Alla finestra: Novelle - 15

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indipendente di cui aveva bisogno.... Se Mario non era ben vestito, non
lo si poteva ricevere in società, e come fare a meno di lui in società,
se nessuno possedeva le sue svariate attitudini?...
Il Rinalducci era in relazione troppo stretta con quelli che lo
sovvenivano per sentirsi umiliato dalla loro condiscendenza. — Son cose
che si fanno tra amici — egli diceva, e dispostissimo a fare anch'egli
altrettanto, si sentiva esonerato dagli obblighi della gratitudine e da
quelli del rimborso.
Certo qualche volta gl'imbarazzi eran seri, ma il contino non si
perdeva d'animo. A un vilissimo padrone di casa che si era permesso
di dargli lo sfratto perchè egli non aveva pagato per tutto un
anno la pigione, il nostro eroe rispose per le rime meravigliandosi
della sua petulanza e dichiarando ch'egli non era solito a ricevere
intimazioni. L'altro non si diede per vinto e replicò con frasi di
non dubbio significato. Punto nel vivo, il pigionale ricalcitrante
mandò dal proprietario tiranno due giovanotti, intimi suoi, il conte
C... e il barone V..., coll'incarico di ottenere una ritrattazione
o di fissare le condizioni di una partita d'onore. Ma lo sfidato,
quantunque fosse uomo di fresca età e di membra vigorose, ricusò di
accomodar la faccenda in questa maniera e rise in faccia ai padrini,
i quali, con molta solennità, stesero immediatamente un processo
verbale, che diedero alla luce, lasciando giudice dell'accaduto il
solito pubblico. E il pubblico, della buona società, sentenziò che il
conte Rinalducci e i suoi padrini si erano condotti cavallerescamente,
e che il proprietario era un bifolco senza principii di educazione. Ciò
non tolse che il nostro zerbinotto dovesse cercarsi un'altro alloggio.
E lo trovò per qualche tempo in due stanze d'un palazzo disabitato
appartenente a un amico, al quale egli si guardò bene dal pagare
alcun fitto, dolendosi soltanto della nessuna comodità del quartiere
assegnatogli, quartiere, com'egli diceva, più da servitori che da
gentiluomini. — Come pretendere, egli soggiungeva, che io dipinga o
scriva musica se ho uno studio privo d'aria e di luce? Vergogna! Che
cosa sarebbe costato all'amico X il darmi una stanza migliore?
Nondimeno il Rinalducci volle rispondere con magnanimità a tanta
grettezza, e dipinse a memoria il ritratto del suo ospite, per
fargliene una sorpresa nel suo dì natalizio. Il ritratto somigliava
all'amico X quanto può somigliare la signora... (quasi mi scappava
il nome) alla più bella delle mie lettrici, ma esso parve all'autore
un'opera d'arte così perfetta da non potersi pagare nè con l'abbuono
di cento pigioni, nè con l'invito a diecimila pranzi. Volle sceglierne
egli medesimo la cornice e collocarlo di sua mano nel posto d'onore
sulla parete del salotto dai ricevimento. Più di qualcheduno, non
iniziato nei misteri del pittore, domandò chi fosse quel brutto
ceffo che aveva la bocca storta e guardava losco. E allora il felice
proprietario rispondeva in fretta con qualche impiccio: — Una testa di
fantasia! Una testa di fantasia!
Col passar degli anni le strettezze del conte Mario aumentavano
anzichè diminuire. I suoi creditori, nefanda genia, diventavano più
fastidiosi e i sovventori si mostravano invece meno liberali. E poi,
a poco a poco, l'ambiente in mezzo al quale egli era cresciuto, si
andava spostando e trasformando. I vecchi protettori, amici del babbo
e della mamma, morivano, i compagni della sua gioventù prendevano
moglie, le ragazze che egli aveva trattate confidenzialmente si
maritavano, e non sempre le nuove famiglie erano così benevole a suo
riguardo come le antiche. Egli sorprendeva di tratto in tratto qualche
gesto impaziente, egli udiva qualche parola amara. egli, il favorito
di pochi anni addietro, sentiva, in più d'una occasione, d'esser di
troppo. Ma egli aveva acquistato ormai una faccia tosta invidiabile.
Anche non invitato si cacciava dappertutto, era riuscito a desinare
alla mensa altrui cinque volte per settimana, era riuscito a passare in
varie villeggiature due mesi di primavera e due mesi d'autunno. Sempre
indipendente, non isdegnava di ricambiare i favori dei suoi ospiti
col corteggiarne le mogli, e metteva dalla sua parte le cameriere
corteggiando anche loro. Era un bell'uomo, era elegante, e le donne
chiudevano volentieri un occhio alle sue debolezze. Suoi implacabili
nemici erano i camerieri maschi, perchè non aveva la bassa e servile
abitudine di dar mancie e aveva esigenze da principe. Narra la cronaca
ch'egli fosse una volta gravemente compromesso dalle rivelazioni di
uno staffiere, il quale l'aveva sorpreso nell'atto di consegnare un
bigliettino alla sua padrona.
Il conte Mario fu licenziato su due piedi dalla villa ond'egli godeva
le delizie, ed ebbe l'intimazione di non presentarsi mai più. Egli si
fece un grande onore in questa faccenda sfidando a duello e storpiando
lo screanzato ed insofferente marito, ma dovette stringere una nuova
relazione per supplire al vuoto prodotto dal disgustoso incidente nel
numero de' suoi inviti a pranzo e in quello dei giorni ch'egli passava
in villeggiatura.
Si domanderà perchè il conte Mario non ricorresse ad un sistema molto
in voga fra i pari suoi: vale a dire ad un ricco matrimonio con una
ragazza _avariata_ del suo ceto, o con qualche gobba o sbilenca della
borghesia che fosse disposta a scambiare un mezzo milioncino con un po'
di blasone.
Quelli che seguirono con una certa attenzione le vicende dell'esimio
Rinalducci serbano memoria di quattro proposte di matrimonio che gli
furono fatte, cioè:
La contessina A..., 200 mila lire di dote, trentacinque anni, aspetto
mediocre. Fuggita a venti anni con un ufficiale di cavalleria,
trattenutasi con lui soli otto giorni;
La marchesina B..., 150 mila lire, ventotto anni, non brutta, rea d'un
unico atto di distrazione che sventuratamente produsse una piccola
conseguenza;
La signorina L..., figlia di un negoziante di chiodi, 300 mila lire.
Naso da pappagallo, e un'escrescenza assai pronunziata sulla schiena;
La signorina N..., figlia d'un pizzicagnolo ritirato dagli affari, 350
mila lire, ventisette anni, fianchi posticci, statura eccezionalmente
bassa, un neo a forma di cespuglio sulla guancia, eruzioni cutanee
assai abbondanti ogni primavera.
Come si vede, l'uno o l'altro di questi partiti avrebbe offerto
al conte Mario l'occasione di rimpannucciarsi. I biografi non sono
d'accordo sulle ragioni che fecero andare a vuoto i vari progetti;
i più benevoli affermano che nel momento di stringere i conti egli
cedesse ad una invincibile ripugnanza pell'ignobile contratto; altri
citano cause diverse. In un caso, essi dicono, furono i genitori della
sposa che ruppero i negoziati, appena il conte Mario domandò un acconto
di 10 mila lire sulla dote; in un altro caso una vedova alla quale
egli andava debitore di molto, venuta a cognizione di ciò che stava
macchinandosi dal suo protetto, riuscì a comperare alcune cambiali
sottoscritte dal Rinalducci, e più sollecita della vendetta che del
proprio decoro, lo minacciò d'una procedura sommaria ov'egli non si
sciogliesse senza indugio da qualunque impegno matrimoniale.
Il conte Mario sentì sbollirsi i suoi ardori per la sposina e tornò a
sacrificare all'ara della vedova, ottenendo da lei l'annullamento delle
tratte fatali.
Il conte Mario giunse adunque alla matura virilità senza prender moglie
e senza diventare nè uno scrittore, nè un pittore, nè un maestro di
musica. Era un dilettante mediocre, buono da far madrigali, da disegnar
macchiette, da sonare un walzer o una polka in caso di bisogno. Ma
tutte queste cose non fruttano quattrini, e alla lunga, seppure egli
avesse voluto, gli sarebbe stato ben difficile mettersi al sodo. A
quarant'anni tutti ci chiedono: — O che avete fatto fino al presente?
Come avviene che vi poniate in cammino nel momento, in cui gli altri
arrivano? — E poi — faceva osservare il conte Mario quando sollecitava
uno dei soliti _prestiti_ da uno dei soliti amici — e poi, capisci
bene, col mio nome, nella mia posizione, non posso accettare il primo
impiego che capita. Non dico, se si trattasse di esser direttore
d'una banca, d'una compagnia d'assicurazioni, potrei anche pensarci,
ma è tutta una _camorra_, è una indegnità. Gli uffici sono riserbati
a Caio perchè è parente d'uno dei consiglieri, a Tizio perchè ha le
raccomandazioni di un ricco azionista, del quale sposerà la sorella, a
Sempronio perchè ha l'amicizia della moglie del Presidente. Camorra!
Camorra! Oh un giorno o l'altro li concierò io per le feste questi
aristocratici della Borsa con una satira alfieriana!
Ma la satira alfieriana rimase nella penna al nostro Mario, il quale
volse le forze dell'intelletto a trovar mille ingegnose applicazioni
alla sua teoria che un amico fosse una mucca da mungere a proprio
piacere. Lo svolgimento pratico di questa profonda dottrina gli arrecò
per altro non pochi disinganni, che lo convinsero della tristizia degli
uomini. — Quale egoismo! — egli sclamava dopo aver subito un rifiuto.
— Quale mancanza di cuore! Dirmi di no!...
Poichè alcune delle vecchie relazioni gli andavano via via mancando,
egli cominciò ad esser meno esclusivo nella scelta de' suoi conoscenti
e ad introdursi anche in alcune famiglie borghesi. Però, nemmeno
le nuove conoscenze duravano tutte a lungo, ed egli se ne vendicava
diventando più esigente verso quelle che gli rimanevano fedeli o per
sincera affezione, o per consuetudine, o per timidezza. Giacchè col
crescer degli anni gli era cresciuta in singolar guisa la maldicenza,
e molti temevano d'esser fatti segno a suoi strali.
Lo stanzino del caffè ov'egli teneva cattedra aveva acquistato ormai
un certo grado di celebrità, e non mancavano gli sciocchi e gli
sfaccendati che dicevano — Andiamo un po' a sentire il conte Mario. Ha
la lingua un po' lunga, ma le dice con garbo, e non risparmia nè grandi
nè piccini. Dopo tutto egli non è uomo di partito, è un carattere
indipendente.
Un carattere indipendente! Ecco quello che il conte Rinalducci voleva
che gli altri lo giudicassero, ecco quello ch'egli credeva sul serio
di essere. Povera indipendenza! Che ludibrio hanno fatto del tuo nome!
Tu e la tua sorella libertà siete certo fra le parole più martoriate
del dizionario. E tu per lo appunto, o indipendenza, quante volte
non mascheri a tua insaputa l'abbietto cinismo, l'egoismo gelato e
impudente! Quanti non sono che si vantano indipendenti, perchè non
si lasciano vincere da nessun entusiasmo e da nessuno sdegno, perchè
in mezzo al turbine delle ambizioni e degli affetti ond'è travolta
l'umanità, possono non ambir nulla, e si contentano di appiattarsi
in un angolo per iscagliare il dardo avvelenato dei loro sarcasmi su
tutti quelli che operano, e pensano, e credono, e amano! Non curare
il proprio paese? È indipendenza dalle grettezze della nazionalità.
Non tenersi legati dai benefizi? È indipendenza dalla gratitudine. Non
rispettare la virtù? È indipendenza dalle pedanterie della morale.
Chiedo perdono della digressione. Il conte Rinalducci, io dicevo,
conservava alcuni amici, e questi dovevano supplire anche a quelli
che gli erano andati mancando. Non solo egli era il loro assiduo
commensale, ma voleva altresì esercitare una influenza sui loro sistemi
culinari. Come avviene frequentemente degli oziosi, egli era diventato
gastronomo, ed era delicatissimo nei cibi e nei vini. Rivedeva le
buccie ai cuochi e ai cantinieri, e toglieva la sua stima ad un padrone
di casa che lasciasse portare in tavola un manicaretto non accomodato
a dovere o un vino di qualità inferiore. Chi non capiva la virtù del
_gorgonzola_ grasso era uno zotico, chi non pregiava la polenta coi
beccafichi era un barbaro. Tenne il broncio per due settimane ad una
famiglia, che, dopo averlo invitato una mattina a mangiare le beccacce,
sciupò questa vivanda prelibata con una salsa sgradevole, salsa da
Ostrogoti, com'egli diceva, salsa che era per sè stessa una rivelazione
di gusti grossolani e plebei.
Se un buon pranzo era la cosa principale che il conte Mario domandava
a' suoi amici, egli non intendeva con ciò esonerarli dall'obbligo di
farlo partecipare anche ai loro divertimenti. E non solo egli reputava
essere ormai convenuto che ove andavano i suoi conoscenti dovesse, a
spese loro, andarsene anch'egli, ma suggeriva egli stesso le gite da
farsi, gli spettacoli a cui assistere, e non lasciava pace agli amici
finchè non li aveva indotti ad accogliere i suoi progetti.
E in questi suoi suggerimenti non era già ossequioso, mellifluo, ma
usava modi conformi a quella _indipendenza di carattere_ ch'era il
maggiore suo vanto.
Egli s'era, per esempio, fitto in capo di andare a teatro col signor X.
Ebbene, senza tanti preamboli, egli chiedeva: — _Si è_ preso palco per
stasera?
E se il signor X rispondeva, o che non ci aveva pensato, o che aveva
voglia di restarsene a casa, egli replicava infastidito: — Come! Non
si va a teatro? C'è uno spettacolo di cartello, e si ha il coraggio
di non andare a teatro! Vergognatevi di farvi sentire a dire un'eresia
simile....
Ma qualche volta il signor X non si vergognava e teneva fermo
al suo punto; allora il conte Mario prima di seccare una terza
persona scaraventava addosso all'amico ricalcitrante una serie di
contumelie accusandolo di mancare di gusto e di gentilezza, e d'essere
immeritevole dei favori della fortuna.
Pur non era implacabile e il di appresso si ripresentava, perdonando,
alla tavola di chi aveva vituperato la sera.
Del resto, il conte Mario aveva un modo di ricambiare i favori
ricevuti. Non era egli un grande artista _in potenza_? Ebbene egli
faceva il ritratto dei figli de' suoi anfitrioni. I fanciulli erano
stati sempre il suo forte in pittura, ed egli rammentava con orgoglio
le lodi che avevano accolto una testa d'angelo, lavoro della sua
adolescenza. Adesso i bambini evocati dal suo pennello somigliavano più
ai feti conservati nell'acquavite che agli angioletti dell'_Assunta_;
nondimeno quand'egli aveva condotto a termine una di queste tele
preziose, egli si fregava le mani con compiacenza e diceva fra sè: —
Adesso il creditore son io.
Se questo convincimento di non dover mai nulla a nessuno fosse sincero
o affettato; se quest'aberrazione del suo spirito fosse rotta da
qualche lucido intervallo in cui egli si rendesse conto esatto della
sua posizione, è difficile a dirsi. Forse nella desolate solitudine
della sua casa egli avrà avvertito l'abisso in cui era caduto, ma era
troppo tardi. Ormai, la coscienza del vero non poteva infiammarlo a
virili propositi, l'energia che gli era mancata nella giovinezza non
poteva venirgli nel tramonto della vita. Nè egli si apriva con nessuno.
Mormorava degli uomini e delle cose, si lagnava dell'ingiustizia del
mondo, inveiva, egli rimasto fra gli ultimi, contro tutti quelli che
erano arrivati a una meta, ma confidar le segrete battaglie dell'animo,
ma versare i proprii dolori nel cuor d'un amico non era affar suo. Alla
società nella quale egli era vissuto egli aveva chiesto il piacere, non
lo scambio soave degli affetti e dei pensieri, ed essa non gli aveva
dato più di quanto egli s'era atteso da lei.
Ora ella gli forniva i mezzi di sussistenza come si assegna una
pensione ad un povero invalido; quanto ai conforti dello spirito, nè
ella gliela offriva, nè egli sarebbe stato più capace d'intenderli.
Il tugurio che lo albergava la notte era inaccessibile a tutti
fuorchè a una donnicciuola, al servizio d'altri inquilini della stessa
abitazione, la quale per pochi soldi al mese consentiva a fargli la
stanza. Ma quella donna doveva accudire a' suoi uffici mentre egli
era in casa; per tutto l'oro del mondo egli non le avrebbe lasciato la
chiave della sua camera, temendo ch'ella potesse, lui assente, condurre
qualcheduno fra quelle pareti, testimonio della sua miseria.
Usciva per tempissimo, dopo essersi fatta la barba dinanzi a un
frammento di specchio, dopo aver spolverato in tutti i sensi l'unico
vestito decente che gli restava; usciva senza uno scopo, senza una meta
fissa, cacciato più ch'altro dall'insonnia e dal bisogno di quelle
illusioni che gli erano negate dal triste spettacolo del suo covile.
Percorreva lento, distratto le vie della città, sostando dinanzi alle
mostre delle botteghe, soffermandosi al passar delle belle donnine e
seguendole con un lungo sguardo di desiderio forzatamente platonico.
Com'erano lontani i tempi in cui le belle donnine, accortesi ch'egli
le guardava, si voltavano furtive e sorridevano dietro il ventaglio
od il velo! Le belle donnine di quei tempi erano ormai venerande
matrone, avevano perduto le rose del volto e la svelta leggiadria delle
membra, ma avevano una casa, una famiglia, ma nel sorriso dei loro
figliuoli rivivevano ai lieti di della giovinezza; egli invece aveva
finto di credere la giovinezza eterna, aveva sperato che i piaceri
dei venti anni potessero scaldare un cuor di sessanta, e si trascinava
solo, povero, infermiccio... Misero chi non prepara gli alloggi alla
vecchiezza che giunge! Esso è simile a chi s'affida di mantener perenne
l'estate non vestendo i panni invernali.
Dopo aver passato alcune ore alla bottega di caffè in mezzo agli
eleganti ed ai ricchi tanto per credersi ricco ed elegante al pari di
loro, il conte Mario andava a pranzo da questo o da quello, saziandosi
con un pane e un pezzo di formaggio nei giorni _vuoti_. La sera
rincasava assai tardi, ma non voleva che si discorresse mai del suo
domicilio, del quale egli amava dimenticarsi sotto ogni riguardo,
compreso quello della pigione.
Il conte Rinalducci, come dissi fin da principio, è morto, e l'onore di
ricevere le sue ultime disposizioni toccò al signor Giovanni Battista
Smerigli, ricco possidente, ex-consigliere comunale, che conosceva già
da vent'anni il nostro eroe e che aveva la soddisfazione di dargli da
desinare la domenica, il mercoledì e il venerdì.
Ora, un mercoledì, alle sei in punto, il signor Giovanni Battista
Smerigli, trovandosi nel gabinetto da lavoro di sua moglie, guardò
prima l'orologio, poi la signora Valentina (era il nome della consorte)
e disse: — Per solito Rinalducci a quest'ora è venuto.
— Sicuro, — rispose la signora Valentina senz'alzar gli occhi dal suo
telaio da ricamo.
— È stranissimo, — soggiunse il signor Giovanni Battista.
Indi marito e moglie tacquero e lasciarono scorrere in silenzio altri
cinque minuti.
— Non capisco, — riprese la signora Valentina dopo questo intervallo.
— Se facessimo intanto portare in tavola? — insinuò timidamente il
marito.
— Ti pare? — replicò _madama_. — Rinalducci andrebbe su tutte le furie.
Egli ha dichiarato tante volte che non vuole la minestra fredda...
— E a lasciarla al fuoco la troverà lunga.
— È vero, ma egli ha pur detto che preferisce la minestra lunga alla
fredda.
— Gli è che invece io preferisco la minestra fredda...
— Zitto, vergognati. Un commensale di tanti anni!
— Già... anche troppo commensale, — sospirò il signor Giovanni
Battista, e avrebbe continuato se in quel momento non avesse sentito
bussare all'uscio.
Entrò un servo portando un biglietto. Il signor Smerigli lo prese e
disse subito: — È la scrittura del conte Mario. Ma è singolare... In
lapis, e tutta di traverso... Pare che gli tremasse la mano... Ah!
aspettate, soggiunse il signor Battista rivolgendosi al servo, c'è
scritto anche: _condannata 50 centesimi_. Eccoli...
Il cameriere uscì.
Il signor Smerigli aperse con curiosità il biglietto. La signora
Valentina s'era alzata ella pure dalla sedia e leggeva dietro le spalle
del marito. Tutto il messaggio consisteva in due righe:
_Sto male, fatevi subito accompagnare a casa mia dal latore._
MARIO.
— Diavolo! diavolo! — disse il signor Smerigli. — A quest'ora! come si
fa? Senza aver pranzato?...
— Non puoi ricusarti, — osservò la signora Valentina.
— È presto detto, ma io non so nemmeno l'indirizzo preciso di Mario.
— Non c'è il portatore della lettera che deve accompagnarti?
— Sì, sta a vedere se non se n'è già andato...
La signora Valentina scosse il campanello. — La persona che ha portato
questa lettera? — ella chiese al servo che si presentò.
— È giù che attende.
— Vedi bene, — riprese la signora Valentina indirizzandosi al consorte.
Il signor Smerigli capì che non c'era rimedio, bevette in piedi una
tazza di brodo e uscì brontolando.
Quand'egli fu introdotto nella cameruccia del suo amico, lo trovò
disteso sopra un letto senza lenzuola, mezzo vestito, e aggravato
per modo che non poteva ormai pronunziar più una parola. Lo assisteva
pietosamente una donna attempata, quella stessa che si prendeva cura
delle poche sue robe e della sua miserabile stanza.
— Questa mattina, — ella disse, — il conte si era alzato come il solito
e m'aveva chiamato a fargli la camera. Poi si pentì e mi ordinò che lo
lasciassi solo. A mezzogiorno, non vedendolo uscire, gli chiesi se si
sentisse male e se volesse nulla. Mi rispose che stava bene, che non
abbisognava di niente e che non lo seccassi... Finalmente un'ora fa,
contro l'usanza, suonò il campanello. Lo trovai ansante e che stentava
a parlare. Mi diede un biglietto per lei incaricandomi di farglielo
aver subito. Io nello stesso tempo feci chiamare un medico che fu qui
pochi minuti or sono, tentennò il capo, fece un salasso e disse che
tornerà entro mezz'ora.... Santo Iddio!... Chi si sarebbe figurato una
cosa simile?... Ancora un uomo fresco....
E la buona vecchia si rasciugò gli occhi col dorso della mano.
Il conte Mario, sebbene non potesse parlare, riconobbe lo Smerigli e
gli fece cenno d'avvicinarsi. Indi con grande sforzo tolse di sotto il
capezzale una specie di lettera suggellata e gliela consegnò.
— Devo aprire? — chiese il signor Smerigli.
Il moribondo fece un gesto con la mano, come a dire: aspettate.
Tornò il medico e dichiarò che non c'era più speranza. Infatti il
pover'uomo morì di lì a poco.
Il mattino successivo, alla presenza di testimoni e nella camera stessa
del defunto, il signor Smerigli aperse il piego che aveva ricevuto.
In cima alla pagina era scritto in bel carattere rotondo la parola
_testamento_.
Che razza di testamento poteva mai fare uno spiantato come il conte
Rinalducci?
Il signor Smerigli lesse ad alta voce:
_Lascio al mio amico Giovanni Battista Smerigli l'incarico di
farmi seppellire. Desidero funerali decorosi ma senza pompa. Lo
stesso amico Smerigli è pure incaricato di far mettere sulla mia
tomba una lapide colla seguente semplicissima iscrizione:_
MARIO CONTE RINALDUCCI
D'ANNI..... MESI.....
VISSE E MORÌ INDIPENDENTE.
— Accetta l'eredità? — chiese il giudice con una certa aria da
canzonatura.
— Sì, sì, che vuol farci? — rispose il signor Smerigli, scrollando le
spalle. — Ma, Dio l'abbia in gloria, un gran bel seccatore!


IL MAESTRO DI CALLIGRAFIA

In un istituto scolastico di una città del mondo gli studenti
dell'ultimo corso erano occupati nella prova scritta dell'esame di
letteratura. La cosidetta _sorveglianza_ era affidata al signor
Antonino Bottaro, vecchio professore di calligrafia, che stava
per abbandonare la scuola ed andare in pensione. Sorveglianza alla
prova scritta vuol dir questo. Un professore, che non è quello della
materia su cui si fa l'esame, rimane nella stanza, ove gli esaminandi
lavorano, e invigila affinchè essi non si copino i temi a vicenda, non
consultino libri, non si passino carte, ecc. ecc. Naturalmente, finchè
non si adotti per l'esame il sistema cellulare, tutta questa roba
si fa lo stesso in barba al signor professore. Figuriamoci che cosa
avviene, quando il sorvegliante è il professore Bottaro, vittima della
scolaresca a due titoli; primo, perchè è il professore di calligrafia,
secondo, perchè è un pan di zucchero. Nei trent'anni dacchè egli
insegnava le leggi della scrittura posata, corsiva, rotonda e gotica
con ispeciali applicazioni alla burocrazia ed al commercio, gliene
erano toccate d'ogni maniera. Non passava giorno senza che un monello
di scolare gli applicasse un codino di carta al bavero del vestito, o
segnasse col gesso la sua caricatura sulla tavola nera. Una volta gli
si erano messe due ova in cappello tanto da far nascere una frittata al
suo coprirsi nell'uscir dalla scuola; un altro giorno si era spalmato
di pece il cuscino della poltrona, ov'egli andava a sedersi per
correggere gli elaborati. Non parliamo dei suoni infinitamente varii
che rallegravano la sua lezione. Mentr'egli si chinava sul quaderno
d'uno studente, dall'estremo opposto della panca sorgeva come un
miagolio di gatta in amore; egli volgeva lo sguardo da quella parte,
ed ecco venir dal fondo come un tubar di colomba o come un trillo
acuto di gallo mattiniero: _Chichirichì_. Il professore rosso come un
gambero correva allora verso la cattedra gridando: _Or ora faccio una
nota a tutti_ — ed ecco un silenzio sepolcrale seguito da un rumore
che simulava il vento e che cominciava lieve, lieve per diventar poi
gagliardo e impetuoso e perdersi via via in un gemito impercettibile,
come la marcia turca di Beethoven.
Il signor Antonino _faceva la nota a tutti_, ma prima del termine della
lezione la scancellava dopo essersi fatto promettere dai ragazzi che la
lezione successiva sarebbero stati buoni come agnellini.
Nè da' suoi colleghi il signor Antonino riceveva segni di particolare
deferenza. Sgarbi non gliene facevano sicuramente, ma in fin dei
conti, al professor di calligrafia chi ci bada? Nelle conferenze, il
Preside, il professore di matematica, il professore di belle lettere,
il professore di fisica discorrevano tutti con grande prosopopea;
anche il cancelliere voleva dire la sua opinione, ma il professore
Antonino o poteva egli avere un'opinione? E quando si trattava di dar
le classificazioni finali, se il signor Antonino si lagnava di qualche
studente (ed era assai raro che se ne lagnasse) se diceva che il tale
non aveva mai scritto una riga durante l'anno, gli altri scrollavano le
spalle con impazienza, come a dire: seccatore! smetta! Terminato l'anno
scolastico molti professori ricevevano visite dagli alunni, complimenti
dai genitori, elogi dai preposti all'Istituto; e ora a questo, ora a
quello pioveva dall'alto una croce, ma quanto a lui, al calligrafo,
chi lo prendeva sul serio? Non era forse celebre la sua soprascritta
a una lettera, che cominciava: _All'pregiatissimo_? Appena due o tre
giovinetti di cuor più tenero degli altri, rammentandosi del grave
travaglio che gli avevan dato durante l'anno, gli movevano incontro con
viso tra compunto e faceto e dicevano: — Scusi, sa, signor professore,
se non fummo sempre tranquilli come avremmo dovuto essere. Egli
s'inteneriva subito e diceva: — Ohibò.... ohibò.... Loro... voialtri
siete stati buoni..., lo so io quelli che erano i cattivi soggetti...
basta... basta... adesso si va in vacanza... a far provvista di
giudizio, non è vero... eh?
E dava loro un pizzicotto alla guancia.
L'anno nuovo poi ricominciava la medesima storia.
Eppure, il professore Antonino non sapeva viver lontano dalla sua
scuola. Le vacanze erano per lui una penitenza. Tutta la sua famiglia
si riduceva a una sorella nubile più vecchia di lui, sorda e bisbetica,
che lo tormentava senza posa affinchè egli domandasse la sua pensione.
— Ma — soggiungeva la signora Bettina, che non era un'aquila — ma devi
volere la pensione intiera secondo il sistema vecchio, non la pensione
di cinque sesti come danno adesso. Tu sei entrato col sistema vecchio
e hai diritto di esser trattato con quello. Capisci, babbuino?
Che sua sorella gli desse del babbuino non era alla fin dei conti una
cosa che facesse un gran senso al povero professore; tanto e tanto un
po' babbuino egli sentiva di essere. Quello che non sapeva perdonare
alla rispettabile donzella si era ch'ella tirasse giù a campane doppie
contro la scolaresca. E questo livore non era nemmeno cagionato dagli
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