Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - 10

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umano, e, percioché essi quello ingiustamente versarono, vuole la
divina giustizia che in esso tuffati piangano; e, percioché essi furono
a questa malvagia operazion ferventissimi, vuol similmente la giustizia
che per maggior fervore, cioè per lo bollir del sangue, sia in eterno
punito il loro: e, oltre a ciò, percioché queste violenze far non si
possono senza la forza di certi ministri, sí come sono masnadieri e
soldati e i seguaci de’ potenti uomini, gli fa la giustizia saettare
a questi cotali, stati nella presente vita loro ministri ed esecutori
de’ loro scellerati comandamenti, li quali l’autore intende per li
centauri: [de’ quali, peroché nella esposizion letterale alcuna cosa
non se ne disse, è qui da vedere un poco piú distesamente.]
[È dunque da sapere che in Tessaglia fu giá un grande uomo chiamato
Issione, figliuolo di Flegiás, del quale di sopra si disse; e costui,
secondo le poetiche favole, fu di grazia da Giove ricevuto in cielo,
e quivi fu fatto da lui segretario di lui e di Giunone. Laonde
egli insuperbito per l’oficio, il quale era grande, ebbe ardire di
richiedere Giunone di giacer con esso lei; la quale, dolutasi di ciò
a Giove, per comandamento di lui adornò in forma e similitudine di
sé una nuvola, e quella in luogo di sé concedette ad Issione, non
altrimenti che se sé medesima gli concedesse: il quale, giacendo con
questa nuvola, generò in lei i centauri. Ed essendo poi da Giove,
sdegnato della sua presunzione, gittato del cielo e in terra venutone,
ardí di gloriarsi appo gli uomini che esso era giaciuto con Giunone:
per la qual cosa turbato Giove il fulminò e mandonnello in inferno,
e quivi con molti e crudeli serpenti il fece legare ad una ruota, la
quale sempre si volge. L’allegoria della qual favola se attentamente
riguarderemo, assai bene cognosceremo che cosa sieno gli appetiti del
tiranno, e il tiranno, o di qualunque altro rapace uomo, ancoraché
tiranno chiamato non sia, e che cosa i centauri, e come essi il tiranno
saettino.]
[Fu adunque, secondo le istorie de’ greci, Issione oltre modo
disideroso d’occupare e possedere alcun regno, in tanto che egli si
sforzò d’ottenerlo per tirannia. Ora, come altra volta è detto, Giuno
intendono alcuna volta i poeti per lo elemento dell’aere, e alcuna
volta la ’ntendono per la terra, volendo lei ancora essere reina e dea
de’ regni e delle ricchezze; la quale, quando per la terra s’intende e
i regni li quali sono in terra, pare che mostrino avere in sé alquanto
di stabilitá; quinci intendendosi per aere, il quale è lucido, pare che
essa aggiunga a’ reami terreni alcuno splendore, il quale nondimeno è
fuggitivo e quasi vano, e leggiermente, si come l’aere, si converte in
tenebre. Oltre a ciò, la nuvola si crea nell’aere per operazion del
sole, de’ vapori dell’acqua e della terra umida surgenti e condensati
nell’aere; ed è la nuvola, cosí condensata, di sua natura caliginosa
al viso sensibile, e non si può prendere con mano, né è ancora da
alcuna radice fermata, e per questo leggiermente da qualunque vento è
in qua e in lá trasportata e impulsa, e alla fine o è dal calore del
sole risoluta in aere, o dal freddo dell’aere convertita in piova.
Che adunque vuol dire? Non dobbiamo per la nuvola, quantunque infra’
termini della deitá di Giunone creata sia, intendere regno, ma, in
quanto ella è in similitudine di Giunone apposta ad alcuno, diremo
per quella doversi intendere quello che violentemente in terra si
possiede; alla qual cosa è alcuna similitudine di regno, in quanto
colui, che violentemente possiede, signoreggia i suoi sudditi, come
il vero re i suoi; e cosí pare, mentre le forze gli bastano, che esso
comandi e sia ubbidito da’ suoi come è il re. Ma, si come tra ’l chiaro
aere e la condensata nuvola è grandissima differenza, cosí è intra
’l re e ’l tiranno: l’aere è risplendente e cosí è il nome reale,
la nuvola è oscura e cosí è caliginosa la tirannia; il nome del re
è amabile, e quello del tiranno è odibile. Il re sale sopra il real
trono ornato degli ornamenti reali, e il tiranno occupa la signoria
intorniato d’orribili armi; il re per la quiete e per la letizia de’
sudditi regna, e il tiranno per lo sangue e per la miseria de’ sudditi
signoreggia; il re con ogn’ingegno e vigilanza cerca l’accrescimento
de’ suoi fedeli, e il tiranno per lo disertamento altrui procura
d’accrescere se medesimo; il re si riposa nel seno de’ suoi amici, e il
tiranno, cacciati da sé gli amici e i fratelli e’ parenti, pone l’anima
sua nelle mani de’ masnadieri e degli scellerati uomini. Per le quali
cose, sí come apparisce, diversissimi sono intra sé questi due nomi
e gli effetti di quegli; e perciò il re meritamente si può intendere
per l’aere splendido, ed essere con lui congiunta alcuna stabilitá,
se alcuna cosa si può dire stabile fra queste cose caduche; dove il
tiranno, per rispetto della real chiaritá, si può dir nuvola, alla
quale niuna stabilitá è congiunta, e perciò ancora che agevolmente si
risolve, o dal furore de’ sudditi o dalla negligenza degli amici.]
[Premesse adunque queste cose, leggermente quello che i poeti nella
finzion della favola d’Issione si potrá vedere. Dice la favola che
Issione fu assunto in cielo: nel qual noi allora ci possiam dire
essere ricevuti, quando noi con l’animo contempliamo le cose eccelse,
sí come sono le porpore e le corone de’ re, gli splendori egregi,
la esimia gloria, la non vinta potenza e i comodi de’ re, li quali,
secondo il giudicio degli stolti, sono infiniti; né indebitamente
paiono fatti segretari di Giove e di Giunone, quando quello, che a
loro appartiene, noi con presuntuoso animo riguardiamo; e allora siamo
tirati nel disiderio di giacere con Giunone, quando noi estimiamo
queste preeminenze reali essere altro che elle non sono; e allora
Issione richiede Giunone di giacer seco, quando, non procedente alcuna
ragione, il privato uomo ogni sua forza dispone per essere d’alcuno
regno signore. Ma che avviene a questo cotale? È apposta allora la
nuvola, avente la similitudine di Giunone: del congiugnimento de’ quali
incontanente nascono i centauri, li quali furono uomini d’arme, di
superbo animo e senza alcuna temperanza, e inchinevoli ad ogni male, sí
come noi veggiamo essere i masnadieri e’ soldati e gli altri ministri
delle scellerate cose, alle forze e alla fede de’ quali incontanente
ricorre colui il quale tirannescamente occupa alcun paese.]
[E dicono alcuni in singularitá di questi, li quali le favole dicono
essere stati generati da Issione, che essi furono nobili cavalieri di
Tessaglia, e i primi li quali domarono e infrenarono e cavalcarono
cavalli. E percioché cento ne ragunò Issione insieme, furono chiamati
«centauri», quasi «cento armati» o «cento Marti», percioché «inarios»
in greco viene a dire «Marte» in latino; ovvero piú tosto «cento
aure», percioché, sí come il vento velocemente vola, cosí costoro
sopra i cavalli velocemente correvano: ma questa etimologia è piú
tosto adattata a vocaboli latini che a grechi, e, quantunque ella paia
potersi tollerare, non credo però i greci avere questo sentimento del
nome de’ centauri.]
[E, percioché essi sono figurati mezzi uomini e mezzi cavalli,
racconta di loro Servio una cotal favola, in dimostrazione donde ciò
avesse principio; e dice che, essendo certi buoi d’un re di Tessaglia
fieramente stimolati da mosconi, e per questo essersi messi in fuga,
il detto re comandò a certi suoi uomini d’arme gli seguitassero; li
quali, non potendo appiè correre quanto i buoi, saliti a cavallo, e
giuntigli, gli volsono indietro, e abbeverando essi i lor cavalli nel
fiume di Peneo; e tenendo i cavalli le teste chinate nel fiume, furono
da quelli della contrada veduti solamente la persona dell’uomo e la
parte posteriore de’ cavalli; e da que’ cotali, li quali non erano usi
di ciò vedere, furono stimati essere uno animal solo, mezzo uomo e
mezzo cavallo; e dal rapportamento di questi trovò luogo la favola e la
figurazion di costoro.]
[Ma, tornando alla cagione della loro origine, sono detti costoro
essere nati d’Issione, cioè del tiranno e d’una nuvola, cioè delle
sustanze del regno ombratile, come di sopra per la nuvola disegnarsi
mostrammo; le quali sustanze sono i beni de’ sudditi, de’ quali
si mungono e traggono gli stipendi, de’ quali i soldati in loro
disfacimento e oppressione sono nutriti e sostenuti. E cosí per le
dette cose si può comprender del tiranno, il quale da se medesimo è
impotente, e della tirannia occupata, nascere i soldati, cioè essere
convocati dal tiranno in difesa di sé, accioché con la forza di questi
cotali soldati, essi possan fare, come veggiamo che fanno, le violenze
e le ingiurie a’ sudditi, delle quali essi soldati le piú delle volte
sono ministri e facitori:] e perciò vuole la divina giustizia che, cosí
come costoro furono strumento alle malvagie opere de’ tiranni, cosí
sieno alla lor punizione.
Potrebbesi ancor dire che l’autor avesse voluto intendere, per
gli stimoli delle saette de’ centauri ne’ violenti, s’intendessero
le sollecitudini continue de’ tiranni, le quali si può credere che
abbiano, sí per la non certa fede di cosí fatta gente, e sí ancora per
l’avere a trovar modo donde venga di che pagarli; e ancora intorno al
tenergli sí corti, che essi [non possano o] non facciano, ne’ sudditi
suoi, quello che esso solo vuol fare: e questo è faticoso molto. Ma,
comeché nella presente vita si sia, nell’altra si dee intendere le
saette, da questi centauri saettate ne’ violenti, essere l’amaritudine
della continua ricordazione, la quale hanno delle disoneste e malvagie
opere, le quali giá fecero con la forza della gente dell’arme; e cosí
coloro, nella cui fede vivendo si misero, nelle cui forze si fidarono,
con le mani de’ quali versarono il sangue del prossimo, rubarono
le sustanze temporali, occuparono la libertá, sono stimolatori,
tormentatori e faticatori delle loro anime nella perdizione eterna.

CANTO DECIMOTERZO
I
SENSO LETTERALE
[Lez. XLIX]
«Non era ancor di lá Nesso arrivato», ecc. Assai leggiermente si vede
qui la continuazione del presente canto col precedente: in quanto nella
fine del precedente dice che, avendo Nesso mostratogli quali fossero
alquanti di quegli che nel sangue bollivano, indietro se ne ritornò e
ripassossi il guazzo; e nel principio di questo mostra come essi, non
essendo ancora Nesso dall’altra parte del fiume, entrano per un bosco,
della qualitá del quale esso procedendo dimostra. E dividesi questo
canto in quattro parti: nella prima dimostra la qualitá del bosco, nel
quale dice che entrarono; nella seconda dimostra una ammirazione, la
quale ebbe l’autore e dalla quale per lo ammaestramento di Virgilio
si solvette, e parla con uno spirito il quale gli manifesta chi egli
è, e come quivi e perché in piante salvatiche mutati sieno; nella
terza dimostra una spezie di tormenti strana dalla primiera, data a
certi peccatori, le cui colpe non furono con quelle medesime de’ primi
equali; nella quarta dimostra per le parole d’uno spirito che spezie
di tormentati sieno questi nuovi, e chi fosse lo spirito che parla.
La seconda comincia quivi: «E ’l buon maestro»; la terza quivi: «Noi
eravamo»; la quarta quivi: «Quando ’l maestro».
Dice adunque: «Non era ancor di lá», cioè all’altra riva del fiume,
«Nesso arrivato, Quando noi ci mettemmo per un bosco, Che da nessun
sentiero era segnato». E per questo si può comprendere il bosco dovere
essere stato salvatico e per conseguente orribile, poiché alcuna gente
non andava per esso; peroché, se alcuni per esso andati fossero, era di
necessitá il bosco avere alcun sentiere. [E chiamansi «sentieri» certi
viottoli, li quali sono per li luoghi salvatichi, _per antiphrasim_,
quasi dica «sentiere», cioè pieno di spine e di stecchi, li quali in
latino sono chiamati «_sentes_», conciosiacosaché in essi sentieri
alcuno stecco non sia; o vogliam pur dire che si chiamin «sentieri»
dirittamente, percioché in essi sieno stecchi e pruni, conciosiacosaché
tra’ luoghi spinosi sieno, e non paia quegli potere esser senza stecchi
e spine.]
«Non fronda verde, ma di color fosco», cioè nero, era in questo bosco;
e questa è l’altra cosa per la quale vuole l’autore si comprenda
questo bosco essere spaventevole, cioè dal color delle frondi, il
quale il dimostra oscuro e tenebroso: «Non rami schietti, ma nodosi e
’nvolti»; alla qual cosa appare non essere in esso alcuno cultivatore o
abitatore, per lo quale essendo il bosco rimondo e governato, fossero
i rami andati diritti e schietti; «Non pomi v’eran, ma stecchi con
tosco», cioè velenosi, e questo ancora dá piú piena chiarezza della
salvatica qualitá del bosco.
Le quali cose quantunque assai dimostrino della miserabile essenza
d’esso, nondimeno, per dimostrarlo ancora piú odioso, induce due
dimostrazioni: e l’una mostra da certe selve molto solinghe e piene
di fiere salvatiche, conosciute dagl’italiani; e l’altra mostra dalla
qualitá degli uccelli che in esso bosco nidificano. E dice: «Non han sí
aspri sterpi, né sí folti», cioè sí spessi, «Quelle fiere selvagge»,
le quali stanno nelle selve poste tra’ due confini, li quali appresso
disegna; «che ’n odio hanno Tra Cecina e Corneto i luoghi colti», cioè
lavorati.
Hanno le fiere salvatiche i luoghi lavorati ed espediti in odio,
in quanto gli fuggono, percioché né vi truovano pastura come nelle
selve, né gli truovano atti alle loro latebre, né sicuri come le
selve; o hannogli in odio, in quanto talvolta, uscendo delle selve, e
vegnendo ne’ luoghi colti, tutti gli guastano, come massimamente fanno
i cinghiari. E dice «tra Cecina e Corneto», percioché tra queste due
ha d’oscure e pericolose selve e solitudini, e massimamente sopra un
braccio d’Appennino, il quale si stende verso il mezzodí insino nel
mare Tireno, il quale i moderni chiamano il monte Argentale, nel quale
appare che giá in assai parti abitato fosse, ove del tutto è oggi
quasi abbandonato. E non solamente in questo monte, ma per le pianure
tra’ due predetti termini poste, ha selve antiche e spaventevoli,
nelle quali dice l’autore non essere «sí aspri sterpi», percioché
sono spinosi come sono i pruni, e altre piante ancora piú pericolose
ch’e’ pruni: e i due termini, tra’ quali dice esser queste selve cosí
orribili, sono Cecina e Corneto. È Cecina un fiume di non gran fatto,
il qual corre a piè o vicino di Volterra, dal qual pare si cominci
quella parte di Maremma che piú è salvatica; e l’altro è Corneto, il
quale è un castello alla marina, non molte miglia lontano a Viterbo, il
quale alcun credono che giá fosse chiamato Corito, e fosse la cittá del
padre di Dardano, re di Troia.
Appresso, mostrata l’una cosa, per la quale ne vuol dare ad intendere
il bosco, nel quale entrato è, essere oscuro e malagevole, ne mostra
l’altra, quella discrivendo dalla qualitá degli uccelli che in esso
fanno i lor nidi; e dice: «Quivi», cioè in quel bosco, «le brutte arpie
lor nido fanno»; e, accioché d’altra spezie d’uccelli non intendessimo,
ne scrive di quali arpie voglia dire, e dice esser di quelle «Che
cacciâr delle Strofade i troiani Con tristo annunzio di futuro danno».
E, accioché meglio per la lor forma conosciute sieno, discrive come
sien fatte, dicendo che queste arpie «Ale hanno late, e colli e visi
umani, Piè con artigli e pennuto ’l gran ventre; Fanno lamenti in su
gli alberi strani», di quel bosco, li quali chiama «strani», percioché
son d’altra forma che i nostri dimestichi, come di sopra è dimostrato.
Ma, avanti che piú si proceda, è da vedere quel che voglia dire che i
troiani fossero cacciati da questi uccelli delle Strofade. Ad evidenza
della qual cosa è da sapere che, partito Enea da Creti e venendo
verso Italia, pervenne ad isole le quali sono nel mare Ionio chiamate
Strofade; e in quelle co’ suoi disceso, e trovatovi bestiame assai,
e fattone uccidere e cuocere, avvenne che, mangiando, sopravvennero
uccelli, li quali sono chiamati «arpie», li quali rapivano i cibi posti
davanti ad Enea e a’ suoi; e non solamente gli rapivano, ma ancora
bruttavano sí quegli li quali toccavano, che egli erano in abominazione
a coloro che gli vedevano: per la qual cosa Enea comandò che con le
spade in mano fossero cacciate via. Per la qual cosa una di loro,
chiamata Celeno, postasi sopra un alto albero, sopra di loro disse:
—Voi, troiani, per l’averne uccisi i buoi nostri, ci movete anche
guerra, e volete della loro patria cacciare l’arpie: ma io, secondo che
io ho da Apollo, v’annunzio che non vi fia conceduto prima di potere in
Italia comporre alcuna cittá, che per vendetta dell’ingiuria, la quale
n’avete fatta, voi sarete da sí crudel fame costretti, che per quella
voi mangerete le mense vostre.—Col quale «tristo annunzio di futuro
danno», Enea, quasi cacciato, si partí di quelle isole, verso Italia
navicando. E sono quelle isole, le quali solevano essere nominate
Plote, però chiamate Strofade, percioché insino a quelle furono le
dette arpie, essendo state cacciate dalla mensa di Fineo, re d’Arcadia,
seguite da Zeto e d’Achelai; e, percioché essi quivi, per comandamento,
fecero fine alla caccia e tornaronsi indietro, sono l’isole chiamate
Strofade, il qual nome suona in latino «conversione». Di queste arpie
si dirà alquanto piú distesamente, lá dove il senso allegorico del
presente canto si dimostrerá.
E cosí avendo per molte cose l’autor dimostrata la qualitá di questo
bosco, séguita: «E ’l buon maestro»; dove comincia la seconda parte
di questo canto, nella quale l’autore scrive un’ammirazione la quale
ebbe, e dalla quale per lo ammaestramento di Virgilio si solvette; e
parla con uno spirito, il quale gli manifesta chi egli è, e come quivi
e perché in piante salvatiche mutati sieno. E dividesi questa parte in
nove: nella prima Virgilio gli dimostra in qual girone egli è; nella
seconda si maraviglia l’autore d’udir trar guai e non vede da cui;
nella terza Virgilio gli mostra come da questa maraviglia si solva;
nella quarta l’autore fa quello che Virgilio gli dice; nella quinta
lo spirito schiantato si rammarica; nella sesta Virgilio il consola e
domandalo chi egli è; nella settima lo spirito dice chi egli è; nella
ottava il domanda Virgilio come in quelle piante si leghino e se alcuna
se ne scioglie mai; nella nona lo spirito risponde alla domanda. La
seconda comincia quivi: «Io sentia»; la terza quivi: «Però disse»; la
quarta quivi: «Allor porsi»; la quinta quivi: «E ’l tronco suo»; la
sesta quivi: «S’egli avesse»; la settima quivi: «E ’l tronco:—Si»; la
ottava quivi: «Però ricominciò»; la nona quivi: «Allor soffiò».
Dice adunque: «E ’l buon maestro», disse:—«Avanti che piú entre»,
infra questo bosco, «Sappi che se’ nel secondo girone»,—cioè nella
seconda parte del settimo cerchio, nel quale si punisce la seconda
spezie de’ violenti, cioè coloro li quali o se medesimi uccisero, o li
lor beni mattamente [disparsero e] dissiparono; «Mi cominciò a dire,—e
sarai, mentre Che tu verrai nell’orribil sabbione», sopra ’l quale si
punisce la terza spezie de’ violenti; «Però riguarda bene, e sí vedrai
Cose che torrien fede al mio sermone», se tu non le vedessi; e ciò sono
gli spiriti essere divenuti piante silvestri e in quelle piagnere e
dolersi.
Per le quali parole l’autore divenuto piú attento, dice: «Io sentia
d’ogni parte». Qui comincia la seconda parte della parte seconda
principale di questo canto, nella quale l’autore si maraviglia d’udire
trar guai, e non vedere da cui; e però dice: «Io sentia d’ogni parte»,
di quel bosco, «trarre guai, E non vedea persona che ’l facesse,
Per ch’io tutto smarrito m’arrestai». E questo smarrimento avvenne,
percioché immaginar non potea che i guai, li quali udiva, uscissono
di que’ bronchi, li quali vedea. E quinci scrive quello che estimò
che Virgilio credesse, quando si mosse ad aprirgli donde quegli
guai venivano, dicendo: «Io credo ch’ei credette», Virgilio, «ch’io
credesse, Che tante voci», dolorose, «uscisser tra que’ bronchi. Da
gente che per noi si nascondesse».
«Però disse il maestro». Qui comincia la terza parte della seconda
principale di questo canto, nella quale Virgilio gli mostra, come da
questa maraviglia si solva, e dice: «Però disse il maestro» (per lo
credere che esso credesse ecc.):—«Se tu tronchi Qualche fraschetta
d’una d’este piante, Li pensier c’hai», cioè che quegli che traggono i
guai, li quali tu odi, sian gente che per noi si nasconda; «si faran
tutti monchi», cioè senza alcun valore, sí come è il membro monco, cioè
invalido e impotente ad alcuna operazione.
«Allor». Qui comincia la quarta parte della parte seconda di questo
canto, nella quale l’autore fa ciò che Virgilio gli dice, e però segue:
«Allor», mosso dal consiglio di Virgilio, «porsi la mano un po’ avante,
E colsi un ramicel da un gran pruno». Chiamal «pruno», percioché era,
come di sopra ha mostrato, pieno di stecchi.
«E ’l tronco suo». Qui comincia la quinta parte della parte seconda
di questo canto, nella quale lo spirito schiantato si rammarica; e
però dice: «E ’l tronco suo», cioè quel pruno, donde còlto avea, o
ver troncato il ramuscello; o, secondo che spongono altri, il tronco
suo, cioè quella particella tronca da quel gran pruno; «gridò:—Perché
mi schiante?».—E queste parole paiono assai dimostrare la parte
schiantata esser quella che parlò, e non quella donde fu schiantata,
comeché appresso paia pure aver parlato e parlare il pruno. «Da che
fatto fu poi di sangue bruno», cioè tinto, il quale usciva del pruno,
per quella parte donde era stato schiantato il ramuscello: «Ricominciò
a gridar:—Perché mi scerpi? Non hai tu spirto di pietade alcuno?».
Quasi voglia qui l’autore mostrare avere i dannati compassione l’uno
delle pene dell’altro; e questo mostra, in quanto questo pruno non
sapeva che l’autor fosse piú uomo che spirito. Poi segue e mostragli
nelle sue parole perché di lui doveva avere alcuna pietá, dicendo:
«Uomini fummo», nell’altra vita, «ed or siam fatti sterpi», in questa;
«Ben dovrebb’esser la tua man piú pia», in ritenersi di non avermi
schiantato, «Se stati fossimo anime di serpi», le quali, peroché
crudeli animali sono, forse parrebbe che meritato avessero che verso
loro non s’usasse alcuna pietá.
Appresso queste parole del pruno, per una comparazion dimostra in che
maniera le parole uscissero di questo pruno, e dice: «Come d’un stizzo
verde, ch’arso sia Dall’un de’ capi, che dall’altro», capo, «geme»,
acqua, come spesse volte veggiamo; e non solamente geme acqua, ma
ancora cigola, cioè fa un sottile stridore, quasi a modo d’un sufolare:
«E cigola per vento che va via».
Egli è vero che ogni animale vegetativo in nudrimento di sé attrae con
le sue radici quella parte d’ogni elemento che gli bisogna; e perciò
quella parte, che trae dal fuoco e dalla terra, consiste nella soliditá
del legno; e, senza alcun sentore, ardendo il legno, si riprende il
fuoco quello che di lui è nel legno, e similmente quello, che v’è
terreo, converte in terra. Ma dell’umido e dell’aere non avvien cosí,
percioché, essendo l’umido, si come da suo contrario, cacciato dal
fuoco, ricorre a quella parte donde noi il veggiamo uscire, e per li
pori del legno ne geme fuori. Ma questa umiditá non fa nel suo uscire
fuori alcun romore: l’aere, ancora per non esser dal fuoco risoluto,
gli fugge innanzi, e, quando tiene la via che fa l’umido, volendo tutto
insieme esalare, e trovando i pori stretti, uscendo per la strettezza
di quelli, fa col suo impeto quello stridore o «cigolare» che dir
vogliamo; e, convertito dall’impeto in vento, va via.
Dice adunque che «Cosí di quella scheggia», cioè di quel legno, «usciva
insieme, Parole e sangue», come dello stizzo acqua e vento; «ond’io
lasciai la cima», cioè il ramuscello che schiantato avea, «Cadere, e
stetti come l’uom che teme», parendogli aver fatto men che bene. Ma
Virgilio, vedendolo spaventato, supplí prestamente quanto bisognava, e
a sodisfare all’offeso e a rassicurar l’autore, dicendo:
—«S’egli avesse». Qui comincia la sesta parte di questa seconda parte
principale, nella quale Virgilio il consola, e domandalo chi egli è.
Dice adunque:—«S’egli avesse potuto creder prima», che egli avesse
schiantato questo ramuscello—«Rispose il duca mio,—anima lesa», cioè
offesa, «Ciò c’ha veduto», con lo schiantare il ramuscello, «pur con
la mia rima», cioè con le parole mie sole: e vuolsi questa lettera
cosí ordinare: «Il duca mio rispose.—O anima lesa, se egli avesse
prima potuto pur con la mia rima credere ciò che ha veduto, Non avrebbe
egli in te la man distesa», a cogliere il ramuscello: «Ma la cosa
incredibile», cioè che di voi uscissero i guai, li quali esso sentiva,
«mi fece Indurlo ad ovra, ch’a me stesso pesa», cioè a schiantare quel
ramo dalla tua pianta. «Ma digli chi tu fosti, sí che, invece», cioè
in luogo, «D’alcuna ammenda», all’offesa la qual fatta t’ha, «tua fama
rinfreschi», cioè rinnuovi, col dire alcuna cosa laudevole di te, «Nel
mondo sú, dove tornar gli lece»,—cioè è lecito, sí come ad uomo che
ancora vive e non è dannato.
«E ’l tronco:—Sí». Qui comincia la settima parte della seconda
principale di questo canto, nella quale lo spirito dice chi egli è, e
però comincia: «E ’l tronco:—Sí col dolce dir», cioè con la soavitá
delle tue parole, «m’adeschi», cioè mi pigli, e spezialmente in quanto
m’imprometti di rinfrescar la fama mia nel mondo. «Ch’io non posso
tacere», che io non ti manifesti quello di che tu mi domandi; e però «e
voi non gravi», cioè non vi sia noioso, «Perch’io un poco a ragionar
m’inveschi», cioè mi distenda, mostrandovi quello, per che meritamente
potrá rinfrescare la fama mia.
«Io son colui che tenni ambo le chiavi». Qui dimostra lo spirito
chi egli è, ma nol dichiara per lo propio nome, ma per alcuna
circunlocuzione, nella quale egli intende di dimostrare la preeminenza
la quale ebbe in questa vita, e, oltre a ciò, la cagione che da quella
il togliesse, e fosse cagione della sua morte; e ancora dimostra
la innocenza sua, credendo per questa circunlocuzione essere assai
ben conosciuto. E però, accioché con men fatica s’intenda questa
sua circunlocuzione, è da sapere che costui fu maestro Piero dalle
Vigne della cittá di Capova, uomo di nazione assai umile, ma d’alto
sentimento e d’ingegno; e fu ne’ suoi tempi reputato maraviglioso
dettatore, e ancora stanno molte delle pistole sue, per le quali appare
quanto in ciò artificioso fosse; e per questa sua scienza fu assunto
in cancelliere dell’imperador Federigo secondo, appo il quale con la
sua astuzia in tanta grazia divenne, che alcun segreto dello ’mperadore
celato non gli era, né quasi alcuna cosa, quantunque ponderosa e
grande fosse, senza il suo consiglio si deliberava; per che del tutto
assai poteva apparire costui tanto potere dello ’mperadore, che nel
suo voler fosse il sí e il no di ciascuna cosa. Per la qual cosa gli
era da molti baroni e grandi uomini portata fiera invidia; e, stando
essi continuamente attenti e solleciti a poter far cosa, per la quale
di questo suo grande stato il gittassero, avvenne, secondo che alcuni
dicono, che avendo Federigo guerra con la Chiesa, essi, con lettere
false e con testimoni subornati, diedero a vedere allo ’mperadore
questo maestro Piero aver col papa certo occulto trattato contro allo
stato dello ’mperadore, e avergli ancora alcun segreto dello ’mperadore
rivelato. E fu questa cosa con tanto ordine e con tanta e sí efficace
dimostrazione fatta dagl’invidi vedere allo ’mperadore, che esso vi
prestò fede, e fece prendere il detto maestro Pietro e metterlo in
prigione: e, non valendogli alcuna scusa, fu alcuna volta nell’animo
dello ’mperadore di farlo morire. Poi, o che egli non pienamente
credesse quello che contro al detto maestro Piero detto gli era, o
altra cagione che ’l movesse, diliberò di non farlo morire, ma, fattolo
abbacinare, il mandò via. Maestro Piero, perduta la grazia del suo
signore, e cieco, se ne fece menare a Pisa, credendo quivi men male
che in altra parte menare il residuo della sua vita, sí perché molto
gli conosceva divoti del suo signore, e sí ancora perché forse molto
serviti gli avea, mentre fu nel suo grande stato. Ed essendo in Pisa, o
perché non si trovasse i pisani amici come credeva, o perché dispettar
si sentisse in parole, avvenne un giorno che egli in tanto furor
s’accese, che disiderò di morire; e, domandato un fanciullo il quale il
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