Alla finestra: Novelle - 06

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apri la finestra ogni momento.
— Ah! — pensa il signor Odoardo — vediamo di scavar terreno.
Ed avvicinandosi alla Doretta, la piglia per una mano, la conduce fino
al canapè, e se la pone a sedere sulle ginocchia.
— Orsù, Doretta, perchè fai così cattiva cera alla signora Evelina?
La bimba diventa rossa, si confonde, non sa che rispondere.
Il signor Odoardo continua:
— Che cosa ti ha fatto la signora Evelina?
La Doretta si scontorce, vorrebbe nascondere il viso, e balbetta:
— Nulla mi ha fatto.
— Eppure non le vuoi bene.
Silenzio profondo.
— Ella invece te ne vuol tanto.
— Non me ne importa....
— Che sgarbata!... E se tu ci dovessi stare con la signora Evelina?
Qui la fanciulla prorompe:
— Non voglio starci, non voglio starci mai.
— Oh, queste sono sciocchezze — ammonisce in tuono severo il signor
Odoardo, deponendo a terra la Doretta.
Ella si scioglie in un pianto dirotto.
— Ma insomma.... È questa la compagnia che fai al babbo?... Basta così,
Doretta.
Il signor Odoardo ha un bel dire, la Doretta ha bisogno di piangere. I
suoi occhi bruni nuotano nelle lagrime, il suo piccolo petto è ansante,
la sua voce è rotta dai singhiozzi.
— Che capricci! — esclama il signor Odoardo arrovesciando il capo sui
guanciali del canapè.
Il signor Odoardo è ingiusto, e ciò ch'è peggio, egli dice una cosa
di cui egli stesso non è persuaso. Egli sa, egli deve sapere che
quelli della Doretta non sono capricci. Egli deve saperlo meglio che
non lo sappia ella medesima, la quale forse non sarebbe in grado di
spiegare ciò ch'ella prova. È il presentimento d'un pericolo nuovo,
è la ripetizione di un antico dolore. Ella non aveva ancora sei anni
quando le è morta la mamma, eppure gliene è rimasta una impressione
incancellabile nell'anima. E adesso le pare che la mamma le torni a
morire.
— Quando avrai finito di piangere, Doretta, verrai qui — dice il signor
Odoardo.
La Doretta, rincantucciata, piange meno ma non ha finito di piangere.
Proprio come fuori. Nevica meno, ma non ha finito di nevicare.
Il signor Odoardo si copre gli occhi con una mano. Quanti pensieri gli
si affollano alla mente, quanti affetti si combattono nel suo cuore!
Oh se potesse scacciar via l'immagine della signora Evelina! Ma non
gli riesce. Quelle ciocche bionde egli le vede ancora, vede ancora
quelle pupille azzurre, quel sorriso lusinghiero, quella persona tutta
grazia e armonia. Egli non avrebbe da dir che una parola e la signora
Evelina sarebbe sua, verrebbe a rianimare la sua casa solitaria, ad
empirla di vita, d'amore. Per virtù di lei egli ringiovanirebbe di
dieci anni, crederebbe di essere come quand'era fidanzato la prima
volta. Eppure no, no. Come la prima volta non poteva essere. Egli era
allora ben diverso da quello di adesso, e _l'altra_, oh anche _l'altra_
era diversa molto dalla signora Evelina. Com'era modesta e vereconda!
Quanto riserbo di vergine perfino ne' suoi trasporti d'amante! Come
erano belli i rossori improvvisi che le tingevano il volto, com'era
dolce l'incanto di quelle sue lunghe ciglia pudicamente abbassate! Egli
l'aveva conosciuta nella intimità delle pareti domestiche, semplice,
timida, buona figlia, buona sorella, come doveva essere buona moglie
e buona madre. L'aveva amata qualche tempo in silenzio ed ella aveva
amato parimente lui. Un giorno, passeggiandole a fianco in giardino,
egli le aveva preso la mano con impeto subitaneo se l'era portata alle
labbra, dicendole — Le voglio tanto bene. — Pallida, tremante, ella era
corsa a gettarsi in braccio alla mamma con un grido — Come sono felice!
Oh bei tempi, oh bei tempi! Egli era poeta allora, egli susurrava
nell'orecchio della sua fanciulla con l'accento della più sincera
passione:
T'amo più che non s'ami umana cosa,
Sei la speranza mia, sei la mia fè,
Se' il mio Dio, la mia patria e la mia sposa.
Non amerò nel mondo altri che te.
Versi bruttini, ma che facevano palpitare di voluttà la giovine
fidanzata. Oh bei tempi, oh bei tempi! Oh lunghe ore passate come
un lampo in soavi colloqui, oh segreti dell'anima che l'anima scopre
a sè stessa soltanto per rivelarli alla persona diletta, oh carezze
desiderate e temute, oh rabbiette fuggitive, oh lagrimuccie rasciugate
coi baci, oh sgomenti pudichi, oh ingenuità sante, oh abbandono d'un
amore puro ed ardente, chi può sperar di trovarvi due volte nella vita?
No, la signora Evelina non può rendere al signor Odoardo ciò ch'egli
ha perduto. No, questa vedova disinvolta, che dopo sei mesi va alla
ricerca del secondo marito, non può ispirargli la fede che _l'altra_
gli aveva ispirata. Oh donna del primo amore, perchè morire? I morti
non hanno più nè baci, nè carezze, e i vivi hanno bisogno di carezze e
di baci.
Chi parla di baci? Uno tiepido e lieve se n'è posato or ora sulle
labbra del signor Odoardo e lo ha fatto trasalire. — Ah!... Sei tu,
Doretta? — È lei, è la Doretta, che non dice nulla, ma che vorrebbe
far la pace col suo babbo. Ella appoggia la sua guancia alla guancia
di lui, egli tiene stretta la sua testina perchè la non gli scappi.
Anch'egli tace; che dovrebbe dirle?
Si va facendo buio e gli occhi del gatto Melanio cominciano a brillare
nell'angolo della stanza, vicino alla stufa. Il servo picchia all'uscio
e chiede se deve portare un lume acceso.
— Riaccendete intanto il fuoco, — dice il signor Odoardo.
Le legne cigolano, scoppiettano, mandano faville e poi finiscono ad
ardere con una gran fiamma, con un suono uniforme, possente, come il
respiro d'un gigante addormentato. Nella mezza oscurità i riflessi
luminosi guizzano sulle pareti, fanno spiccare i rabeschi delle
carte, corrono fino a lambire lo spigolo dello scrittoio. Le ombre
s'allungano, s'accorciano, s'ingrossano, s'assottigliano, gli oggetti
paiono mutare continuamente di dimensioni e di forme. Il signor Odoardo
lascia andare i suoi pensieri a briglia sciolta, e passa in rassegna
gli anni trascorsi a fianco della moglie virtuosa, ricorda la cuna
della sua bimba, e i primi vagiti, e i primi sorrisi; sente, ahimè!
l'ultimo bacio della sua donna moribonda, l'ultima parola articolata
dal labbro di lei: Doretta. Oh no, egli non può fare infelice la
sua Doretta! Pur non è sicuro che il fascino della signora Evelina
non lo vinca di nuovo; pur teme egli stesso che al riveder domani la
bellissima ammaliatrice si dileguino i suoi virili propositi.... C'è
forse un mezzo, uno solo!
— Doretta, — dice il signor Odoardo.
— Babbo.
— Devi ricopiar questa sera la lettera per la nonna?
— Sì.
— E non preferiresti invece di andarci tu dalla nonna?
— Con chi? — chiede la bimba angosciosamente e, mentre ella attende la
risposta, il suo cuoricino batte d'un palpito affannoso.
— Con me, Doretta.
— Con te? — ella esclama quasi non credendo a sè medesima.
— Sì, con me, col tuo babbo.
— Oh babbo mio! — ella grida, e le sue piccole braccia cingono il collo
del signor Odoardo, e le sue labbra lo coprono di baci. — Oh babbo mio,
buon babbo. Quando si parte?
— Domattina, se non ti fa paura la neve.
— Anche subito, anche subito.
— Subito no. Per bacco, non vorresti nemmeno pranzare?
E il signor Odoardo, svincolandosi dolcemente dall'amplesso della
figliuola, si alza, suona il campanello e ordina che portino il lume.
Quindi con un moto istintivo egli guarda ancora una volta dalla parte
della finestra. Nella casa dirimpetto tutto è buio, il profilo della
signora Evelina non si disegna più dietro i vetri. È sempre brutto
tempo, cade sempre qualche fiocco di neve. Il servo chiude le imposte,
tira le cortine; nessuno sguardo profano penetra ormai nel santuario
domestico.
— Tanto fa desinar qui, — dice il signor Odoardo. — In salotto sarà una
Siberia.
La Doretta mette in rivoluzione la cucina con la strepitosa notizia
del suo viaggio. Prima si crede ch'ella scherzi; quando non si può
dubitare che ella affermi il vero, si osserva sommessamente che il
padrone dev'esser impazzito. Partire nel cuore dell'inverno, con un
tempo simile! Almeno si aspettasse una bella giornata!
Ma che importa alla Doretta dei commenti della servitù? Ella non
capisce in sè dalla gioia, canticchia, saltella per la stanza e viene
ogni momento a dar un altro bacio al babbo. Poi versa la piena de' suoi
affetti nel cuore del gatto Melanio e della bambola _Niní_, alla quale
promette di portar da Milano un vestito nuovo.
A pranzo non fa che parlare della sua gita, mangia pochissimo, domanda
sempre che ora è e a che ora si parte.
— Temi di perder la corsa? — chiede il signor Odoardo sorridendo.
Eppure, quantunque egli lo dissimuli, non è meno impaziente di lei.
Ha bisogno di andar lontano, lontano. Forse non tornerà fino alla
primavera. Perciò ordina che gli preparino il bagaglio come se dovesse
rimanere assente almeno due mesi.
La Doretta si corica presto, ma non fa che ravvoltolarsi nelle
coltri, e svegliar venti volte la cameriera per domandarle: — È tempo
d'alzarsi?
Anche il signor Odoardo è desto quando il servo alle sei della mattina
viene a chiamarlo.
— Che tempo fa?
— Brutto, signor padrone.... Su per giù come ieri.... Anzi io direi che
se non avesse proprio urgenza di partire....
— No, Angelo. Ho urgenza.... È inutile.
. . . . . . .
Alla stazione ci sono pochissimi viaggiatori avviluppati nei mantelli
o nelle pelliccie; faccie scure, assonnate. Tutti si lagnano del tempo,
del freddo, dell'ora; tutti protestano che senza un gran bisogno non si
sarebbero alzati così di buon mattino. Un solo viso è ridente, una sola
persona è vispa, la Doretta.
Lo scompartimento di prima classe in cui entrano il signor Odoardo e la
Doretta è gelato, malgrado delle cassette d'acqua calda su cui posare i
piedi, ma la Doretta trova che la temperatura è deliziosa, e se stesse
in lei aprirebbe il finestrino per veder meglio fuori.
Una scampanellata, un fischio, e il convoglio si muove. Negli occhi
della Doretta si dipinge una gioia ineffabile.
— Sei contenta, Doretta?
— Oh! Tanto....
Dieci anni addietro, con una giornata migliore, ma parimenti d'inverno,
il signor Odoardo intraprendeva il suo viaggio di nozze. Gli sedeva
di fronte una giovine, che somigliava alla Doretta quanto una donna
può somigliare ad una fanciulla, una giovine leggiadra, composta,
soavemente amorosa. Anche a lei il signor Odoardo aveva chiesto
nell'istante della partenza. — Sei contenta, Maria?
— E anch'ella gli aveva risposto. — Oh! Tanto....
— Proprio come la Doretta.
Si corre, si vola. Addio, addio per sempre, signora Evelina.
. . . . . . .
È forse morta di disperazione la signora Evelina?
Oh no. La signora Evelina ha un ottimo temperamento e una buonissima
casa. L'ottimo temperamento le impedisce di prender le cose troppo
sul serio, la buonissima casa le offre mille distrazioni. Non tutte
le sue finestre si aprono dalla parte ove abita il signor Odoardo.
Ce n'è una, per esempio, che dà su un giardinetto appartenente ad un
rispettabile celibatario il quale nei giorni di sole viene a fumarvi
la sua pipa. La signora Evelina trova che il rispettabile celibatario
è una persona a modo, e il rispettabile celibatario, che esercita le
funzioni di liquidatore di avarie, trova che la signora Evelina ha un
gran bel paio d'occhi ed è assai ben costruita, con materiali solidi,
da poter meritare la classificazione 313 I. I. nei registri del _Bureau
Veritas_. Ne viene che il celibatario guarda qualche volta in alto
e la signora Evelina guarda qualche volta abbasso. Però la signora
Evelina osserva che la stagione non è propizia alle conversazioni
all'aria aperta, e invita il vicino a venirle a fare una visita. Il
vicino esita, la signora Evelina rinnova l'invito. Come resistere a
una bella signora? In fin dei conti una visita che conseguenze può
avere? Nessuna, e l'ottimo liquidatore si loda assai dell'accoglienza
ricevuta, tanto più che la signora Evelina gli ha dato facoltà di
venire un altro giorno con la sua pipa. Ella ama infinitamente l'odor
della pipa. È proprio una donna perfetta la signora Evelina, una donna
quale ci vorrebbe per un uomo d'affari che non fosse deciso a rimaner
celibe tutta la vita. Del resto, pensa il liquidatore, è verissimo
ch'egli è deciso a rimaner celibe, ma chi gl'impedisce di cambiare
d'opinione?
Fatto si è che quando il signor Odoardo ritorna con la Doretta dal
suo viaggio di tre mesi, egli riceve la comunicazione del prossimo
matrimonio della signora Evelina Chiocci, vedova Rombaldi, col signor
Archimede Fagiuolo, liquidatore di avarie.
— Fagiuolo! — esclama la Doretta. — Fagiuolo!
E questo nome le desta un'ilarità sconfinata. Ma se badate a me,
ciò che la mette in buon umore non è tanto il _marito_, quanto il
_matrimonio_ della signora Evelina.


UN RAGGIO DI SOLE

L'ultimo lembo dello strascico d'un vestito di seta spariva dietro
l'uscio del salotto di casa Mellari. Una signora innanzi negli anni,
ma con la fisonomia piena di vivacità giovanile, seguiva il dileguarsi
di quello strascico con uno sguardo lungo, tenero, appassionato; uno
sguardo quale non hanno se non le madri per le loro figliuole e le
avole per le loro nipoti. Ed era appunto una nipote della padrona di
casa colei che aveva lasciato in quel momento la stanza.
La signora Anna, moglie del professore commendatore Everardo Mellari,
sola in un angolo della camera, sedeva ad un tavolino su cui stavano
alcuni libri legati, un servizio da te, un astuccio da lavoro e un
moderatore di porcellana acceso; perchè, se non lo abbiamo ancora
detto, lo diciamo adesso: erano le dieci di sera. Intorno a una tavola
molto più grande collocata proprio nel mezzo dell'ampio salotto,
rischiarato da una lucerna appesa al palco, e tutta sparsa di opuscoli
e di giornali, discutevano di economia e di giurisprudenza sei uomini,
con certe inflessioni nasali e una maestosa solennità degna di chi
è socio di almeno cinque Accademie. Le sentenze si succedevano a
regolari intervalli come le cento e una salve d'artiglieria alla
nascita d'un principino. Vuole però giustizia che si facciano in questo
gruppo le debite distinzioni. Delle sei persone ivi raccolte quattro
avevano aspetto fossile, e il più fossile di tutti era un giovine non
ancora trentenne, uno di quei gingillini della scienza che camminano
servilmente sulle orme altrui, e si credono dotti quando hanno letto
una _memoria_ papaverica dinanzi a un'assemblea sonnacchiosa. A costoro
par grave di non avere che venti a trent'anni, e simulano i modi e
la posatezza dell'età matura, gonfi, pettoruti, noiosissimi. Sul loro
labbro non v'è sorriso, nei loro occhi non v'è luce, nella loro parola
non v'è affetto, mummie prima di nascere.
Il professore commendatore Everardo Mellari, che al momento della
nostra narrazione passava i sessanta, aveva avuto anch'egli il gran
torto di non prendere la vita che da un lato solo, dal lato cioè dello
studio e della meditazione, trascurando quella verità detta senza
reticenze dal Giusti:
Se fa conoscere — le vie del mondo
Oh buono un bricciolo — di vagabondo!
Però in lui una intelligenza elevata, una dottrina profonda e un
cuore ottimo e tenace nelle amicizie facevano perdonare quel po' di
compassato e di convenzionale che v'era nel suo carattere. Quanto
alla persona, ella somigliava all'indole ed all'ingegno, ed era quindi
piuttosto poderosa che aggraziata.
Dissimile affatto dagli altri, e tale che lo si sarebbe detto una
stuonatura in quel concerto di dottoroni, stava in piedi appoggiando
una mano alla spalliera della seggiola del professore Everardo, e
tenendo con l'altra dinanzi agli occhi un giornale senza apparire
troppo concentrato nella lettura, il signor Maurizio Dardi, il più
vecchio e fidato amico di casa Mellari. Anch'egli fra i sessanta e i
settanta, ma ritto, sottile, aitante delle membra, con una fisonomia
briosa ed ironica spesso, con uno sguardo vivo, intelligente, pieno di
fuoco, con dei capelli che ormai quasi bianchi del tutto conservavano
la curva elegante della giovinezza e che si arricciavano di tratto in
tratto con con una tal quale aria di provocazione come se volessero
dire: — Oh se sapeste quante manine gentili ci hanno fatto scorrere
fra le loro dita! — Dal complesso poi della persona tuttora attraente e
dal vestire lindo e accurato, si vedeva l'uomo che aveva molto vissuto
nella miglior società.
Il signor Maurizio aveva egli pure seguito con lo sguardo il dileguarsi
del vestito di seta, e quando l'uscio si fu rinchiuso, con un movimento
rapidissimo si fece accosto alla signora Anna, trasse un profondo
sospiro dal petto come chi si sente sollevato da un peso, e avvicinando
una sedia al tavolino, disse: — Si può fare un po' di conversazione con
voi, signora Anna?
Ella che se ne stava fantasticando si scosse, e con un sorriso pieno di
benevolenza: — Figuratevi! — rispose. — Vi confesso anzi che mi pareva
impossibile di vedervi in mezzo a tanti uomini seri.
— Grazie del complimento. Però, ve lo dico col cuore in mano, vostro
marito solo lo digerisco, ma in compagnia con quegli altri no e poi
no. Everardo mi va ripetendo sempre che io sono uno scapato come a
vent'anni, e che egli stesso non sa spiegarsi come, tanto dissimili
d'indole, noi abbiamo potuto rimanere amici tutta la vita. E in verità
la cosa fa meraviglia anche a me.... Ma, vedete, a Everardo io perdono
tutto.
— Oh bella! Siete voi che perdonate? — interruppe la signora Anna.
— Sicuro, perchè, in fin dei conti, queste esistenze seppellite in
mezzo alla polvere delle biblioteche sono esistenze sbagliate. Bandire
il sorriso dalla vita val quanto bandire il sole dall'universo.
— Oh diamine! Siete sentenzioso... Su via, cattiva lingua, di chi avete
a dir male stasera?
— Di molte persone, ma se non vi dispiace, mi limiterò ad una sola.
— Molti i chiamati e pochi gli eletti — osservò sorridendo la signora
Anna. — E chi è oggi l'eletto?
— È una _eletta_.
— Una donna?
— Per l'appunto.
— E chi dunque?
— Voi stessa.
— Io!
— Sissignora... Credete davvero ch'io sia stato ad ascoltare in
tutto questo frattempo le dissertazioni sulle imposte indirette di
quell'amenissimo dottor Belgini, che, se si sta alla fede di nascita ha
ventinove anni, e se si vede e si sente, ne ha almeno sessanta?
— Ma via, screanzato, parlate piano,
— Oh siate certa che non ci odono — rispose il signor Maurizio
accostando però la sedia a quella della sua interlocutrice e abbassando
alquanto la voce. Indi continuò:
— O vi par forse probabile ch'io abbia prestato una grande attenzione
agli apoftegmi giuridici partoriti con tanto _aplomb_ dal consigliere
Marino, il quale, allorchè ha parlato, si volta a destra e a sinistra
come per dire: _Avete mai inteso nulla di simile?_
La signora Anna fece uno sforzo per non ridere, e con un tuono
malizioso soggiunse a mezza voce;
— Non c'è forse il commendatore Brullo?
— Oh! — proruppe il signor Maurizio — quello è un bell'originale. Non
v'è cosa che non gli sia accaduta, non v'è paese in cui egli non sia
stato, non v'è idea che prima di venire agli altri non fosse venuta
a lui. In casi eccezionali egli fa delle concessioni. Stasera, per
esempio, si discorreva della Groenlandia. Egli osservò: _Io dovevo
andarci_. Maravigliato d'un tuono tanto rimesso: _Eppure io tenevo per
fermo_, diss'io, _che ci foste già stato_. Credete forse ch'egli abbia
capito ch'io mi burlavo di lui? Tutt'altro. Prese le mie parole per un
complimento.
— In fin dei conti poi c'è Everardo — concluse la signora Mellari con
accento serio e senza ironia di sorta.
— Ah sì, c'è Everardo — rispose con l'accento medesimo il signor
Maurizio — e ad Everardo ci faccio di cappello, ma, ve lo ripeto, a
quattr'occhi, e quando posso levargli la crosta dell'accademico. Via,
non v'impazientite. Ricevendo in casa sua de' pedanti gli tocca divenir
qualche volta pedante anche lui per ospitalità... Ma, insomma, voi mi
fate parer maldicente...
— Oh poveretto, non siete mica tale — esclamò la signora Anna. — E, a
proposito, non dovevate dir male di me?
— Ah, questo sì, e comincio subito.
La signora Anna avanzò alquanto la sedia, e appoggiando il gomito al
tavolino fece puntello al mento con l'avambraccio, e si pose in atto di
benevola aspettazione.
— Dovete dunque sapere — principiò il signor Maurizio con un tuono
scherzoso che temperava la asprezza apparente delle parole — dovete
dunque sapere, mia cara amica, che io ho inteso gran parte del vostro
colloquio con vostra nipote, e che fra voi e lei avete detto delle
solenni corbellerie.
— O sentiamole un po' queste solenni corbellerie.
— Non mi negherete che la Evelina vi dicesse male di suo marito.
— Male poi no... Faceva alcune rimostranze.
— Or bene: quanto a me che del matrimonio...
— Risparmiatemi le vostre teorie. Già lo si sa che voi l'avete a morte
col matrimonio.
— Falsissimo. Io la credo una ottima istituzione a benefizio dei
celibi. Che cosa farebbero i celibi se non fossero gli ammogliati?
— Eh vergognatevi di questo cinismo.
— Sono meno cinico di quel che credete, amica mia, e mi sarebbe facile
il provarlo. Ma ora ripiglio il filo del discorso. Quanto a me dunque
che sono un celibatario ostinato ed impenitente, non ho nulla a ridire
se una moglie si lagna di suo marito. Ciò sta nell'ordine naturale
delle cose. Ma io mi metto dal punto di vista vostro, di una donna cioè
che ha un culto per l'istituzione del matrimonio, e non posso a meno
di strabiliare vedendo come voi lasciate tener quei discorsi a vostra
nipote, e abbiate anzi tutta l'aria di secondarla.
— Oh se non avevate che a farmi questo sermone, mio venerabile signor
censore, potevate davvero risparmiarvi la briga. In primo luogo, io non
ho secondato niente affattissimo; e poi gli è appunto perchè ritengo
che il matrimonio e la famiglia siano cose sacrosante che m'irrito
quando ne vedo fraintesi gli obblighi dall'una parte o dall'altra.
— Queste sono frasi. Io credo invece che il matrimonio, per non finire
in una catastrofe, debba essere un lungo esercizio di reciproca
tolleranza. Tolleranza intendiamoci, non già del vizio e della
dissolutezza, ma di tutti quei difettucci, di tutte quelle imperfezioni
che ciascuno dei due coniugi vede indubbiamente nell'altro. Oh via,
veniamo al fatto: di che cosa si lagna vostra nipote?
— Sapete che siete curioso? Io potrei mandarvi pei fatti vostri, e
non dirvi nulla; ma voglio esser tre volte buona, e vi risponderò
schiettamente che Evelina ha ragione. Un uomo che ha una sposa come
Evelina, un fiore di gioventù, di bellezza, un angelo di bontà e
d'innocenza; un uomo che possiede una donnina simile e la trascura, e
non le consacra tutto ciò che v'è di migliore nella sua anima e nel suo
ingegno, meriterebbe.... eh lo so io che cosa meriterebbe. Il meno che
possa toccargli è che sua moglie si dolga di lui.
— Voi siete una vestale che conserva il fuoco sacro. Ancora bollente
come a vent'anni! Io vi ammiro.
— Eh ammiratemi meno, e ascoltatemi di più. O che vi pare che Evelina
avrebbe ad esser contenta? A sedici anni appena, la maritano (e un
po' di colpa ne ho anch'io) a un giovine sui cinque lustri, operoso,
valente, onesto, ma tutto pieno della sua ambizione, tutto preoccupato
dei suoi buoni successi. Egli è ora di qua, ora di là, oggi a Firenze,
domani a Milano, domani l'altro a Napoli, sempre a raccogliere
applausi, a mietere allori, a proferir discorsi, a tener conferenze, e
che so io, e dopo quindici mesi di matrimonio è molto se sta tre giorni
la settimana presso sua moglie per annoiarla coi racconti delle sue
glorie e de' suoi trionfi. Oh caro mio, non v'è nulla di più egoista
dei così detti uomini grandi, non v'è nulla di più gretto e meschino.
Nel santuario della casa che dovrebb'essere aperto agli affetti, alle
confidenze, alla celia, essi portano la loro vanità personale; al
pettegolezzo senza malizia e senza conseguenze della vita domestica
essi sostituiscono il pettegolezzo pieno d'acrimonia e di fiele della
vita pubblica e letteraria, e fanno cento volte desiderare il modesto
impiegato, l'umile uomo d'affari che, dopo adempito il suo ufficio
quotidiano, reca alla sua famiglia la parte migliore di sè; il sorriso
del suo labbro, la poesia schietta della sua anima. Perchè questa è la
gran differenza tra gli uomini comuni e quelli di maggior levatura; che
i primi cercano di piacere alla moglie perchè sanno che non possono
avere applausi da nessuno fuori di lei: gli altri, abbagliati dallo
splendore che li circonda, non vedono che tenebre e squallore nelle
pareti domestiche.
— Per bacco! — proruppe il signor Maurizio — stasera voi siete più
eloquente di Mirabeau. Ma mi permettete di rispondervi?... In quello
che voi dite c'è molto di vero; non v'ha dubbio, ma l'arma che avete
brandita è un'arma a due tagli, e badate di non ferirvi da voi. Quando
una giovine possede, come Evelina, uno sposo di un merito superiore,
ella non ha che un mezzo per non divenire infelice. Ella non può
impedirgli di raccogliere i frutti del suo ingegno e della sua dottrina
e di essere acceso dalla febbre del buon successo: ella deve lasciarsi
irradiare dalla sua luce, ella deve associarsi alle sue ambizioni. La
neutralità le è proibita, perchè nella moglie l'esser neutrale vuol
dire essere ostile. S'ella non si accalora pei trionfi del marito,
il marito la trascura, ed ella finisce coll'odiar quella gloria che
avrebbe dovuto riflettersi su di lei. I due coniugi vivono allora
in due mondi diversi, le loro anime non hanno punto di contatto, e,
credetemelo pure, mia ingenua amica, quando i corpi sono costretti a
stare insieme senza che le anime si confondano, non può nascerne altro
che il tedio scambievole... Ma via, siamo giusti; come volete che un
uomo, esposto a tutte le seduzioni del mondo, blandito, accarezzato
in mille guise, riesca a trasformarsi di punto in bianco, e diventi
semplice, modesto, spensierato, appena egli abbia varcato la soglia
domestica? Ma una moglie saggia previene i pericoli, e poichè non può
mutare il marito muta sè stessa.
— Oh! volete farne un'erudita?
— Che! Voi sapete meglio di me come una donna di garbo possa prender
parte agli studi di suo marito senza perder nulla della grazia e della
semplicità nativa. Tutto sta che la sua trasformazione le sia dettata
dall'affetto verso il consorte, e non dalla smania di dottoreggiare
con gli altri: che in quest'ultimo caso non avete già dinanzi a voi una
persona colta, ma una noiosa pedante sul fare di quelle che si vedono
spessissimo nella società italiana, così diversa dalla società inglese
e tedesca, ove l'eleganza dei modi, le aspirazioni ad un ideale elevato
sono le cose più naturali e spontanee del mondo.
— Ma voi parlate sempre degli obblighi della donna: l'uomo non ne ha
dunque nessuno?
— Sì che ne ha; ma io vi ragiono dal lato della felicità e della pace
coniugale. E vi dico con la convinzione più profonda che l'uomo, anche
se fallisce a' suoi obblighi, può trovar nella gloria, nell'ambizione,
nel buon successo mille compensi, ma la donna, se non sa crearsi la
felicità nel tetto domestico, non vi trova che la sventura o la colpa.
— Di che frasi sonore mi rintronate il capo! La colpa! Le donne
virtuose sanno rimaner tali anche nell'infelicità.
— Nell'infelicità sì, — rispose vivamente il signor Maurizio,
sorridendo a fior di labbro, — e quando un grande dolore, quando
un grande disinganno occupa l'animo, io credo che la donna abbia
in questo disinganno e in questo dolore una salvaguardia contro le
tentazioni. Nel _Paolo Forestier_ dell'Augier v'è un tipo di donna la
quale, per vendicarsi dell'uomo che adorava e che l'ha abbandonata,
si getta nelle braccia di un altro ch'ella disprezza, precisamente
nel giorno e nell'ora in cui deve accadere il matrimonio del suo primo
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