa. «Ma quell’altro magnanimo».
Qui comincia la quinta particella della terza del presente canto, nella
quale, poi che l’autore ha mostrato come quello spirito, il quale s’era
in ginocchie levato, era nella sepoltura ricaduto, ne dice come messer
Farinata, continuando le sue parole, gli annunzia alcuna cosa di sua
vita futura. Dice adunque: «Ma quell’altro magnanimo», cioè messer
Farinata, «a cui posta», cioè a cui richiesta, «Restato m’era», in quel
luogo, «non mutò aspetto», per cosa che detta fosse, «Né mosse collo»,
volgendosi in giú alle parole di messer Cavalcante, «né piegò sua
costa», cioè suo lato.
—«E se,—continuando al primo detto», cioè a quello che di sopra avea
detto, d’avere due volte cacciati i passati dell’autore;-«Egli han
quell’arte»,—del tornare donde cacciati sono, «disse,—male appresa»,
in quanto non tornano in Firenze, «Ciò mi tormenta piú che questo
letto», cioè che questo sepolcro acceso, nel quale io giaccio.
«Ma non cinquanta volte fia raccesa La faccia della donna che qui
regge».
A dichiarazion di queste parole è da sapere, come altra volta è stato
detto, Proserpina esser moglie di Plutone e reina d’inferno; e questa
Proserpina talvolta è da intendere per una cosa, e tal per un’altra.
E tra l’altre cose, per le quali i poeti la prendono, alcuna volta è
per la luna, la quale però si dice reggere in inferno, percioché la
sua potenza è grandissima appo questi corpi inferiori, i quali, per
rispetto delle cose superiori, si posson dire essere in inferno; e
però, intendendosi per la luna, è da sapere la luna di sua natura non
avere alcuna luce, sí come noi possiamo vedere negli ecclissi lunari,
ne’ quali ella non è veduta dal sole: per la interposizione del corpo
della terra tra ’l sole e lei, rimane un corpo rosso senza alcuna
luce. E cosí, facendo il suo corso, quanto piú dal sol si dilunga,
piú veggiamo del corpo suo lucido, insino a tanto che perviene alla
quintadecima, e quivi allora veggiamo tutto il corpo suo luminoso
e bello; e cosí si mostra a noi essere «raccesa», cioè ralluminata
la faccia sua: poi dal luogo, dove tutta la veggiamo, partendosi, e
tornando verso il sole, continuamente par diminuisca il lume suo,
in quanto a’ nostri occhi apparisce meno di quello che dal sole è
veduto; e cosí se ne va continuamente diminuendo, infino a tanto che
entra sotto i raggi del sole; e di sotto a quegli uscendo, comincia,
come dinanzi ho detto, a divenire ognora piú luminosa, infino alla
quintadecima; e brievemente in trecentocinquantaquattro di ella si
raccende, cioè si vede tutta accesa dodici volte, per che possiam dire
che in quattro anni, pochi di piú, ella si raccenda cinquanta volte.
E però vuol qui, vaticinando, dire messer Farinata: egli non saranno
quattro anni, «Che tu saprai», per esperienza, «quanto quell’arte»,
del tornare chi è cacciato, «pesa», cioè è grave; volendo per queste
parole annunziargli che, avanti che quattro anni fossero, esso sarebbe
cacciato di Firenze: il che avvenne avanti che fossero due, o poco piú.
«E se tu mai nel dolce mondo», cioè in questo, il quale, quantunque
pieno d’amaritudine sia, è «dolce», cioè dilettevole, a rispetto dello
’nferno; «regge», cioè torni, «Dimmi: perché quel popolo», cioè i
cittadini di Firenze, «è si empio», cioè crudele, «Incontr’ a’ miei»,
cioè agli Uberti, «in ciascuna sua legge»?— delle quali, poiché
cacciati furono, mai alcuna non se ne fece, nella quale alcun beneficio
si concedesse a’ cacciati di Firenze (se alcuna se ne fece mai), che
da quel cotal beneficio non fossero eccettuati gli Uberti generalmente
tutti.
«Ond’io a lui», risponde l’autore e dice:—«Lo strazio e ’l crudo
scempio, Che fece l’Arbia colorata in rosso, Tali orazion», cioè
composizioni contro alla vostra famiglia, «fa far nel nostro tempio»,
cioè nel nostro senato, nel luogo dove si fanno le riformagioni e
gli ordini e le leggi: il quale chiama «tempio», si come facevano i
romani, li quali chiamavano talvolta «tempio» il luogo dove le loro
diliberazioni facevano.
E accioché pienamente s’abbia lo ’ntelletto della risposta che
l’autore fa, è da sapere che, avendo il comun di Firenze guerra col
comun di Siena, si fece per opera di messer Farinata, il quale allora
era uscito di Firenze, che il re Manfredi mandò in aiuto del comun
di Siena il conte Giordano con ottocento tedeschi, li quali avendo,
tenne messer Farinata segreto trattato con piú cittadini ghibellini e
altri, co’ quali compose quello che poi seguí, come si dirà appresso.
Poi con astuzia mandati frati minori, con falsa informazione data
loro, agli anziani di Firenze, e loro per parte di coloro, che luogo
di comun teneano in Siena, mostrando di dover dar loro una porta di
Siena, se ad oste v’andassero; trassero i fiorentini con ogni loro
sforzo fuori della cittá, sotto titolo di andare a fornire Monte
Alcino, e pervennero infino a Monte Aperti in Val d’Arbia: dove, contro
all’opinion di tutti, usciti loro allo ’ncontro i sanesi co’ tedeschi
del re Manfredi, e molti dell’oste de’ fiorentini, secondo che con
messer Farinata erano in concordia, partitisi dell’oste de’ fiorentini,
entrarono in quella de’ sanesi. Di che quantunque sbigottissero i
fiorentini, nondimeno, fatte loro schiere, s’avvisarono con la gente
de’ sanesi; ed essendo giá la battaglia cominciata, messer Bocca Abati,
il quale era di quegli che con messer Farinata sentiva, accostatosi a
messer Iacopo del Vacca de’ Pazzi di Firenze, il qual portava l’insegna
del comune, levata la spada, ferí il detto messer Iacopo e tagliògli la
mano, di che convenne la ’nsegna cadesse; per la qual cosa i fiorentini
del tutto rotti, senza segno e senza consiglio, furono sconfitti, e
molta gran quantitá di loro e di loro amici furono in quella sconfitta
uccisi; il sangue de’ quali n’andò infino in un fiume ivi vicino
chiamato Arbia; e ciò fu a dí 4 di settembre 1260. La qual cosa saputa
poi pienamente per tutti, fu ed è cagione che, tornati i guelfi in
Firenze, mai della famiglia degli Uberti alcuna cosa si volesse udire,
se non in disfacimento e distruzion di loro. E per queste cose state
per opera di messer Farinata fatte, dice l’autore che fece «l’Arbia
colorata in rosso» del sangue de’ fiorentini.
[Lez. XLI]
E séguita: «Poi ch’ebbe, sospirando, il capo scosso», come color fanno
li quali minacciano,—«A ciò non fu’ io sol—disse», cioè a far questi
trattati contro al comun di Firenze; quasi voglia dire: comeché contro
alla mia famiglia s’adoperi o procuri ogni disfacimento, e non contro
agli altri, che ad adoperar questo fûr meco;—«né certo, Senza cagion
con gli altri», che a ciò tennero, «sarei mosso», a dover far quel che
si fece: vogliendo per questo intendere che il comun di Firenze, il
quale il teneva fuori di casa sua, gli dava giusta cagione d’adoperare
ciò che per lui si poteva, per dover tornare in casa sua. Poi segue:
«Ma fu’ io sol colá, dove sofferto», cioè acconsentito, «Fu per
ciascun», fiorentino che a quello ragionamento si trovò, «di tôrre via
Fiorenza», cioè di disfarla, «Colui che la difesi a viso aperto», che
essa non fosse disfatta: volendo per questo atto dire che egli e’ suoi
dovrebbono sempre esser cari e a grado al comun di Firenze, piú che
alcuni altri cittadini.
È il vero che, poi che i ghibellini furon tornati in Firenze per la
sconfitta ricevuta a Monte Aperti, e i guelfi partitisi di quella,
si ragunarono ad Empoli ambasciadori e sindachi di tutte le terre
ghibelline di Toscana, e molti altri nobili uomini ghibellini, e cosí
ancora piú gran cittadini di Firenze, per dovere riformare lo stato di
parte ghibellina, e far lega e compagnia insieme a dover contrastare
a chiunque contro a quella volesse adoperare; e tra l’altre cose che
in quello ragunamento furono in bene di parte ghibellina ragionate, fu
che la cittá di Firenze si disfacesse e recassesi a borghi, accioché
ogni speranza si togliesse a’ guelfi di mai dovervi ritornare; e ciò
era generalmente per tutti consentito, e ancora per li fiorentini
che v’erano, fuor solamente per uno: e questi fu messer Farinata,
il quale, levatosi ritto, con molte e ornate parole contradisse a
questo, dicendo, nella fine di quelle, che, se altri non fosse che ciò
vietasse, esso sarebbe colui che con la spada in mano, mentre la vita
gli bastasse, il vieterebbe a chi far lo volesse. Per le quali parole,
avendo riguardo all’autoritá di tanto cavaliere, e ancora alla sua
potenza, fu il ragionamento di ciò lasciato stare.
—«Deh! se riposi mai». Qui comincia la sesta particella della
terza parte di questo canto, nella quale l’autor muove un dubbio a
messer Farinata, ed egli gliele solve. Dice adunque cosí:—«Deh! se
riposi mai vostra semenza»,—cioè i vostri discendenti; e in queste
parole alquanto capta la benivolenza di messer Farinata, accioché piú
benivolmente gli sodisfaccia di quello di che intende di domandarlo:
«Prega’ io lui,—solvetemi quel nodo», cioè quel dubbio, «Che qui
ha inviluppata mia sentenza», cioè il mio giudicio, in tanto che io
non ne posso veder quello che io disidero. «El par che voi», cioè
anime dannate, «veggiate, se ben odo» quello che voi m’avete detto,
e comprendo quello di che messer Cavalcante mi domandò; veggiate
«Dinanzi», cioè preveggiate, «quel che ’l tempo seco adduce», nel
futuro, «E nel presente» tempo, «tenete altro modo»,—in quanto non par
che cognosciate né veggiate le cose presenti. E questo dice, percioché
messer Farinata gli avea detto che, avanti che quattro anni fossero,
egli sarebbe cacciato di Firenze, in che si dimostra loro veder le cose
future; e messer Cavalcante l’avea domandato se il figliuolo vivea, in
che si dimostra che essi non conoscono le cose presenti.
E messer Farinata gli risponde:—«Noi veggiam come quei c’ha mala
luce, Le cose,—disse,—che ne son lontano». Suole questo vizio
avvenire agli uomini quando vengono invecchiando, per omori li quali
vengon dal cerebro, ed essendo nell’occhio, per la vicinanza loro
alla virtú visiva, alquanto l’occupano intorno alla vista delle cose
propinque; ma, come la virtú visiva si stende piú avanti, e lontanasi
dall’adombrazion dell’omore, tanto men mal vede, e con piú sinceritá
riceve le forme obiette. Cosí adunque i dannati, offuscati dalla
propinquitá della caligine infernale, non posson le cose propinque
vedere; ma, ficcando con la meditazione l’acume dello ’ntelletto per
le cose superiori, veggion le piú lontane. E come queste possan vedere
o no, quello che per Tullio se ne tiene è dimostrato nel precedente
canto, dove l’autore induce Ciacco a predire quello che esser deve
della «cittá partita». E séguita: «Cotanto», quanto odi, «ancor ne
splende», cioè presta di luce, «il sommo Duce», cioè Iddio, senza la
grazia del quale alcuna cosa non si può fare. «Quando s’appressan»,
le cose future, «n’è del tutto vano Nostro intelletto». in quanto
niuna cosa ne conosciamo; «e s’altri», o demonio o anima che tra noi
discenda, «non ci apporta», vegnendo dell’altra vita, e di quella ci
dica novelle, «Nulla sapem di vostro stato umano», cioè di cosa che
lassú si faccia. «Però comprender puoi», da ciò ch’io ti dico, «che
tutta morta, Fia nostra conoscenza da quel punto, Che del futuro fia
chiusa la porta»,—cioè dal dí del giudicio innanzi; percioché allora
seranno serrate tutte quelle arche con i loro coperchi, e non saranno
piú uomini, se non o dannati o beati, de’ quali niuno fará transito
l’uno all’altro; né si faranno sopra la terra alcune operazioni, le
quali eziandio gli spiriti dannati possano laggiú riportare; [anzi,
secondo tengono i santi, gli spiriti maladetti, de’ quali tutto questo
caliginoso aere è pieno, saranno tutti rinchiusi e serrati nel profondo
dello ’nferno.]
«Allor, come di mia». Qui comincia la settima particula di questa
terza parte principale, nella quale l’autore scrive quello che a
messer Farinata dicesse che dicesse a quello spirito caduto, e dice:
«Allor, come di mia colpa compunto», cioè pentuto di ciò che io non
aveva prestamente risposto a messer Cavalcante, che il figliuol vivea;
«Diss’io:—Or dicerete a quel caduto», cioè a messer Cavalcante, «Che
’l suo nato», cioè Guido Cavalcanti, «è tra’ vivi», di questa mortal
vita, «ancor congiunto», e perciò ancora vive; «E s’io fu’ dianzi»,
quando me ne domandò, «alla risposta muto», cioè in quanto tacendo non
gli risposi, «Fat’ei saper che ’l fe’, perché pensava Gia nell’error
che m’avete soluto»,—qui poco di sopra.
«E giá il maestro mio mi richiamava; per ch’io pregai lo spirito», di
messer Farinata, «piú avaccio», piú tosto, «Che mi dicesse chi con lui
stava», in quell’arca.
«Dissemi:—Qui con piú di mille giaccio», quasi voglia dire con
infiniti. «Qua dentro», in quest’arca, «è il secondo Federico».
Questo Federigo fu figliuolo d’Arrigo sesto imperadore e nepote di
Federigo Barbarossa. Il quale Arrigo per introdotto d’alcuni suoi
amici, essendo senza donna, prese con dispensazion della Chiesa per
moglie Gostanza, figliuola che fu del buon re Guglielmo di Cicilia, la
quale era monaca e giá d’etá di cinquantasei anni, ed ébbene in dota
il reame di Cicilia, il quale allora teneva Tancredi (il quale fu de’
discendenti del re Ruggieri, ed era male in concordia con la Chiesa), e
dopo lui rimase ad un suo figliuolo chiamato Guglielmo, contro al quale
andò il detto Arrigo imperadore, e per tradimento il prese, e rimase
libero signor del reame. E della detta Gostanza generò un figliuolo, il
qual fu quel Federigo del qual diciamo. E, morendo la detta Gostanza
pochi anni appresso la nativitá del figliuolo, lui lasciò nelle braccia
e nella guardia della Chiesa, la quale con diligenza l’allevò, e come
ad etá perfetta divenne, gli diede la possessione del reame di Cicilia,
e non passò guari di tempo che, fattolo eleggere, il coronò imperador
di Roma.
Divenne costui maraviglioso uomo e in molte cose eccellente e
virtuoso, ma non durò guari in concordia con la Chiesa, per lo volere
usurpare le ragioni di quella. Poi, venuto in concordia con lei, sí
come ne’ patti della pace par che fosse, fece il passaggio oltre
mare; nel quale essendo occupato, la Chiesa gli fece tutto il reame
di Cicilia ribellare, e, oltre a ciò, scrisse il papa al soldano la
via la qual dovesse tenere a farlo di lá morire. Le quali lettere il
soldano, non per amor che portasse allo ’mperadore, ma per seminar
zinzania e malavoglienza tra lui e la Chiesa, accioché esso potesse piú
sicuro vivere dello stato suo, mostrò allo ’mperadore. Le quali come
egli vide e conobbe, concordatosi col soldano, e sapendo ancora come la
Chiesa gli avea ribellato il reame, occultamente e con poca compagnia
se ne tornò di qua, e fu ricevuto, secondo che alcuni raccontano, in
Benevento, e brievemente in piccolissimo spazio di tempo recuperò tutto
senza alcuna arme il reame suo. E per dispetto della Chiesa mandò a
Tunisi per una gran quantitá di saracini, e diede loro per istanza una
cittá stata lungamente disfatta, chiamata Lucera, comeché i volgari
la chiamino Nocera, nel mezzo quasi di Puglia piana; ed egli per sé
dall’una delle parti, la quale è alquanto piú rilevata che l’altra,
vi fece un mirabile e bello e forte castello, il quale ancora è in
piè. I saracini nel compreso della terra disfatta fecero le lor case,
come ciascun poté meglio; ed essendo il paese ubertoso, volentieri vi
dimorarono, e moltiplicarono in tanta quantitá, che essi correvano
tutta la Puglia, quando voglia ne venía loro. Oltre a ciò, in Lombardia
e in Toscana indebolí forte i sudditi e la parte della Chiesa, e gran
guerra menò loro, e molti danni fece, non lasciando nel suo regno usare
alcuna sua ragione alla Chiesa.
Fu gran litterato, e nella Magna fu reputato da molto, e gl’infedeli
avevan gran paura di lui. Ebbe di diverse femmine piú figliuoli, de’
quali, cosí de’ non legittimi, come de’ legittimi, fece da cinque o
vero sei re. Ed essendogli stato da un suo astrolago predetto che
egli morrebbe in Fiorenza, sempre si guardò di venire in questa
cittá; poi, avvenendo che egli infermò in Puglia, da Manfredi, allora
prenze di Taranto, suo figliuolo naturale, e da altri suoi baroni,
ne fu cosí infermo portato in una terra di Puglia, la quale ha nome
Fiorenza. E quivi, crescendo la ’nfermitá, domandò dove egli fosse;
ed essendogli risposto che egli era in Fiorenza, si dolse forte, e
subitamente si giudicò morto, e cosí disse a’ suoi. Poi, comeché la
infermitá l’aggravasse forte, vogliono alcuni che l’ultima notte che
fece in terra, che ’l prenze Manfredi, per disidèro d’avere il mobile
suo, gli ponesse un primaccio in su la bocca e facessel morire; e cosí
scomunicato e in contumacia di santa Chiesa finí in Fiorenza i giorni
suoi. E percioché egli, vivendo, in assai cose aveva mostrato tenere
che l’anima insieme col corpo morisse, il pone l’autore in questo
luogo esser dannato con gli epicúri, chiamandolo Federigo «secondo»,
percioché fu il secondo imperadore che avesse nome Federigo.
«E ’l cardinale». Par qui che tutti s’accordino che l’autore, il qual
non nomina questo cardinale, voglia intendere del cardinale Ottaviano
degli Ubaldini: e percioché egli fu uomo di singulare eccellenza,
voglia che, dicendo semplicemente «cardinale», s’intenda di lui. Il
quale, secondo che alcuni scrivono, tenne vita piú tosto signorile
che chericile; né fu alcuno altro che tanto fosse e si mostrasse
ghibellino, quanto egli, in tanto che, senza curarsi che papa o
altri se ne avvedesse, fieramente favoreggiò i ghibellini, nemici
della Chiesa. E, avendo, senza guardarsi innanzi, aiutati in ciò che
potuto avea sempre i ghibellini, e in suo bisogno trovandosi da loro
abbandonato, e di ciò dolendosi forte, tra l’altre parole del suo
rammarichío disse:—Se anima è, perduta l’ho per li ghibellini.—Nella
qual parola fu compreso per molti lui non aver creduto che anima
fosse, la qual dopo il corpo vivesse; per la qual cosa l’autore dice
lui con gli altri eretici epicúri essere in questo luogo dannato. «E
degli altri mi taccio»—quasi voglia dire: io te ne potrei molti altri
contare.
«Indi s’ascose». Qui comincia la quarta parte principale del presente
canto, nella quale l’autor dice come, tornato a Virgilio, dove con lui,
seguitandolo, pervenisse. Dice adunque: «Indi», cioè poi che cosí ebbe
detto, «s’ascose», nella sua arca, riponendosi a giacere, «ed io inver’
l’antico poeta volsi i passi», tornandomi a lui, «ripensando A quel
parlar che mi parea nimico», cioè a quel che messer Farinata gli avea
detto («Ma non cinquanta volte fia raccesa», ecc.).
«Elli», cioè Virgilio, «si mosse», veggendo me tornare, «e poi, cosí
andando, Mi disse:—Perché se’ tu si smarrito»?—cioè sbigottito; «Ed
io gli satisfeci al suo dimando», dicendogli quello che del mio dovere
esser cacciato di Firenze aveva udito da messer Farinata.
—«La mente tua conservi quel ch’udito Hai contra te,—mi comandò
quel saggio,—Ed ora attendi qui», a quel ch’io ti vo’ dire, «e drizzò
il dito», quasi disegnando, come fanno coloro che piú vogliono le lor
parole impriemer nello ’ntelletto dell’uditore. «Quando sarai dinanzi
al dolce raggio», cioè alla chiara luce, «Di quella», cioè di Beatrice,
«il cui bell’occhio», cioè il santo e divino intelletto, «tutto vede»,
cioè il preterito, il presente e il futuro; «Da lei saprai di tua vita
il viaggio»,—cioè come ella dee andare e a che riuscire. E vuole in
queste parole Virgilio, per confortar l’autore, mostrare non sempre
dire il vero l’anime de’ dannati delle cose che sono a venire; e per
questo vuole si conforti, quasi dicendo esser possibile non dover cosí
avvenire; ma che, quando sará in cielo, da Beatrice, la quale in Dio
vede la veritá d’ogni cosa, saprá il vero di ciò che avvenir gli dee.
«Appresso volse a man sinistra», piegandosi, «il piede; Lasciammo il
muro», della terra, dilungandocene, «e gimmo inver’ lo mezzo», della
cittá dolente, «Per un sentier ch’ad una valle fiede», cioè riesce,
«Che ’nfin lassú facea spiacer suo lezzo», cioè suo puzzo.
Questo canto non ha allegoria alcuna.

CANTO DECIMOPRIMO
[Lez. XLII]
«In su l’estremitá d’un’alta ripa», ecc. Continuasi l’autore nel
principio di questo canto alla fine del precedente, come è usato infino
a qui di fare, e dimostra dove, seguendo Virgilio, pervenisse; il
quale è di sopra detto che, lasciando il muro della terra, cominciò
ad andar per lo mezzo. E dividesi il presente canto in sette parti:
nella prima discrive il luogo dove pervenuti si fermarono e quel che
vi trovarono; nella seconda discrive l’autore distintamente tutta
la esistenza dello ’nferno, e ancora le qualitá de’ peccatori, le
quali deono, procedendo, trovare; nella terza muove l’autore un
dubbio a Virgilio, perché piú i peccatori, che ne’ seguenti cerchi
sono, sieno puniti dentro alla cittá di Dite, che quegli de’ quali di
sopra ha parlato; nella quarta Virgilio, dimostrandogli la cagione,
gli solve il dubbio; nella quinta muove l’autore un altro dubbio a
Virgilio; nella sesta Virgilio solve il dubbio mossogli; nella settima
Virgilio sollecita l’autore a seguitarlo. E comincia la seconda quivi:
«Lo nostro scender»; la terza quivi: «Ed io:—Maestro»; la quarta
quivi: «Ed egli a me»; la quinta quivi:—«O sol, che sani»; la sesta
quivi:—«Filosofia»; la settima quivi: «Ma seguimi oramai». Cominciando
adunque alla prima, dice che pervennero, andando come nella fine del
precedente canto ha detto, «In su l’estremitá d’un’alta ripa». «Ripa»
è, o artificiale o naturale ch’ella sia, o terreno o pietre, la quale
da alcuna altezza discenda al basso, sí diritta che o non presti, o
presti con difficultá la scesa per sé di quell’altezza al luogo nel
quale essa discende, sí come in assai parti si vede ne’ luoghi montuosi
naturalmente essere, o come per fortificamento delle castella e delle
cittá gli uomini artificiosamente fanno. E poi séguita: «Che», questa
alta ripa, «facevan gran pietre rotte in cerchio», e però appare che
non artificialmente fatta, ma per accidente era ruinata; ed erano le
pietre «rotte in cerchio», per la qualitá del luogo ch’è ritondo, sí
come piú volte è stato dimostrato; «Venimmo» dopo l’essere alquanto
andati, «sopra piú crudele stipa». Intende qui l’autore per «stipa» le
cose stipate, cioè accumulatamente poste, sí come i naviganti le molte
cose poste ne’ lor legni dicono «stivate»; e da questo modo di parlare
prendendo l’autore qui forma, vuol che s’intenda che, sotto il luogo
dove pervennero, erano stivate grandissime moltitudini di peccatori, in
piú crudel pena che quegli li quali infino a quel luogo veduti avea. «E
quivi per l’orribile soverchio Del puzzo che ’l profondo abisso», cioè
inferno, «gitta», svaporando in su, «Ci raccostammo indietro», accioché
men lo sentissimo che standovi dirittamente sopra; e dice s’accostarono
«ad un coperchio D’un grand’avello», percioché ancora erano nel
cerchio degli eretici, li quali di sopra mostra essere seppelliti in
grandissime sepolture ardenti; «ove», cioè al quale avello, «io vidi
una scritta», sí come veder si suole nelle sepolture; «Che diceva:
’Anastasio papa guardo’», quasi l’avello parlasse in dimostrazione di
chi in lui era seppellito; «Lo qual», Anastasio, «trasse Fotin della
via dritta».—Dove è da sapere che questo Anastasio fu di nazione
romano, e figliuol d’uno il qual fu chiamato Fortunato, e negli anni
di Cristo quattrocentonovantanove fu eletto papa, ma poco tempo visse
nel papato; e avendo costui singulare famigliaritá con uno il quale fu
chiamato Fotino, e che primieramente era stato diacono di Tessaglia
e poi fu fatto vescovo di Gallo-Grecia, una contrada in Asia molto
rimota dal mare, fu adunque da questo Fotino corrotto e tratto della
cattolica fede, e cadde in una abbominevole eresia, della quale era
stato inventore e seminatore uno chiamato Acazio, singulare amico di
Fotino. Ed era la eresia questa: che questo Acazio affermava Cristo non
essere stato figliuol di Dio, ma di Giuseppo, e ch’esso carnalmente
giacendo con la Vergine Maria l’aveva acquistato; e cosí non era vero
che la Vergine Maria fosse vergine innanzi il parto e dopo il parto,
come i cattolici cristiani fermamente credono. Per la quale eresia il
detto Fotino fu dannato e rimosso dalla comunione de’ cristiani. E,
volendolo questo papa Anastasio riducere nella comunione cristiana,
essendosi contro a ciò levati molti santi padri, e a questo resistendo;
avvenne che, essendo il detto papa durato giá un anno e undici mesi e
ventitré dí, andato al segreto luogo dove le superfluitá del ventre si
dipongono, per divino giudicio, sí come per tutti universalmente si
credette, per le parti inferiori gittò e mandò fuori del corpo tutte le
interiora, e cosí miseramente nel luogo medesimo spirò. E per questo
l’autore estima lui essere stato eretico di quella eresia che detta è,
e perciò qui dimostra tra gli altri eretici esser dannato, dicendo lui
essere stato da Fotino predetto tratto della «via diritta», cioè della
fede cattolica, dalla quale n’è mostrato, e, credendola, siam menati
per la diritta via, la quale ne perduce in vita eterna.
«Lo nostro scender convien». Qui comincia la seconda parte di questo
canto, nella quale l’autore discrive distintamente la esistenza dello
’nferno, e ancora la qualitá de’ peccatori, li quali deono, procedendo,
trovare; e dice: «Lo nostro scender», alle parti inferiori, «convien
che sia tardo», cioè adagio; e dimostra la ragion perché, dicendo:
«Sí che s’aúsi in prima», che noi vi giugniamo, «un poco il senso»,
dell’odorato, «Al tristo fiato», cioè puzzo, «e poi» che adusato sará
alquanto, «non fia riguardo»,—cioè non bisognerá di molto curarsene,
«_quia assuetis non fit passio_». E nel vero e’ si vuole a cosí fatte
cose andar con discrezione, percioché assai giá hanno gravissime
alterazioni ricevute per lo entrar subito in luoghi o molto odoriferi
o molto fetidi; percioché l’uno e l’altro offende il cerebro forte,
quando il senso di colui che entra in essi non è familiare o degli
odori o de’ puzzi.
«Cosí il maestro», (_supple_), disse; «ed io:—Alcun compenso—Dissi
lui—truova, che ’l tempo non passi Perduto». Questo fu ottimamente
detto, e in ciò ciascuno dovrebbe a suo potere dare opera, cioè di non
perder tempo, percioché, secondo che a Seneca piace, di quante cose
noi abbiamo nella presente vita, solo il tempo è nostro, tutte l’altre
cose sono della fortuna; e perciò con gran sollecitudine dobbiamo
adoperare che egli non ci passi tra le mani perduto. «Ed egli»,
rispuose:—«Vedi ch’a ciò penso». Nelle quali parole si può comprendere
la circunspezione del savio uomo, il quale mai alle cose opportune non
aspetta d’esser sollecitato: e, fattagli la risposta, tantosto séguita
quello che nel pensiero gli è venuto di fare, per non dover perder
tempo, e dice:
«Figliuol mio, dentro da cotesti sassi»,—li quali tu puoi veder di
sotto da te, «Cominciò poi a dir,—son tre cerchietti», cioè il settimo
e l’ottavo e il nono: e chiamali «cerchietti», percioché sono di
circúito piccoli a rispetto di quegli di sopra: «Di grado in grado»,
cioè, discendendo, l’uno appresso l’altro si trovano, «come» trovati
hai «quei che lassi», di sopra da noi. «Tutti», questi tre cerchietti,
«son pien di spirti maladetti», cioè dannati; «Ma, perché poi ti basti
pur la vista», cioè il vedergli, quando ad essi perverremo, «Intendi
come e perché son costretti», gli spirti maladetti che dentro vi sono.
«D’ogni malizia ch’odio in cielo acquista». Malizia è di due maniere:
o è malizia corporale, o è malizia mentale. Malizia corporale è quella
la quale noi generalmente chiamiamo «infermitá o difetto di corpo»;
e questa può essere ancora nelle cose insensibili, quando in esse
naturalmente è alcun difetto, sí come alcuna volta è in uno albero,
il quale nasce torto o noderoso, o con alcuna altra cosa meritamente
biasimevole, secondo la sua qualitá. O è malizia d’anima, la qual
propriamente è perversitá di pensiero e di disiderio che nelle nostre
anime sia; e questa è pessima spezie di malizia, percioché d’essa mai
altro che male non nasce, né può nascere. E perciò l’autore mostra
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