Alla finestra: Novelle - 14

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camera ov'era successo il contrasto fra nonna e nipote, quando sentì
chiuder l'uscio con molta violenza e dare il chiavistello per di
dentro.
— Che basilisco! — ella mormorò fra i denti battendo la ritirata.
— Benedetta donna! — soggiunse la signora Virginia.
— Già, già, bisogna lasciarla sbollire da sè, — disse il signor
Pacifico. — Ma badiamo bene che anche Gino va castigato.
— Lo castigo io, — rispose con una certa ansietà la signora Virginia
mentre faceva riparo al colpevole con la sua persona.
— Siamo intesi, — replicò gravemente il marito. — Ehi, signorini, che
c'è da ridere? Subito in camera fin che suoni il campanello del pranzo.
Hanno capito? Ha capito, Giorgio? Ha capito, Roberto?
Queste parole erano indirizzate ai due ragazzi poc'anzi accennati,
figli del primo letto del signor Pacifico. Essi si avviarono lentamente
alla loro stanza canterellando: — Torototela torototà.
— Mal educati! — brontolò, il signor Pacifico, senza badare che questo
rimprovero veniva a ricadere sopra di lui. — Mal educati! — E rientrò
nel suo studio.
Gino fu condotto via da sua madre che gli asciugò le lacrime. —
Cattivello che sei, perchè sei andato a disturbare la nonna?... Adesso
venga qui ad aspettare il castigo.
Il bimbo guardò la genitrice con aria d'incredulità, e in prova del suo
ravvedimento, appena giunto nel salotto da lavoro, rovesciò il paniere
ove la signora Virginia teneva le sue lane da ricamo.
— Gino, Gino, — gridò la mamma, — vuoi proprio un altro schiaffetto? —
E lo minacciò con la mano.
Ma Gino aveva cacciato le gambe entro il paniere e si rotolava sul
pavimento con tanta grazia e rideva con sì schietta allegria, che la
signora Virginia ebbe una voglia matta di dargli un bacio anzichè uno
schiaffo.
Il furbacchiotto capi benissimo le disposizioni materne; quindi non si
spaventò punto nel veder la signora genitrice alzarsi dalla seggiola,
ma anzi con raddoppiata ilarità levò in aria le gambe con suvvi il
paniere tanto da farlo parere una cornucopia rovesciata.
— Domando io, — disse la signora Virginia raccogliendo da terra il suo
Gino e pigliandoselo in collo, — domando io come si fa a schiaffeggiare
un visino simile.
E continuava, rivolgendosi a un interlocutore immaginario. — Guardate
mo; non vi pare che si vedano ancora i segni di quelle cinque brutte
dita lunghe ed ossute?... Che orrore!... Picchiarmi il mio Gino....
Nè paga di guardarselo e di baciarlo da tutte le parti, lo portò
davanti allo specchio, e contemplandone con infinita compiacenza
l'immagine, tornò a dire: — Un bambino simile!
Gino, incoraggiato così, ripetè la frase, — Brutta nonna.
La madre gli mise una mano sulla bocca. — Non si dicono queste
parole.... Mi racconti piuttosto che cos'ha fatto.... Ha rotto lo
specchio grande della nonna?
— No.... il piccolo.
— Quello fatto come un _o_?
— Sì, sì, — rispose Gino, — come un _o_ grande.
— Ma che bravo bambino! — esclamò la signora Virginia. — Conosce già
le vocali. — Indi ripigliando un tuono che voleva esser serio: — Ah
lei ha rotto lo specchio che somiglia ad un _o_; così ha fatto gridare
la nonna.... la nonna è stata troppo buona, non le ha dato che uno
schiaffo solo, io gliene darò due.
Dette queste parole, amministrò al delinquente due schiaffetti piccoli
e gentili che arrivando su quelle guancie pienotte diedero un suono
grasso e simpatico; indi lo depose in terra e continuò: — Adesso poi
bisogna prepararsi a domandar perdono alla nonna. Stia attento e ripeta
quello ch'io dico: _Signora nonna_.... Andiamo, via, Gino.... _Signora
nonna_.
— _Signora nonna_....
— Bravo. Così va bene. Avanti: _Le domando scusa_....
— _Le domando scusa_....
— _Di quello che ho fatto_....
— _Di quello che ho fatto_....
— _E le prometto_.... Serio, Gino, non bisogna ridere. _E le
prometto_....
— _E le prometto_....
— _Che non lo farò mai più_. Ha capito?... _Che non lo farò mai più_.
— _Che non lo farò mai più_.
— Bravissimo. Faccia conto ch'io sia la nonna, si metta lì in fondo,
venga verso di me e torni a dir tutto quello che ha detto.
Il bambino con aria grave e marziale si condusse fino alla parte
opposta, là si girò tutto di un pezzo e fissò i suoi occhi biricchini
in viso alla signora madre. La signora madre guardò lui nella stessa
maniera, e ambedue scoppiarono in una sonora risata. La quale risata
nel piccolo Gino si prolungava in maniera da impedirgli di fare un
passo e da incutere un legittimo timore di serie conseguenze; onde
la signora Virginia si alzò e corse alla riscossa del suo rampollo,
prendendoselo nuovamente in grembo e dichiarando ad alta voce che un
demonietto uguale non vi era stato e non vi sarebbe mai e poi mai.
Questa eccellente lezione di belle creanze fu interrotta dall'annunzio
che la minestra era in tavola.
— Dunque, Gino, siamo intesi, — disse la signora Virginia dando la mano
al bimbo e avviandosi con esso verso il salotto da pranzo.
Ivi si trovavano Giorgio e Roberto, il primo dei quali aveva
già versato un poco di vino sulla tovaglia, e ivi giungeva,
contemporaneamente alla moglie e all'indomabile Gino, il signor
Pacifico asciugandosi col fazzoletto i sudori e dichiarando che non era
possibile immaginarsi la quantità di persone venute al suo studio nel
corso della giornata.
— Come se non bastassero i clienti, — osservava l'egregio signor
Pacifico, — ci sono le faccende pubbliche. E non c'è mica caso di
lavarsene le mani.... Oh sì!... Vi dicono che bisogna prestarsi
pel paese, che bisogna fare, lavorare, ecc. E ora c'è Consiglio
provinciale, e ora Consiglio comunale, e poi la relazione sul gaz....
Giorgio, sta quieto.... e poi le ferrovie, e il bilancio.... Roberto,
va a vedere che cosa fa la nonna che non viene a pranzo. Insomma, basta
avere un grano di cervello in zucca che in questo benedetto paese tocca
far tutti i mestieri....
E il signor Pacifico spiegò il tovagliuolo, tornò a passarsi il
fazzoletto sulla fronte e si atteggiò a vittima dell'amor di patria.
Poscia il suo occhio olimpico degnò abbassarsi al piccolo Gino.
— Lo hai castigato? — egli chiese alla moglie corrugando la fronte.
— Sicuro.
— Così va bene. — E soggiunse: — Si fa pel tuo meglio, caro. Se
diventerai un uomo pubblico....
— Scotta, — gridò Gino con voce piagnucolosa, occupandosi più della
minestra che degli augurii paterni.
— Soffia, bambino, soffia — suggerì la signora Virginia — Così.... O
vuoi che passiamo nell'altro piatto?
— La nonna non vuol venire a pranzo — disse Roberto che rientrava in
quel momento in salotto.
— Non vuol venire? Te lo ha detto lei?
— Sicuro. È chiusa in camera. Ho picchiato. Prima non ho inteso che un
brontolio.... Poi ho picchiato di nuovo; e lei s'è alzata di dov'era
a sedere, perchè ho sentito mover la scranna, e gridò brusca: _Chi è
la'?_ Le dissi che ero io e che venivo a ricordarle che il pranzo era
in tavola e che l'aspettavamo. — O credete forse ch'io sia sorda e che
non abbia inteso il campanello? — ella rispose. — A pranzo non vengo
perchè non mi accomoda di venire, e non mi seccate.
Dopo questo sproloquio, Roberto sedette al suo posto e immerse con
grande enfasi il cucchiaio nella zuppiera di riso.
Il signor Pacifico fece un viso disgustato, e si rivolse alla moglie:
— Prova tu.
La signora Virginia, che in mezzo a' suoi difettucci non aveva fiele
di sorta, rinnovò infruttuosamente il tentativo di Roberto; il signor
Pacifico ottenne lo stesso risultato, cosa che offese il suo amor
proprio, e convenne quindi rassegnarsi a desinare quel giorno senza la
nonna.

II.
La signora Paola, che così si chiamava la nonna, aveva settant'anni
sonati; ma era ancora assai vigorosa. Il suo passo era franco e sicuro,
l'occhio vivo, il volto solcato da pochissime rughe. I suoi capelli
erano quasi tutti bianchi, non radi però, chè anzi di poco ne era
scemato cogli anni il volume. E docili ancora si bipartivano con bella
regolarità sulle tempie dando una maestà severa alla sua fisonomia.
Ella era anche buona e caritatevole, la signora Paola, nè in famiglia
si mostrava punto esigente come usano talvolta le persone dell'età sua.
Anzi se qualcheduno aveva davvero bisogno di lei, se v'erano malati in
casa, ella diveniva un miracolo di attività e di abnegazione. Fuori
che in queste occasioni si notava in tutto il suo contegno un certo
riserbo, un desiderio frequente di solitudine e di silenzio. Non era
espansiva nè con la nuora, nè col figlio, nè coi nipoti. Verso questi
ultimi era affettuosa, ma senza gli spasimi che le nonne sogliono
avere. Il solo Gino, che cacciava il naso dappertutto e non aveva
soggezione d'anima viva, penetrava volentieri nel santuario della sua
camera e forzava le carezze della rigida matrona. Appunto una di queste
visite era finita colla catastrofe dello schiaffo. Che cosa facesse
Gino lo sappiamo; non ci siamo però ancora resi ragione dell'impeto
subitaneo della signora Paola.
A capacitarcene è forza conoscere qualche fatterello assai semplice.
Alla signora Paola era accaduto ciò che accade a moltissime donne.
Come suo figlio aveva avuto successivamente due mogli, così ella aveva
avuto due mariti. Era stata fedele all'uno ed all'altro, ma l'amor
suo, l'amore della sua anima ardente ella non lo aveva dato che al
primo.... O perchè adunque s'era rimaritata? chiederanno i pedanti.
Bella domanda. Si fa presto a dire: la vedova che amava sul serio lo
sposo non deve rimaritarsi, non deve profanare il santuario delle sue
memorie, ecc. ecc. Son frasi. Figuratevi una povera giovinetta che a
poco più di vent'anni resta priva del compagno ch'ella si era scelto
per tutta la vita. È bella; viver sola non può senza esporsi a cento
insidie, a cento pericoli; tornare nella famiglia, s'ella ha ancora
famiglia, lo può certamente, ci torna anzi; ma ci starà sempre, ma la
sua casa sarà quella ch'era prima? La cameretta ov'ella dormì i suoi
sonni di vergine avrà mutato aspetto; nei volti dei suoi genitori
non sarà certo scolpito un amore men vivo, sarà forse una tenerezza
maggiore, e tuttavia anche l'espressione di quei volti sarà cambiata.
Pei fratelli, pelle sorelle ella sarà sempre carissima, ma cara in
un altro modo; non glielo si dirà certamente, ma si sentirà che ella
porta nella sua vecchia dimora un fardello di tristi memorie.... Non è
più la spensierata fanciulla di qualche anno addietro; bisogna usarle
speciali riguardi; ella ha ormai un passato di cui non conviene evocare
fuor di luogo le ricordanze; in faccia a lei certe allegrezze troppo
rumorose non istanno bene.... E poi mettiamo che un'altra sorella abbia
un giovine che la corteggi; la vedova non è più la natural confidente
di questi amori come quand'era ragazza; adesso ella è una seconda
edizione della mamma, severa come lei senz'averne l'autorità. E mamma
e babbo e fratelli d'ambo i sessi sono d'accordo a dire ch'è stata
una grande disgrazia _per tutti_ che la povera Elisa, o Matilde, o
Lucia, comunque si chiami, abbia dovuto rimanere così a quell'età!...
E la povera Elisa, o Matilde, o Lucia, che indovina i loro pensieri e
non può asfissiarsi col carbone, o perchè i suoi sentimenti religiosi
glielo proibiscono o perchè ha paura della morte, dopo aver detto
di no tre o quattro volte, si decide finalmente ad accogliere una
nuova proposizione di matrimonio, e domandando perdono all'ombra del
suo indimenticabile Arturo, o Luigi, o Aristodemo, passa a tentar la
fortuna del secondo talamo.
La signora Paola era vissuta da due anni col suo primo marito, due anni
di cielo, come si dice in linguaggio poetico. No, non è possibile esser
tanto felici. Quando s'era sposata ella aveva sedici anni ed egli ne
aveva ventuno, e agli occhi di lei era bello come un Adone, buono come
un angelo, e pieno d'ingegno, di brio, di coraggio. Si chiamava Ettore.
Non è ben certo ch'egli avesse tutte le qualità attribuitegli da sua
moglie; spaventato forse dell'idea di dover col tempo scendere dal
piedestallo di gloria su cui ella lo aveva collocato, egli pensò bene
di pigliarsi una perniciosa e di morire. Morì lasciandole un bambino
di 13 mesi di nome Paride. Benedetta guerra di Troia! Non ce la siamo
ancora dimenticata.
Vedova nell'età in cui le altre donne sogliono essere ancora
ragazze, la signora Paolina, immersa nella più vera e profonda
desolazione, giurò di consacrarsi intera alla memoria del suo Ettore
e all'educazione di quel pegno diletto che gliene era rimasto.... Era
tutto lui. Negli occhi, nel naso, nei capelli ricciuti!... Guai a chi
le parlasse di matrimonio, guai!...
Ma la sventurata Paolina non era per anco rinvenuta dallo sbalordimento
di quel primo colpo, quando gliene toccò un altro non meno terribile.
Il suo Paride, il suo bimbo, il suo tesoro, la sola sua ambizione,
il solo scopo della sua vita, morì anch'egli che non aveva due anni.
La morte falcia volentieri le testine bionde. È inutile descrivere lo
spasimo della madre. Si temette ch'ella ne perdesse la vita o almeno
la ragione. Risentitasi dopo alcuni mesi, si trovò come smarrita nel
mondo. Sarebbe andata monaca se il suo Ettore non le avesse lasciato
in retaggio un orrore invincibile pei chiostri. Fece adunque quello
che fanno le altre donne nella sua condizione; si ridusse presso
la sua famiglia, traendovi una vita vegetativa. Ma era di mezzi di
fortuna molto ristretti. Il suo Ettore sarebbe diventato sicuramente
un grand'uomo, ma gliene era mancato il tempo, e intanto, appunto
per estendere la sua conoscenza degli uomini e delle cose, aveva
assottigliato la non cospicua dote della moglie.
— Che non mi si venga a discorrere d'interesse — aveva detto la vedova
— perchè non voglio saperne. Vergogna!
Così la signora Paola, senz'accorgersene, finì coll'essere a carico
della famiglia. Ma queste cose non possono rimaner sempre occulte,
e anche la poveretta, per quanto i suoi glielo dissimulassero, alla
lunga venne a saperlo. Allora pianti, e sospiri, e disperazioni, e fra
lei e suo padre uno di que' dialoghi che sogliono tenersi in simili
circostanze.
— Bisogna ch'io veda di rendermi utile, che io faccia qualche cosa.
— Nemmen per sogno, io non te lo permetterò mai.
— In fin dei conti son libera.
— Finchè son vivo io, mia figlia non si abbasserà a lavorar per
guadagno.
— Pregiudizii. È necessario che le donne comincino a procurarsi da sè
i mezzi della loro esistenza.
— Idee nuove che io non accetto.
— Idee vecchie sono piuttosto le vostre....
— Oh bravissima. Si metta a censurar suo padre. È di moda....
— No, babbo.... io non volevo.... Ah me infelice! Il mio Ettore! Il mio
Ettore!
E giù in un pianto dirotto.
Questa scena rinnovata più volte con piccole variazioni finì col
produrre singolari cambiamenti nel modo di vedere della signora
Paolina, e in capo a quattr'anni di vedovanza, ella, senza nemmeno
saper rendersi conto del come, si trovò fidanzata una seconda volta.
Il suo nuovo marito si chiamava Mansueto e l'unico figlio ch'ella
n'ebbe, si volle a tutti i costi battezzar per Pacifico. Dal nome
in giù era una completa antitesi fra il suo primo e il suo secondo
consorte, il suo primo e il suo secondo figliuolo. Il suo Ettore
era bello, vivace, aitante della persona, il signor Mansueto era di
fisonomia insulsa, piccolo, goffo. Paride prometteva di far onore
al suo nome, era nelle fasce un vero angioletto; a due anni, quando
soccombette a una malattia di poche ore, camminava già solo, parlava,
aveva messo più denti; questo Pacifico invece non cresceva mai,
non riusciva mai a reggersi sulle gambe, non imparava nemmeno a dir
_mamma_ e _babbo_, e benchè in complesso fosse sano, era sempre triste
e piagnucoloso. Quindi la signora Paola era tratta irresistibilmente
ai confronti, e quantunque facesse il possibile per amare il suo
rispettabile consorte, e amasse con sincero affetto l'unico frutto di
questo suo connubio, il suo pensiero correva al passato. E il passato
diventava tanto più bello agli occhi di lei, quanto più larga tratta di
tempo ne la divideva, e a poco a poco con le virtù della immaginazione
ella se ne era fatta una specie di paradiso terrestre. Ma di questo
paradiso, di questa età dell'oro della sua vita non le restavano altre
reliquie che due ciocche di capelli ed un piccolo specchio. Due ciocche
di capelli recise dalla testa del suo Ettore e di Paride suo nel
giorno in cui erano morti, e lo specchio medesimo rotto tanti anni dopo
dall'insolentissimo Gino.
La storia di quello specchio si chiude in poche parole.
Esso era una suppellettile di casa della Paolina e stava nella sua
camera da letto. Se ne era fatta una festa quando glielo avevano
regalato, ed era veramente, nella sua piccolezza, leggiadro e
nitidissimo. Ma i pregi esteriori svaniti col tempo non eran quelli
che glielo rendessero caro. Era piuttosto l'averlo avuto compagno
per tanta parte della vita, l'esservisi vista riflessa in sì diverse
condizioni ed età; era poi qualche episodio insignificante in sè, ma
prezioso per lei. No certo, ella non dimenticherà mai quel giorno, il
giorno delle prime sue nozze, in cui, seduta davanti al suo specchio
favorito, ancora in vesta da mattina e mezzo discinta, coll'accappatoio
sulle spalle, ella si lasciava acconciare i capelli dalla cameriera,
mentre la madre e una vecchia zia la contemplavano estatiche da
tutte le parti. Pallida, tremante, ma piena in cuore di una ebbrezza
ineffabile e nuova, ella guardava nel suo cristallo come attraverso le
lenti di un panorama. E vi vedeva prima di tutto sè stessa, in verità
un bel visino, proprio una rosa bianca sbocciata appena e stillante
rugiada dai petali; poi, curve sopra di lei in vari atteggiamenti e
la cameriera, e la mamma, e la zia; quindi, in un piano posteriore, le
suppellettili della sua camera in un certo disordine, il letto sfatto,
il suo letto di fanciulla ove ella credeva di aver dormito per l'ultima
volta, e le sedie, e l'armadio, e il sofà sul quale era distesa la
sua candida vesta di sposa e la sua ghirlanda di fiori di cedro:
finalmente, nel fondo, l'altro specchio men limpido ma assai più grande
ch'era infisso alla parete e nella cui luce ella si sarebbe di lì a
poco mirata tutta intera e in tutto lo splendore del suo abbigliamento
nuziale. Ed ecco l'uscio dietro di lei socchiudersi pian piano, e dallo
spiraglio far capolino prima un riccio di capelli, poi un naso, un
occhio e la punta d'un baffo.
— Che cos'hai? — chiese la madre, la quale non aveva avvertito altro
che il rossore improvviso diffusosi sul volto alla Paolina.
Ma la cameriera aveva visto ogni cosa nello specchio e sorrideva senza
scomporsi.
La vecchia zia allora si voltò bruscamente e si accorse che qualcheduno
aveva cacciato la testa attraverso l'uscio e che _quel qualcheduno_ era
nientemeno che il signor Ettore, il promesso sposo.
— Ah signor impertinente! — disse la venerabile matrona con una voce
che somigliava al suono di una pentola fessa. — Non sa che non si può
entrare?
Troppo tardi! Il nemico aveva sorpreso la posizione. Messosi al posto
della cameriera, il signor Ettore s'era curvato sulla sua Paolina, e
a lei che, stringendosi quanto più poteva l'accappatoio alle spalle
seminude e mettendo un piccolo grido, s'era arrovesciata sulla
spalliera della seggiola, aveva stampato un sonoro bacio sulla bocca.
Scossa allo spettacolo e forse rammentando chi sa che cosa, la vecchia
zia aveva fiutato in gran furia due prese di tabacco, la cameriera
sorrideva in un angolo, e la buona madre, mentre tentava di allontanare
lo sposo e di raccomandargli la calma, non poteva trattenere le
lagrime. Era un bel quadretto che lo specchio riproduceva con la sua
scrupolosa fedeltà e di cui la Paolina non aveva certo agio, in quella
voluttà e concitazione dell'animo, di coglier tutti i particolari,
ma del quale ella aveva visto, come attraverso una nuvola d'oro,
l'insieme.
E così quello specchio le divenne tanto caro che ella volle portarselo
seco nella sua nuova dimora. E lo collocò come un fedele e discreto
amico nel suo abbigliatoio in mezzo ad altri mobili più belli ed
eleganti ma meno simpatici al suo cuore. Dinanzi ad esso ella continuò
a pettinarsi, in esso vide riflessa la gioia serena de' suoi tempi
felici, in esso vide la ingenua sorpresa del suo bambino quando gli
si affacciava di là un'altra immagine infantile, ed egli sporgeva le
labbra a baciarla. Mutati i tempi, vide nello specchio le nubi che
oscurarono la sua fronte, e le lagrime che colarono dalle sue ciglia,
e le rughe che solcarono le sue gote. Tutta la sua vita era passata,
ombra fuggitiva, di là. Dalla casa maritale tornò alla casa paterna,
da questa entrò sotto il tetto di un nuovo marito, e lo specchio la
seguitò sempre come un quadro di famiglia. Ed era un quadro veramente,
era tutta la sua galleria domestica, senonchè le figure v'erano evocate
da uno sforzo d'immaginazione. Vive sempre nella sua fantasia, esse
non pigliavano mai così esatti contorni come nella luce di quel breve
e fragil cristallo.
Non maravigliamoci adunque se la signora Paola sta in atteggiamento
di profondo dolore dinanzi ai frantumi di quella sua cara reliquia;
pensiamo piuttosto quante volte al giorno, più colpevoli assai
dell'imprudente bambino, o con una parola acerba, o con un gesto
villano, o con un ghigno beffardo, noi turbiamo caste e sante memorie,
noi interrompiamo l'opera laboriosa con la quale altri ritesse la tela
del suo passato.


IL PARASSITA INDIPENDENTE

Avete conosciuto il conte Mario Rinalducci?
No! Peccato. Era un carattere originale.
Adesso non lo conoscerete più perchè è morto.
Il conte Mario apparteneva a una famiglia nobile decaduta. Fino a
vent'anni crebbe in mezzo agli agi ed alle mollezze, cullato nella
falsa opinione d'essere un gran signore, nudrito di una educazione
tutta d'apparato, la quale servì piuttosto ad assopire che a svolgere
le attitudini naturali del suo spirito. Infatti egli non era uno
sciocco; aveva anzi quella versatilità d'ingegno, quella facilità
d'imparare, che quando non sono ben dirette, corrono il pericolo di
convertirsi in vere disgrazie per chi le possede. Il fanciullo vedendo
di poter afferrare con poca fatica quanto gli s'insegna, non istudia;
la madre grida al miracolo e porta in processione di casa in casa il
suo illustre rampollo, affine di far dispetto alle altre madri sue
amiche, le quali non sono beatificate di prole sì cospicua e magnanima.
Il nostro contino imparò superficialmente una gran quantità di cose;
a tredici anni faceva versi, nientemeno che versi, strimpellava il
pianoforte, biascicava il francese, disegnava un po' di figura, tirava
di scherma, ballava, e cominciava persino a corteggiar le signore.
Sedicenne, con la prima lanugine sulle guancia, bello della persona,
era il beniamino delle società eleganti; non c'era festa a cui non
lo si invitasse, non allegra brigata di giovani onde egli non facesse
parte.
Quanto al progresso negli studi, c'era forse un po' di sosta; a tredici
anni Mario prometteva di più; nondimeno egli continuava a mandar di
pari passo la poesia, la musica, il disegno e gli esercizi ginnastici.
In poesia mostrava soverchia indipendenza dalle regole grammaticali,
in musica dicevano che qualche volta stuonasse, in disegno offendeva
frequentemente la prospettiva, nella scherma era mediocre; perfetto era
soltanto nel ballo.
Del resto sua madre ripeteva sempre: — Importa molto che Mario studi!
Pur che ci si metta, in un giorno egli fa più strada che gli altri non
facciano in un mese.
E suo padre, buon uomo, obeso e torpido, ma non mancante di boria,
soggiungeva con una logica tutta sua: — Gli studi regolari convengono
a chi non può o non vuole mantenersi indipendente. Mario, grazie al
cielo, non avrà mai bisogno di lavorar per guadagno.
Mario aveva vent'anni quando padre e madre gli morirono coll'intervallo
di pochi mesi, e il giovinetto venne a scoprire che la sua fortuna, la
quale non era stata mai colossale, era sfumata quasi per intero.
Ma non c'era punto da sgomentarsi, pur di avere un po' di criterio e un
po' d'energia. Bisognava uscire da una società frivola e spensierata,
mettersi a studiare sul serio una cosa o l'altra e poi cercarsi una
professione. A venti anni un uomo senza obblighi di famiglia e non
privo di abilità non ha bisogno di quattrini per farsi strada nel
mondo.
Però il Rinalducci tenne un diverso cammino. E la colpa ne fu in
parte sua, in parte degli amici. Egli aveva una ripulsione istintiva
ad accettare una posizione dipendente, a seppellirsi in un ufficio
pubblico o privato, a disciplinare la propria attività. A ogni modo, se
avesse sentito suonarsi all'orecchio un suggerimento virile, forse si
sarebbe risolto a lottare con sè stesso, e quando v'è lotta v'è almeno
la speranza della vittoria.... Ma fra coloro che lo circondavano non ve
n'era nessuno capace di questo suggerimento virile.
Era tutta gente imbevuta di pregiudizi e la cui affezione per esso
era d'indole soltanto egoistica. Un giovine che aveva un bel nome
non poteva mettersi a livello d'un impiegatuccio qualunque, figlio
del primo mascalzone venuto. E poi, e poi lasciar che Mario uscisse
da una società di cui egli era uno fra i principali ornamenti! Chi
poteva stargli a petto nel dirigere una quadriglia? Chi sapeva come lui
suonare una polka in una di quelle festine improvvisate che divertono
tanto? Chi lo uguagliava nel dare le disposizioni per una cena, per
una partita di piacere? No, non conveniva assolutamente perderlo. E
tutti a fargli ressa d'intorno e a rispondere alle sue lamentazioni,
alle sue proteste di voler mutare ambiente, mutar città forse: — Ma
via, ti pare?.... Nemmen per idea... in primo luogo povero affatto non
sei (gli era rimasto qualche migliaio di lire) non sei in condizioni
da doverti cercare un pane da oggi a dimani.... Puoi aspettare, puoi
vedere.... Aggiungi che hai anima di gentiluomo e d'artista, vorresti
spendere il tuo tempo a registrare atti a protocollo o a scrivere
lettere commerciali?... Con tanti amici che hai, col tuo ingegno!...
Vergognati! Invece senza fretta tu farai un quadro, scriverai un opera
e allora avrai le ricchezze e la gloria....
Nessun consiglio ci viene tanto accetto quanto quello che risponda alle
nostre idee, e perciò il contino Rinalducci accolse le espressioni
dei suoi amici con trasporti di vero entusiasmo. Egli era commosso
fino alle lagrime della bontà che gli mostravano le prime famiglie
del paese, della cura con cui esse volevano tutelare il suo decoro.
Era impossibile ch'egli agisse contro la loro opinione, ch'egli si
mostrasse meno tenero del proprio nome di quel che se ne mostrassero
personaggi così illustri quali erano la marchesa C..., la contessa
M..., la principessa L..., i conti R..., il contino A..., per non
parlare di uno sciame di ragazze tutte deliberate a trattarlo come
disertore s'egli abbandonava la _buona_ società.
A ricambiare tanta benevolenza, egli, passati i primi tre mesi di
lutto, continuò a dirigere le quadriglie, a dar le disposizioni per
le gite di piacere, ad accompagnare alla passeggiata le signore di
sua confidenza.... Diede fondo in brevissimo tempo al poco che gli
rimaneva, senza che i suoi studi avessero fatto un passo decisivo.
Egli cominciò a scoprire che aveva il genio, ma che il suo spirito si
ribellava alla tecnica dell'arte, si ribellava al giogo delle regole.
Se si fosse potuto fare un quadro senza disegno nè colore, egli avrebbe
fatto la _Trasfigurazione_ di Raffaello, se si fosse potuto scrivere
un'opera senza le pedanterie del contrappunto, egli avrebbe scritto
gli _Ugonotti_. Malgrado di ciò egli continuava ad esser favorito,
festeggiato, carezzato. E quando fu proprio al verde di quattrini,
si accorse che non era difficile il far debiti, nè impossibile il
trovare nei momenti supremi chi li pagasse. Più di qualche volta l'uno
o l'altro de' suoi intimi aveva consentito ad anticipargli alcune
migliaia di lire, tanto ch'egli potesse mantenersi in quella posizione
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