Alla finestra: Novelle - 16

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sgarbi che usavano a suo fratello. No, c'era un altro motivo. Un
giorno, essendo passata vicino al portone della scuola in un momento
che gli studenti ne uscivano, la _ragazzaglia_, com'ella la chiamava,
si era messa a gridare dietro a squarciagola: _bella! bella! bella!_
La signora Bettina non aveva mai perdonato alla scolaresca questo
affronto, nè a suo fratello l'indifferenza con la quale egli ne aveva
accolto l'annunzio. Ella che avrebbe voluto un'espulsione in massa!
Ella che sarebbe andata in persona dal Preside, se non fosse stata la
paura di scontrarsi nuovamente con quei cattivi soggetti!
— Già — brontolava la bisbetica donna — quando si ha la disgrazia
di non aver uomini in casa ma _pecore_ (ho detto pecore) non si può
nemmeno arrischiarsi di uscire. C'è da far le meraviglie davvero
se sono rimasta zitella? Chi viene da te? Ove mi conduci? Almeno se
tu lascerai quella maledetta scuola, beninteso con la tua pensione
intiera, potrai pensare un poco a tua sorella.
Il professore Antonino ci pativa a sentir questi discorsi, e l'idea
di condurre a passeggio sua sorella gli metteva i brividi addosso.
Egli non era elegante. Il suo cilindro con un dito di unto, il suo
soprabito spelato rispondevano appieno alla sua posizione sociale di
pubblico insegnante, ma in fin dei conti egli non aveva un cappello
cremisi con piume verdi, nè due ricciolini neri fatti a forma di punto
interrogativo ornavano le sue tempie. Dimodochè, anche nelle vacanze,
egli trovava mille occupazioni immaginarie per esimersi quanto più
spesso gli fosse possibile dall'ufficio di cavaliere servente di
_madamigella_ Bettina. Piuttosto, dando fondo a tutti i suoi risparmi
egli si rassegnava a mandarla a sue spese dal 15 settembre al 15
ottobre d'ogni anno presso una famiglia di conoscenti che villeggiava a
breve distanza dalla città. Ella ci andava un po' a malincuore, quasi
facendo un atto di degnazione, perchè si trattava di gente inferiore
a lei per educazione; figuratevi, eran le nipoti di un salumaio
arricchito; a ogni modo ci andava in vista dell'aria che serviva a
calmare i suoi nervi. Poveretta! Era stata sempre così sensitiva.
Intanto il professore passava la giornata a desiderare la riapertura
della scuola. Quando aveva dato da mangiare al canarino, quando aveva
temperato la penna d'oca con cui teneva dietro assiduamente a tutti
i progressi della scrittura gotica e rotonda (pel _corsivo_ aveva
accettato la penna di ferro), egli non trovava miglior partito di
quello d'andare all'Istituto e di spender due ore nella stanzuccia
del signor Bartolomeo, il vecchio bidello. Il signor Bartolomeo era
anch'egli un po' brontolone come la signora Bettina, si lagnava del
Governo, del consiglio provinciale, del Municipio, del Preside, dei
professori, del cancelliere, degli scolari. Ma sopratutto si lagnava
della signora Elena, la moglie del Preside, ch'egli aveva visto nascere
di povera gente e andar per le strade quasi quasi a raccattar carta,
e che ora aveva messo boria e non si degnava nemmeno di salutarlo. Il
professore Antonino non sapeva dar tutti i torti al buon Bartolomeo;
anch'egli soffriva parte delle umiliazioni che toccavano al bidello,
anch'egli aveva notato l'albagia della signora Elena che pareva fargli
una grazia a ricambiar con un cenno del capo i suoi umilissimi inchini,
ma d'altra parte si adoperava a gettar acqua nel fuoco, a raccomandare
al signor Bartolomeo la calma, la pazienza; e, ripeteva l'antico
adagio — Chi ha più giudizio lo adoperi... Anch'io se volessi badare a
tutto... non solo qui a scuola... ma anche con quella benedetta donna
di mia sorella... buonissima creatura del resto... ah insomma tutti
abbiamo le nostre.
E chiudeva la sua perorazione coll'offrire al signor Bartolomeo una
presa di tabacco.
Poi faceva i conti sui giorni che mancavano a riaprire la scuola. E
pensava ai suoi colleghi, che non avevano mai l'abitudine di tornare
dalla campagna fino a dieci o dodici giorni più tardi del necessario,
e pensava a' suoi scolari, furfanti, ma buoni diavoli.
Figuriamoci se nel giorno di cui parliamo egli non abbia mille
cose che lo molestino. Quella mattina stessa, cedendo alle istanze
della sorella, egli aveva consegnato al Preside la sua domanda pel
collocamento a riposo, pregandolo che la facesse pervenire al Governo.
Nè la pensione poteva essergli negata, perchè egli aveva tutti i titoli
per ottenerla, s'intende nella misura fissata dalla legge, non già in
quella pretesa dalla signora Bettina; onde questo era l'ultimo anno che
egli esercitava le sue funzioni di professore, e la sorveglianza della
quale oggi egli veniva pregato era uno degli ultimi incarichi del suo
ufficio.
Il Preside, esternando il suo rammarico per la risoluzione del
professore Antonino, gli aveva detto con una gentilezza insolita:
— Senza complimenti, professore, se ella non ha voglia di stare in
classe tutt'oggi, incarico un altro. Lei ha lavorato pe' suoi giorni
abbastanza.
— Oh, cavaliere, le pare?... Anzi... se si tratta di servirla, di
essere utile alla scuola... anche dopo.... oh per me già ho sempre
voluto un gran bene a quest'Istituto.
— Lo so, lo so, professore,
— Troppo buono, cavaliere... E se ho mancato... non fu per cattiva
volontà.
— Mancato?... Oh mi meraviglio, professore. Così fossero tutti.
E il cavaliere Preside gli aveva stretto la mano.
Il professore di calligrafia aveva il cuore gonfio dalla commozione.
— Ho mal giudicato anche il Preside, — egli diceva fra sè, — degnissima
persona... Ma! E mi tocca lasciar tutta questa gente che mi vuol bene!
Con che fatica il nostro Antonino tratteneva le lagrime!
E con queste disposizioni d'animo egli era sceso in classe, ove si
raccoglievano i suoi persecutori ordinari, umili quel giorno e contriti
per l'idea dell'esame; con queste disposizioni aveva inteso dal Preside
dettare il tema della prova in iscritto, un tema così difficile, così
difficile. Poveri ragazzi! O se avesse potuto far lui l'elaborato per
tutti? Ma sì! Non ne capiva nemmeno il titolo. Gran disgrazia essere
asini!
Intanto quelle fronti giovanili si corrugavano, quegli occhi per solito
così gai si mettevano a guardare in alto, come chiedendo l'ispirazione
alle ragnatele del soffitto, quelle labbra vermiglie ordinariamente
disposte al sorriso si contraevano con uno sforzo penoso, e le mani
avvezze a tante piccole furfanterie andavano ravvolgendosi nei capelli.
A poco a poco, prima l'uno e poi l'altro, i ragazzi uscirono dallo
stato contemplativo, tirarono fuori i libri che non dovevano avere,
consultarono i quaderni che dovevano aver lasciati a casa, e finalmente
si accinsero a scrivere. Di lì a una mezz'ora si udiva il suono
uniforme delle penne di ferro che correvano sulla carta.
— Sia rigraziato il cielo, — disse fra sè il buon calligrafo come
sollevato da un gran peso. — Sia ringraziato il cielo! Adesso hanno
preso l'aire tutti quanti. Già, bisogna confessarlo, son bravi ragazzi.
Al signor Antonino pareva che, se gli studenti cominciavano a scrivere,
l'esito dell'esame fosse assicurato. Scrivessero poi bene o male, poco
importava.
Sentendosi un po' le gambe intorpidite egli scese dalla cattedra e si
mise a passeggiar su e giù per la classe.
Delle varie file di panche non ne erano occupate che due, cosa del
resto naturalissima, inquantochè quella era l'aula destinata al secondo
corso e gli esaminandi appartenevano all'ultimo, sempre meno numeroso.
Il professore Antonino dopo aver passeggiato alcun tempo a capo basso e
con le mani intrecciate dietro la schiena lungo la corsia che movendo
dalla cattedra percorreva longitudinalmente la classe, si fermò prima
davanti a una finestra, poi stette alcun poco in contemplazione delle
mosche che gironzavano intorno ai vetri, poi cominciò a gettar l'occhio
sulle panche vuote e a passar, quasi senz'accorgersene, da una panca
all'altra contemplandovi i rabeschi e le iscrizioni che le adornavano.
Le panche della scuola! Chi di noi non se ne rammenta? Chi su quei
disadorni sedili non si è, alla fin dei conti, trovato meglio che
nelle poltrone a molle ove sdraiammo più tardi la svigorita persona?
Senza dubbio le nostre tribolazioni le abbiamo avute anche lì. Quando,
interrogati dal professore, non abbiamo saputo rispondere verbo,
ed egli, con un sorriso glaciale, ci accennò di sedere e intanto
con voluttà crudele disegnò una bella croce nella colonna delle
classificazioni di fronte al nostro nome e cognome; o quando, colti in
fallo nel meglio di qualche furfanteria, ci sentimmo dire dallo stesso
signor professore — _Benissimo, scriverò alla famiglia_ — oh allora il
nostro povero corpicino ci stette pure a disagio sulle panche della
scuola! e ci siamo messi a piangere, e ci siamo augurati la morte, e
abbiamo fatto ridere i nostri condiscepoli da cui non potevamo restar
divisi e che pure erano tanto crudeli. Ma erano bufere d'estate. Il più
delle volte dopo essere andati a scuola a malincuore, vi ci trovavamo
così bene. Se avevamo un professore simpatico, che possedesse una bella
voce, un accento caloroso, noi lì tutt'orecchi a sentirlo, si credeva
di esser sollevati insieme alla panca chi sa a quali altezze, e i
nostri cuori battevano per un palpito nuovo. Era forse sete di gloria,
era bisogno indistinto d'amore, chi lo sa? E dove mettiamo gli accurati
lavori col temperino che abbiam fatto sulla nostra panca? La scultura
in legno deve sicuramente essere stata inventata sulle panche della
scuola. Là iniziali che si confondono, geroglifici che s'intrecciano,
tentativi di profili impossibili, saggi d'ornato bizzarri, studi di
storia naturale audacissimi, solchi che in parte seguono le venature
del legno, in parte tengono una direzione opposta e formano una linea
tremula come corda di lira pizzicata, cavità profonde e paurose,
come se lo studente avesse voluto fare un piccolo pozzo artesiano, un
guazzabuglio insomma quale può uscire da cento testoline bizzarre e da
cento mani l'una più inquieta dell'altra.
Che se poi uno abbia avuto lunga dimestichezza con la scolaresca,
come gli sarà facile animare, vivificare la scena! Ivi stettero a
fianco ignari dell'avvenire i più disparati ingegni e i più diversi
caratteri, il futuro commesso e il futuro ministro, quegli il cui
nome si perderà nella folla e quegli che raccomanderà ai secoli la
sua fama. E furono, qual più qual meno, amici tutti, o alla peggio
le inimicizie loro durarono poco; chi sa invece che cosa saranno
nel mondo? Forse non s'incontreranno mai più, forse s'incontreranno
soltanto per osteggiarsi, forse uno finirà col calcare il piede sul
collo dell'altro.
Il signor Antonino non aveva mai brillato per una fantasia vivace, e
anche nei più belli anni della sua giovinezza, egli poteva dire di non
aver provato le schiette gioie dell'immaginazione.
Ma adesso, fissando quelle panche, al cospetto di quegli intagli
bizzarri, egli vedeva una quantità di figure disegnarglisi davanti, e
moversi, e prendere atteggiamenti diversi, e cento volti dimenticati
ripigliar forma e colore. Era la scolaresca di trent'anni confusa
insieme.
Ecco un nome. Chi era costui? Il professore Antonino chiudeva gli
occhi un momento e poi lo vedeva tal quale lo aveva visto forse dieci o
quindici anni prima. È un giovinetto bruno, dai capelli ricciuti, dagli
occhi pieni di fuoco, alto, smilzo; sì, sì, è proprio lui. Anch'egli
indisciplinato all'estremo. E ora dove è andato mai? Vicino a lui
c'era.... chi c'era? Vediamo di raccapezzarci.... Ah sì!.... Da una
parte un ragazzino timido che pareva un bimbetto, che non fiatava mai,
altro che, pur troppo, nell'ora della calligrafia. Non c'era quanto lui
per imitare il miagolio del gatto. Adesso è impiegato alle ipoteche.
A sinistra poi.... no, lo scolare di sinistra il professore Antonino
non poteva farselo tornare a mente. Ma di dietro invece, nella panca
successiva, era tutta una fila di ragazzi che gli pareva aver davanti
gli occhi. Che panca terribile era quella! Che demonî! Bisogna però
eccettuarne uno il quale sedeva nell'angolo vicino alla parete. C'erano
ancora le sue iniziali A. E. Sicuro, si chiamava Angelo Emanuelli,
poverino! Era pallido, tossicoloso; d'inverno aveva sempre freddo,
d'estate pativa il caldo in modo straordinario. I suoi condiscepoli
lo chiamavano _agnello_ e gli amministravano una dose straordinaria
di scappellotti. Egli non si lagnava, non serbava rancore ad alcuno,
e diligente com'era faceva le lezioni di tutti. Povero figliuolo! È
morto. Il signor Antonino si ricordava che alcuni anni addietro nelle
vacanze d'autunno, l'Emanuelli era venuto a fargli visita insieme con
sua madre, una donna abbrunata, dalla cera pallida e dall'aria stanca
come suo figlio.
Una visita in casa del signor Antonino era un avvenimento.
Il professore Antonino era solo; sua sorella, grazie a Dio, si trovava
in campagna. Egli corse ad aprire la porta e disse confuso — Caro
Angelo.... stimatissima signora.... prego, si accomodino.... — Poi
senza nemmeno terminare la frase, volò nella sua camera da letto, e
indossato un abito un po' più pulito, si ripresentò rosso come una
fanciulla a cui si parli la prima volta d'amore.
— Che onori!... In che cosa posso?... Mi dispiace che trovano tutto
in disordine.... Non c'è mia sorella.... (Ci mancherebbe altro che ci
fosse — egli soggiunse in cuor suo).
— Per carità, professore, non si dia pena per noi, — disse la signora.
— Lei è così buono, che siamo venuti a chiederle un favore.... Angelo
fu malato alcuni giorni.... Ora sta meglio, ma non si è ancora liberato
dalla tosse....
E Angelo, come per dar ragione a sua madre, tossì un paio di volte.
— Ecco, capisco che la scuola è fatica soverchia per lui, — continuò
la signora con un tremito nella voce. — Non voglio sforzarlo....
Siamo stati tanto disgraziati. Veda, vesto ancora il bruno per una
figliuola.... E prima, di lei ne ho perduti altri due..... e mio marito
anche lui..... sempre dello stesso male.... Ma questo qui bisogna che
mi resti — continuò la madre asciugandosi le lagrime e cingendo con un
braccio il collo del suo Angelo come se volesse difenderlo.
— Si calmi, signora, si calmi — rispose il buon professore, — posso
offrirle un bicchier d'acqua? Ha ragione, ha ragione, non lo mandi più
a scuola. Poveri ragazzi! Li ammazzano con questi nuovi sistemi.
— Ecco ciò che volevo chiederle, — ripigliò la signora poichè si fu
ricomposta alquanto, — scusi sa, perchè in mezzo a tanti dispiaceri ho
quasi perduta la testa.... Il mio figliuolo potrebbe andare intanto
due ore al giorno nel banco d'un amico di mio marito buon'anima....
Due ore sole per adesso.... fin che Angelo sia divenuto più forte...
gli darebbero quindici lire al mese.... pochine, ma tanto per
cominciare.... Senonchè, c'è un guaio; vorrebbero che il ragazzo
sapesse scrivere in _rotondo_, e Angelo dice che non sa, che non lo ha
studiato.... Pretesti, forse.
— No, no, — si affrettò a interrompere il professore Antonino, — il
_rotondo_ non l'ho insegnato nella sua classe.
— Ebbene, allora vorrei ch'Ella avesse la bontà di dargliene qualche
lezione, così per metterlo sulla strada. Il resto lo farà egli da
sè....
— Ma sì, ma sì, — sclamò il Bottaro beato di fare un piacere.
— Noi compenseremo secondo le nostre forze....
— Nemmeno per idea.... non voglio neanche sentirne a discorrere.... No,
signora Emanuelli, se parla di compensi si rivolga ad altri.... Angelo
verrà da me per una, per due settimane, anche tutte le mattine se può,
e vedrà che bel _rotondo_ egli imparerà a scrivere in cinque o sei
lezioni.... Siamo intesi, non è vero?
La signora Emanuelli stette alquanto perplessa, tornò a tirar fuori
la questione del compenso, ma finì col cedere all'insistenza del
professore e disse commossa: — Giacchè il professore è tanto gentile
non so come rispondere con un rifiuto. Angelo che dici al professore?
— Grazie, — bisbigliò il ragazzo.
— Nulla, nulla, caro, — replicò il signor Antonino. — Vuoi cominciar
domattina?
Angelo guardò sua madre, poi disse: — Sì, professore.
— Allora siamo intesi.
— E il signor Antonino accompagnò fino giù delle scale il suo scolaro
e la madre di lui che si profondeva in ringraziamenti.
Angelo Emanuelli prese otto lezioni, poi entrò nel nuovo ufficio, poi
venne a fare una visita al professore, poi non lo si vide più.
Il presentimento della povera madre si era avverato. Il ragazzo era
morto della malattia dei suoi fratelli e del suo babbo, era morto a
sedici anni.
E il professore Antonino lo aveva dimenticato, quando le due iniziali
scolpite sulla panca lo richiamarono alla sua memoria. Egli rivide
ancora quella fisonomia languida, sparuta, egli intese ancora sonarsi
all'orecchio quella tosse secca, insistente, e la voce di quella povera
madre, adesso morta anche lei, che diceva: — Ma questo qui bisogna che
mi resti.
. . . . . . .
Chi sa fino a quando il professore Antonino sarebbe rimasto immerso in
siffatti pensieri se uno scolaro non gli avesse picchiato leggermente
sulla spalla!
— Che c'è? — proruppe il Bottaro in tuono meno rimesso del consueto.
— Signor professore, le consegno il mio elaborato, — rispose il ragazzo
guardandolo in aria di mezza canzonatura.
— Oh!... Ha ragione.... hai ragione, caro.... Dunque hai finito? — Va,
va, che andrà tutto benissimo.
Al primo studente ne successe un secondo, al secondo un terzo, al terzo
un quarto e così via via fino all'ultimo.
— Ma bravi, ragazzi, come avete fatto presto quest'oggi!
Il signor Antonino non s'era accorto del tempo ch'era passato
mentr'egli stava fantasticando, e non aveva avvertito affatto un'altra
cosa, quella cioè che i giovinetti, non disturbati punto dalla sua
sorveglianza, s'erano a loro agio consultati, copiati, corretti a
vicenda, onde i varii còmpiti si somigliavano fra loro come tanti
gemelli.
. . . . . . .
Uscito l'ultimo studente, il professore Bottaro, col piego degli
elaborati sotto il braccio, salì la scala che conduceva in Direzione e
consegnò nelle mani del Preside il suo prezioso deposito.
— Grazie, professore, — disse questi con amabilità, — grazie. La
pregherò poi d'intervenire alla conferenza per le classificazioni....
Ma che cos'ha che mi pare turbato?
— Scusi, cavaliere, — balbettò il calligrafo, — non so nemmen io che
cos'abbia.... Ha già inoltrato la mia istanza?
— No, — rispose il Preside togliendo da un mucchio di carte il
documento che gli era stato consegnato nella mattina dal professore. —
No, è ancora qui.
— Potrebbe darmela un momento?
— Eccola.
— Se me la lasciasse fino a domani, — continuò timidamente il nostro
Antonino. — Vorrei pensarci su.
— Davvero? — disse il Preside, componendo le labbra ad un sorriso un
tantino ironico.
— E posto il caso ch'io sospendessi la domanda della pensione fino
all'anno venturo, ne avrebbe dispiacere?
— Oh si figuri, — rispose coi denti alquanto stretti l'interrogato.
— È dal suo punto di vista.... Mi pare che, poichè la legge le da il
diritto al riposo.... Ah se fossi nel caso suo! — sospirò il Preside,
guardando macchinalmente il calendario ch'era sul tavolino, come se
potesse leggere colà gli anni che gli mancavano a terminare il suo
servizio.
— Ah, per lei è un'altra cosa, — ripigliò il professore di calligrafia,
che a poco a poco trovava il coraggio e quasi l'eloquenza. — Lei è
una brava persona, e quando avesse il riposo, si consacrerebbe a' suoi
studi, starebbe in mezzo a' suoi manoscritti, alle sue biblioteche....
Il Preside scrollò le spalle quasi a significare: — Povero grullo! come
t'inganni!
— Ma io, — seguì a dire il nostro Antonino, senza badare ai gesti
del suo interlocutore, — io che devo fare? Occuparmi in esercizi di
calligrafia per mio conto?
— Potrebbe ad ogni modo dar qualche lezione privata....
— E allora è meglio che rimanga qui. Tanto e tanto mi tocca lavorar lo
stesso, e qui almeno ho preso affezione all'ufficio.
— Perchè, — incalzò il Preside, — mi pare che questi benedetti ragazzi
non si contengano con lei come dovrebbero.
— Si esagera, sa, — ripigliò un po' confuso il signor Antonino, — fanno
qualche volta del chiasso, ma è piuttosto colpa mia che di loro. Del
resto, vede, nella calligrafia non occorre tutto quel raccoglimento che
è necessario nelle altre materie.... Ma, in ogni maniera, quest'anno
non c'è stato male. E mi pare ormai che ogni anno andrebbe meglio.
Il Preside non potè a meno di sorridere. Indi soggiunse a modo di
conclusione: — Che vuole che le dica? Ci pensi.

Il professore Antonino ci ha pensato. Egli deliberò di rimettere la sua
dimissione all'anno successivo. Scorso il termine fu di nuovo in grandi
incertezze, e poi decise di aspettare.
Così egli insegna ancora calligrafia nell'Istituto di ***. Gli studenti
continuano a prendersi con lui le solite libertà; i colleghi non
lo tengono in nessun conto, la signora Bettina lo strapazza senza
misericordia, perchè non lascia la scuola e la scolaresca; anche il
bidello, suo abituale confidente, lo consiglia a mettersi in quiete,
ma il signor Antonino è ormai convinto, che il giorno in cui egli
abbandonerà definitivamente il suo ufficio, si potrà preparargli la
necrologia.


L'OROLOGIO FERMO

Non vedevo Federico Vivaldi da più di quindici anni.
Eravamo stati a scuola insieme; poi come il solito, ciascuno era andato
per la sua strada e ci si era perduti d'occhio. Nel 1866 avevo letto il
suo nome tra i feriti della fazione di Monte Suello; più tardi seppi
ch'egli esercitava l'avvocatura nella sua città natale, una piccola
città di provincia. Pareva che non s'ingerisse nelle lotte politiche,
poichè non m'era accaduto di sentirlo mai menzionare tra i candidati al
Parlamento, o tra i consiglieri provinciali, o tra i pubblicisti, o tra
gli oratori dei _meetings_. Chi sa? Forse, non era nemmeno cavaliere.
Come le apparenze ingannano! A scuola gli si sarebbe presagito un
luminoso avvenire. Imparava ogni cosa prestissimo scriveva con buon
gusto, parlava con facilità, e teneva, se non il primo, uno dei primi
posti.
Un affare mi conduceva adesso nella città e nella casa di Federico.
Lo trovai alquanto mutato, ma non era da meravigliarsene; in quindici
anni ero ben mutato anch'io. Egli aveva la cera pallida, l'aria trista
e patita, la barba e i capelli brizzolati di bianco.
Il nostro incontro fu cordiale ma senza straordinaria espansione. Due
uomini che si vedono dopo un lungo intervallo hanno un bel corrersi
incontro con entusiasmo; essi sentono subito che le amicizie non si
ripigliano dove si sono lasciate.
Federico pareva anche più riguardoso di me.
— Sei stato sempre bene? — gli chiesi.
— Sì, — replicò brevemente.
— E la tua ferita?
— Oh! Una cosa da nulla.
Dall'indole delle sue risposte, e dalla fretta con cui egli entrò a
discorrere dell'affare che doveva formar soggetto del nostro colloquio,
argomentai ch'egli fosse diventato uno spirito positivo, incapace di
far altro da mattina a sera che compulsar codici e di trattar cause.
Anzi, Dio mel perdoni, giunsi fino ad accusarlo di calcolar tempo
perduto tutto quello che non si può far figurare nelle specifiche.
Egli parlò per più di un'ora esaminando da tutti i lati con molto acume
e molta lucidezza la questione che mi aveva chiamato da lui.
Ci mettemmo pienamente d'accordo; dopodichè egli mi chiese licenza di
rovistare alcune buste per cercarvi un documento che gli occorreva.
— Or ora, se vorrai, usciremo insieme, — egli soggiunse. Lo disse in
tuono così freddo che avrei avuto una gran voglia di piantarlo lì,
ma in quel paese non conoscevo nessuno; che dovevo fare? Mi alzai da
sedere, diedi un'occhiata a una piccola biblioteca che non conteneva
nulla di peregrino; quindi mi affacciai alla finestra.
— Che bella vista! — dissi tanto per non restare in silenzio.
— È più bella dall'altra stanza, — osservò Federico che aveva trovato
il documento e mi si era avvicinato. — Passa pure.
E, tenendo aperto un uscio, mi introdusse in una camera molto semplice
ma molto pulita, dalle cui finestre lo sguardo abbracciava un'ampia
distesa di colline e di ville.
— Tu dormi qui? — gli chiesi.
— Sì. È la mia camera da letto.
— Come dev'esser piacevole aprir gli occhi la mattina e vedersi davanti
questo immenso orizzonte!
— Voi a Venezia non ci siete avvezzi. Però adesso c'è troppo sole, —
egli continuò, — e bisogna abbassar le tendine.
Mentre Federico eseguiva questa operazione i miei occhi si fissarono a
caso sopra un orologio a dondolo ch'era collocato su un canterale e che
segnava le sei e quindici minuti.
— Oh, — diss'io, — quell'orologio è matto.
— È fermo, — egli rispose in furia come se le parole gli bruciassero la
lingua.
Era un orologio di forma antica il cui disco cilindrico poggiava su due
colonnine d'alabastro coi piedestalli e i capitelli di bronzo. Sulla
mostra di maiolica erano incisi il nome della fabbrica e l'anno di
fabbricazione — 1822.
— È un oggetto da museo, — ripresi ridendo, e mi chinai per vederne più
da presso il meccanismo. Non so se facessi atto di prendere fra le dita
il capo di un cordoncino che pendeva fra le colonne. So che Federico mi
afferrò il braccio e mi gridò:
— Non lo toccare! — con tale un accento ch'io mi voltai in sussulto,
temendo quasi di aver dato fuoco a una miccia.
— In nome del cielo, che cosa c'è? — esclamai sbigottito.
— Perdonami, — rispose il Vivaldi con voce più calma e tentando di
comporre le labbra a un sorriso. — Avevo paura che tu movessi le
lancette di quell'orologio.
E mentr'egli pronunziava queste parole, i suoi occhi s'inondarono di
lagrime.
Lo guardai commosso ma senza osare d'interrogarlo, giacchè egli non mi
sembrava disposto alle confidenze.
Ci fu un buon minuto di silenzio, e mi parve un secolo.
Alla fine Federico incrociò le braccia e si appoggiò alla spalliera di
una seggiola volgendosi verso di me.
— Ti ricordi, — egli mi disse, — di venti anni fa quando passammo la
domenica e il lunedì della Pentecoste in villa di Fausto Rioni, presso
Sacile?
— Sicuro che me ne ricordo, — replicai non intendendo bene ove egli
volesse mirare. — Fausto Rioni che adesso è deputato.... Ho perso di
vista anche lui.
— E quella nostra salita sul ciliegio, te ne rammenti?
— Aspetta che mi raccapezzi.... ah sì.... sì.
— Era il dopopranzo della domenica. Noi due ci si era rampicati lì
in alto e intanto una mezza dozzina di fanciulle stavano a' piedi
dell'albero, e gridavano. — Coraggio dunque! Fate le cose a modo. — E
noi spiccavamo le ciliegie fin dove si poteva arrivare con le mani, e
poi scrollavamo i rami con quanto fiato ci restava in corpo. Era una
pioggia di frutti, che le bimbe raccoglievano o nelle falde del vestito
o nel grembialino spiegato.... Di quelle bimbe tre erano le sorelle
di Fausto, tre erano loro amiche.... La maggiore poteva contare dieci
anni.... Era una fanciulla alta, bionda, con due lunghe treccie che le
cadevano giù per le spalle.... con due grandi occhi azzurri, pieni di
dolcezza e d'ingenuità....
— Oh adesso che ci penso, — esclamai, — l'ho presente anch'io....
Lascia ch'io compia la tua descrizione.... Le sue treccie bionde erano
annodate da due fettuccie di seta blu....
— È vero....
— Vestiva un abitino di percallo bianco con fioretti rossi....
— Sì, sì.
— La chiamavano.... Oh! qui la memoria mi tradisce....
— La chiamavano Virginia.
— Sicuro, Virginia. Ebbene?
— Ebbene, parecchi anni dopo quella fanciulla divenne mia moglie.
Mi guardai intorno. La camera da letto di Federico non era una camera
nuziale. Indovinai un lutto domestico.
— È morta.... forse? — chiesi con esitazione.
Il Vivaldi chinò il capo con un cenno affermativo e si portò la mano
sugli occhi.
— E da poco tempo? — continuai.
— Oh.... no, — egli rispose, — dal marzo del 1866.
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