Alla finestra: Novelle - 13

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— E allora bisogna sorvegliarla, — replica il giovinotto guardando con
stizza i suoi calzoni caffè e latte che presentano l'aspetto di una
carta geografica.
Questo era il punto vulnerabile, e l'impiegato slancia un'occhiata
fulminea alla sua metà che stava catechizzando il fanciullo
e brontolava quasi parlando a sè stessa. — Sorvegliare....
sorvegliare.... Son cose presto dette... Un folletto di tre anni....
Vorrei che il signore fosse al mio posto.
— Sicchè, a sentir la signora, dovrei ringraziare... chieder scusa io.
E giù un'altra occhiata alle gambe.
— Non dico questo; anzi scusi, ma santo Iddio, senza un po' di pazienza
a questo mondo.... Ce ne abbiamo tanta noi impiegati.... E poi, stia
certo, non lascia macchia....
Il battibecco minaccia di non finir più quando il fischio della
locomotiva annunzia l'avvicinarsi di un'altra stazione. Era quella a
cui dovevo scender io e per buona ventura della famiglia del _Travet_
anche il giovinotto, vittima del fatale accidente.
— Corpo di Satanasso! — esclama costui levandosi in piedi e guardando
sempre quei benedetti calzoni. — Come si fa adesso?
— Perdoni, non ha un _plaid_? — dico io intervenendo nella questione.
— Sì, signore.
— Lo tenga in modo che le cada sul davanti.... Così.... Benissimo....
Adesso non si vede nulla.
— Ma un bel gusto, sa, con questo caldo a tenersi il _plaid_ fino ai
piedi.
— Crederanno che abbia le febbri intermittenti.... Il peggio sarebbe....
— Che si vedesse.... Capisco....
— Dunque dei due mali il minore.... Oh non c'è tempo da perdere.... Qui
il treno non si ferma che un mezzo minuto.
— Scende qualcuno? — dice il conduttore affacciandosi allo sportello.
— Sì, due.
E siamo in terra d'un salto.
— Ecco due posti, — ripiglia lo stesso conduttore voltandosi verso due
viaggiatori, che dopo essersi accommiatati con molti baci da un gruppo
di parenti e di amici cercavano una carrozza di seconda classe in cui
salire.
Questi due non lasciano dubbio alcuno sull'esser loro. Sono due
sposi novelli. Lo si vede all'aspetto raggiante, al vestito accurato,
all'abbandono soave con cui la giovinetta si appoggia al braccio del
valido marito. Entrati che sono nello scompartimento essi rinnovano
l'addio agli amici e ai congiunti. I loro volti ilari che si toccano
quasi nel vano del finestrino fanno un singolare contrasto con le
fisonomie malinconiche delle due signore abbrunate: il loro saluto
alla lieta schiera che li ha accompagnati alla stazione è ben diverso
da quello che le due donne avevano mandato prima alla casetta bianca
perduta nella campagna; per la coppia felice l'avvenire è tutto gioia
e speranza. Chi sa che vicende le riserbi la sorte?
Il treno s'è dileguato, ma ancora si vede fra gli alberi il suo
pennacchio di fumo. È scomparso anche il viaggiatore dai calzoni
color caffè e latte. Il guardiano della stazione (una piccola stazione
intermedia) mi squadra con curiosità dalla testa ai piedi. Che cosa
faccio? Che cosa penso? In verità non faccio nulla, non penso a
nulla.... Ma, dopo tutto, in due ore di ferrovia, che avvicendarsi
di persone, che contrasto di faceto e di serio, e per chi conosce
la voluttà del sorriso e delle lagrime, che miniera inesauribile di
sensazioni!


LA DEMOCRAZIA DELLA SIGNORA CHERUBINA

La signora Cherubina Spiccioli, moglie del signor Innocente Spiccioli,
negoziante arricchito alla Borsa, aveva inaugurato da tre venerdì il
suo nuovo salotto. Un amore di salotto con tappeto di felpa, tendine di
seta, mobili con dorature ed intagli. Sulle cantoniere cento gingilli,
sulla mensola un magnifico orologio a dondolo con puttini di bronzo
che ne reggevano il disco, pendente dal soffitto una gran lumiera di
cristallo; alle quattro pareti quattro nitidissimi specchi di Francia,
in cui la signora Cherubina aveva la soddisfazione di vedersi riflessa
quattro volte.
La signora Cherubina Spiccioli era anch'essa addobbata sfarzosamente
come il salotto e si pavoneggiava sopra una sedia foderata di velluto,
appoggiando i piedi sopra un piumino di lana a fiori. Aveva alla destra
la signora Veronica Somariva, moglie di un pretore, e alla sinistra la
signora Pasqua Orsolini, consorte di un farmacista, vestite entrambe
abbastanza dimesse e atteggiate a un ossequio riverenziale che avrebbe
dovuto lusingare la vanità della signora Cherubina.
Ma la signora Cherubina era in quel giorno di pessimo umore, perchè
la contessa Basili che era la pigionale del primo piano, non le aveva
ancora restituita la visita. E il pessimo umore della signora Cherubina
si manifestava in escandescenze democratiche.
— Sì — ella gridava inferocita — bisogna finirla con questo sciocco
pregiudizio della nobiltà. Chi sono queste schizzinose che non si
degnano di stare con noi? Non sono anch'esse di carne e di ossa
come noi altre? Vogliono imporci perchè si chiamano marchese,
contesse, duchesse? O credono forse che non si sappia che c'è stato
l'ottantanove?
— L'ottantanove — interruppe la signora Pasqua — è uscito anche
nell'ultima estrazione.
— O signora Pasqua, che dice mai? — esclamò ridendo la signora Veronica
ch'era un po' donna di lettere; — non si tratta di un numero del lotto,
ma di un anno.
La signora Pasqua si fece rossa, ed estraendo il fazzoletto da un
manicotto di pelo di gatto si soffiò romorosamente il naso.
Ma la signora Cherubina, senza curarsi di quest'incidente, continuò,
gonfiando la voce:
— E si dice che siamo in un'epoca di libertà, in un'epoca di
uguaglianza! È un obbrobrio.... Una casta a parte in questo secolo!....
In nome di che?... Sono più belle di noi?.... Sono più virtuose?
Domandiamolo ai loro mariti.... Più eleganti? Io credo che noi altre
(parlo di quelle che possono) si vesta come si vestono loro... E noi
si paga il conto... E le nostre case (parlo sempre delle famiglie che
possono) non sono forse addobbate come le loro?... Mi guardi il cielo
dal citarmi ad esempio, ma vorrei sapere se questo salotto non è tale
da potervi ricevere chiunque, fosse anche l'imperatore del Mongol!...
Un tappeto, signora Veronica, che mi costa la bellezza di sette lire
al metro, e il negoziante m'ha giurato che ne vendè uno di simile
alla marchesa Liani.... Anche le tendine son tali e quali quelle della
baronessa Rodolfi.... Abbiamo lo stesso tappezziere.
La signora Pasqua e la signora Veronica si sdilinquirono in parole
d'ammirazione circa al tappeto e alle tende della signora Cherubina.
— No, no — rispose costei schermendosi modestamente. — Dico per
dire.... che in fin dei conti noi siamo _chic_ quanto loro, e questa
superbia muove lo stomaco... So io quello che ci vorrebbe — ella
soggiunse in tuono misterioso e solenne: — Un novantatrè ci vorrebbe.
— Avrà da aspettarlo un pezzo — era sul punto di dire la signora Pasqua
considerando che questo numero non era compreso nella cabala. Ma per
sua fortuna ella ricacciò le parole nella gola.
— Basta, mi perdonino questo sfogo — ripigliò la signora Cherubina
facendosi fresco con un fazzoletto di battista profumato di _patchouli_
— e discorriamo d'altro. Come vanno le feste di ballo al casino?
— Ma! bene — rispose la signora Veronica. — Iersera c'erano
cinquantacinque signore... Dovrebbe venirci anche lei, signora
Cherubina. Il cavaliere suo marito è socio!
— Sì.... voleva anzi condurmi.... Verrò forse.... Ma non so come sia,
le feste di società mi piacciono poco.... Dico il vero, c'è troppa
mescolanza... Io sono democratica, mi pare che non ci possa esser
dubbio in proposito; ma quel trovarmi a contatto di certa gente....
Via, mi dica che signore di conoscenza c'erano.
— Tanto per non dimenticarmi, c'ero io....
La signora Cherubina chinò leggermente il capo con aria di degnazione.
— E poi?
— C'era la signora Pasqua.
— Oh per me — disse la persona nominata raggomitolandosi tutta per
eccesso d'umiltà.
La signora Cherubina fece una smorfia quasi impercettibile.
— Le due Azzolini — continuò la signora Veronica — due belle ragazze.
— Quelle che han per madre una contessa Ruspi di Ferrara? — chiese
premurosamente la signora Cherubina.
— Appunto... C'era anche la madre.
— Ah c'era anche lei.... Una donna che si conserva bene....
— Non dimentichi la signora Coradelli — suggerì la moglie del
farmacista alla signora Veronica. — Una sposa.... bellina tanto.
— Quale Coradelli? Sposa di chi? — interruppe la signora Spiccioli
arricciando il naso.
La signora Pasqua, intimidita dall'accento e dal gesto della padrona
di casa, rivolse alla signora Veronica uno sguardo supplichevole che
significava:
— Venga in mio aiuto.
La _pretoressa_ tentennò il capo come persona che comprende essersi
toccato un cattivo tasto; pure messa alle strette diede alla signora
Spiccioli la spiegazione voluta.
— La moglie di Gaetano Coradelli, il negoziante... quello ricchissimo.
— Negoziante di oggetti di guttaperca! — esclamò la signora Cherubina
nel massimo scandalo. — È proprio vero?... E poi si lagnano se non
si va alle loro feste?... Ma non c'è una commissione di scrutinio
al Casino? Ma accettano dunque il primo venuto purchè paghi sessanta
lire all'anno? L'ho sempre detto io che questo è un paese ove non è
possibile la vita di società. Io sono democratica, ma questa non la
posso mandar giù. Il signor Coradelli!.... Un uomo che vende fianchi
artificiali e che cingendo la vita della sua ballerina può riconoscer
la roba sua sotto il vestito!...
Espresse queste savie considerazioni, la signora Cherubina Spiccioli si
avvolse silenziosamente nella sua maestà di regina offesa.
— Che continuazione di belle giornate! — osservò la signora Veronica
per rianimare il dialogo.
La signora Cherubina non rispose, ma con un cenno del capo mostrò di
partecipare all'opinione della sua interlocutrice. Quindi, tornando al
suo tema favorito:
— Ecco — soggiunse — se si potesse mettere insieme una società della
buona borghesia, una società a modo, come io la intendo.... una società
insomma da farla tenere a queste signore contesse e marchese....
rendendo loro la pariglia....
— Col non invitarle — disse la _pretoressa_.
— Nemmeno una.
In quel punto il servo sollevò la portiera e annunziò la contessa
Basili.
La nobil dama insignita di questo nome cospicuo si presentò sulla
soglia e fece il più compito inchino che possa immaginarsi.
La signora Cherubina diventò rossa come un gambero cotto, si alzò
tutta d'un pezzo, come se le fosse scattata sotto una molla, nella gran
furia inciampò prima nel piumino, poi in un lembo del proprio vestito;
nondimeno riuscì a mantenersi in equilibrio e corse verso la nuova
arrivata. La signora Veronica e la signora Pasqua si levarono in piedi
esse pure.
— Contessa — balbettò la signora Spiccioli stentando a trovar le
parole, tanto era commossa. — Quale onore!... Ha voluto disturbarsi.
Davvero che non osavo sperare.... La prego, s'accomodi.... qui, vicino
a me.
E le additò la sedia davanti alla quale stava ritta la signora Pasqua
che dovette cedere il posto e accomodarsi un po' più lontano. La
contessa Basili si guardò intorno con l'occhialino, poi disse:
— Prima di tutto ero venuta per fare un dovere.
— Un dovere! che dice mai? — interruppe la signora Cherubina,
conservando quella magnifica tinta scarlatta di cui ella si era suffusa
al giungere della illustre pigionale del primo piano. — Un dovere?...
È tutta bontà sua.
E strinse con effusione la mano alla contessa.
Intanto la signora Veronica e la signora Pasqua allungavano il collo
come due colombe in amore per vedere di essere presentate alla gran
dama. Ma la gran dama si limitava a guardarle di tratto in tratto
con l'occhialino, e la signora Spiccioli non aveva nessuna voglia
a far sapere alla contessa che ella era in qualche intimità con la
moglie di un farmacista e di un pretore. La contessa era prossima ai
quarant'anni, aveva la bocca un po' grande e il naso un po' lungo,
usava senza troppo risparmio il nero sulle ciglia e il minio sulle
gote, onde un giudice imparziale l'avrebbe detta piuttosto vecchia
che giovine, piuttosto brutta che bella. Ma la signora Cherubina era
in estasi; nelle orecchie intente, negli occhi umidi e imbambolati,
nell'atteggiamento tutto della persona le si leggeva l'ammirazione
sconfinata, profonda, simile a quella che un devoto o un artista
potrebbe sentire davanti a una Madonna di Raffaello.
— Lei mi confonde — ripigliò la contessa con un sorrisetto. — Volevo
dire che la mia visita aveva anche un altro scopo.
— Un altro scopo?... Parli, signora contessa, mi comandi... ove posso...
— Noi daremo, lunedì quindici, una festicciuola.... senza pretesa...
e io sono qui a pregarla di volerci favorire con suo marito.... Sarà
per le dieci di sera... Mi dice di sì? — soggiunse la contessa con voce
melliflua ed insinuante.
Il ritardo della signora Cherubina nel rispondere dipendeva
dall'eccesso della gioia. Essere invitata dalla contessa Basili in
persona, alla presenza della signora Somariva e della signora Orsolini
che potevano rendere testimonianza del suo trionfo, era tal fatto da
togliere il dominio di sè anche a una donna più forte della signora
Spiccioli.
— E come potrei dire di no, signora contessa? — ella rispose finalmente
con l'accento con cui la Ristori avrebbe potuto declamare la _Francesca
da Rimini_.
— Siamo intesi dunque — ripigliò la contessa. E poi si mise a
conversare di cose indifferenti.
La signora Pasqua e la signora Veronica, visti riuscir vani tutti gli
sforzi per richiamare l'attenzione della padrona di casa sopra di loro,
non tardarono ad accommiatarsi, senza che la signora Cherubina dicesse
una parola per indurle a prolungare la loro visita. Dovevano oramai
essere persuase della sua superiorità; la loro presenza non giovava più
a nulla.
— Ha visto? — disse la signora Pasqua alla signora Veronica appena
furono giù delle scale! — A proposito di democrazia! Ci ha lasciate
andare quasi senza salutarci.
La _pretoressa_ schizzava veleno, ma rispose seccamente: — È una
indegnità. — Poichè ella era convinta che se non vi fosse stata la
moglie del farmacista la presentazione avrebbe avuto luogo per lei. E
non oserei affermare che la signora Pasqua, malgrado la sua singolare
modestia, non avesse un'opinione analoga a quella della signora
Veronica.
— Chi sono quelle due signore? — domandò la contessa Basili alla
signora Cherubina quando rimase sola con lei.
— Oh! — disse questa con noncuranza. — Una certa signora Somariva e una
certa signora Orsolini... Sa... vecchie conoscenze.
E si affrettò a mutare discorso.
Di lì a qualche minuto la contessa Basili si alzò per andarsene e la
signora Cherubina, dopo avere tirato il campanello con tanta forza
che gliene rimase in mano la nappa, volle accompagnare l'eccelsa
visitatrice sino al fondo dell'anticamera ove le ripetè in mille modi
i suoi ringraziamenti. Poi tornò trionfante in salotto e fiutò con
ineffabile compiacenza il profumo di muschio che la contessa aveva
lasciato dietro di sè. Finalmente, giacchè non le capitavano altre
visite, ella passò nel gabinetto attiguo e scrisse una riga alla sarta
ordinandole di recarsi tosto da lei.
La signora Cherubina intervenne sfolgorante di gemme alla festa
della contessa Basili ed ebbe la insigne soddisfazione di ballare con
parecchi giovinotti della gran società, e di essere presentata ad altre
due contesse e ad una marchesa. Onde il nuovo salotto di casa Spiccioli
non istette molto a popolarsi di gente _comm'il faut_, cosa dalla quale
la salute della signora Cherubina ritrasse maggior giovamento che non
ne avesse ritratto l'anno addietro da un mese di cura alle acque di
Recoaro. Nondimeno la signora Cherubina è sempre democratica, e se una
contessa non le restituisce presto la visita o non la invita ai suoi
balli, ella sente un fremito repubblicano nell'anima e invoca un altro
_novantatrè_.


LA CONFESSIONE DI DORETTA

— Oh bravo il signor Anselmo, — disse Doretta andando incontro al
nuovo venuto e prendendogli le mani nelle sue. — Capita a proposito.
Al confessionale io non vado, ma a un vecchio amico di casa, a uno che
m'ha visto fanciulla e che può quasi esser mio padre....
— Grazie.
— Di che?
— Di quel _quasi_.
— A lei insomma, — continuò la giovine, — sono disposta ad aprir
intieramente l'animo mio.... Sarà il mio confessore.
— Oh vi pare?
— Lo voglio, lo voglio assolutamente. È il primo servizio che le
domando dopo tanto tempo.... Non deve dirmi di no.
— Se credete proprio che sia necessario....
— Necessariissimo. Giudicherà lei.... Sono qui da due giorni a visitare
la mia famiglia, e mi si intenta un processo, per iniziativa di mio
marito.
— Cara Doretta, — interruppe il signor Anselmo, — non si potrebbe
prender la cosa con più flemma? E per esempio non si potrebbe sedere?
— Sediamo pure, — disse Doretta.
Ma seduta che fu, non rallentò la foga del suo discorso. Doretta, come
si vedrà, era alquanto ciarliera.
— Sa già di che si tratta.
— Veramente lo so molto poco,
— Lo sa meglio di me. Si tratta del tenentino Baraldi, che dicono mi
faccia la corte, e dal quale, a sentirli, io me la lascerei fare di
buon grado. Falsità se mai ve ne fu... Io vidi Baraldi per la prima
volta tre mesi or sono in Firenze dalla contessa Orelli... cioè non è
contessa niente affatto, ma vuol che la chiamino così... ormai non mi
accade più di trovare una persona che non sia nobile, e anche la mia
serva pretende d'esser cugina dei Peruzzi. Ma torno a bomba perchè non
mi piacciono le lungaggini. Ero dunque dalla contessa Orelli, di sera;
saremo stati una dozzina di persone al più. La Orelli aveva mal di
capo, e il salotto non era rischiarato che da due lumi a _carcelles_,
uno col cappello di carta rosa e l'altro col cappello di carta verde.
La padrona di casa, che stava dalla parte del lume verde, pareva un
limone acerbo, sua sorella, la Derilleri, che era accanto al lume rosa,
pareva una barbabietola. In mezzo c'era una zia con un profilo verde e
un profilo rosa, bellissimi entrambi a vedersi. Del resto, la Orelli e
la Derilleri son due donne mature che però non vogliono ancora battere
in ritirata. Della Orelli tutta Firenze sa che ha una relazione...
— Ma Doretta!...
— Oh una relazione platonica. Si figuri.... con un consigliere di
cassazione. Cosa vuol che facciano i consiglieri di cassazione anche
se vanno, come questo, ogni estate a Oropa per la cura idropatica? In
quanto alla Derilleri, le attribuiscono, sarà malignità, il vecchio
generale Roscio, e la chiamano l'ospizio degli invalidi, perchè
vogliono che prima di lui avesse il colonnello in pensione Merilli che
ha perduto una gamba a San Martino. Della zia non credo si dica nulla.
Ci mancherebbe altro... Con quel viso e quella persona! Una pedante che
quando non isputa sentenze s'addormenta in conversazione, e se per caso
si risolve a tacere quand'è svegliata, vi fa venir il capogiro a forza
di fregarsi le mani una sull'altra come se stesse lavandosele con acqua
e sapone.
— Questo però, Doretta, c'entra poco.
— Come, c'entra poco? Anzi c'entra moltissimo, scusi. Alle corte, la
sola donna giovine di quel salotto ero io; d'uomini c'erano i due
in carica presso le due sorelle, cioè il consigliere di cassazione
e il generale, poi un signore, arricchito, a quel che dicono, con
tre fallimenti di borsa; c'era un deputato, non so se di destra o di
sinistra, ma insulso sicuramente; c'era un letteratino, che Dio ce ne
scampi e liberi; c'era Baraldi e c'era mio marito. Levi un po' Baraldi
e me, e veda che compagnia. Perchè, mi lasci dire, mio marito è un
buonissimo diavolo, ma, via, non sosterrà che non sia noioso.... già è
marito; e pare che sia nell'istituzione dei mariti d'esser noiosi. Non
tentenni la testa così. Lei, signor Anselmo, non ha voce in capitolo.
Bisognerebbe che fosse donna e maritata per una settimana.... vedrebbe!
I mariti, anche quando sono piacevoli fuori di casa, sono, in casa,
sgarbati e brontoloni. Non c'è nulla che li contenti, nulla che non dia
loro l'occasione di far delle cantafère lunghe come l'anno della fame.
Ci si aggrappano alle sottane quando vorremmo che andassero via; se ne
vanno quando vorremmo che restassero; fanno tutto fuori di tempo. Se
poi ci accompagnano a spasso o a teatro hanno un muso lungo due palmi
finchè son soli con noi, e non principiano a rasserenarsi che quando
vedono le mogli degli altri. Così, alla fin fine, noi donne si sta meno
peggio quando si riesce a formare una partita doppia di due mogli e
di due mariti. In questo caso ci può essere un _chassez-croisez_ che
abbia qualche attrattiva.... Ma guai se il marito vuol restare in un
crocchio ove non ci sia altra donna che sua moglie e ci siano invece
parecchi uomini. Il signor marito è quello che guasta la conversazione.
Pare faccia apposta a metter sul tappeto i temi più scabrosi, più
sconvenienti. E se vi son proprio delle cose che non si posson dire
ad alta voce, eccolo chinarsi all'orecchio del vicino e susurrargli
qualche trivialità; e allora si sente scoppiettare intorno un riso
sguaiato che pare uno starnuto di gatti infreddati.
— Mia cara Doretta, voi avete molto spirito, ma mi permettereste di
dire una parola?
— Dica pure.
— Ecco, volevo dire che andando di questo passo non saprò mai più
quello che dovevo sapere.... Si sbaglia strada.
— Tutt'altro. O che strada avrei da tenere? Ma basta. Mi spiccierò.
Ho descritto l'ambiente in cui mi trovai la prima volta con Baraldi.
Era indispensabile. Può immaginarsi se si annoiava anche lui. Il
letteratino l'aveva inchiodato in un angolo, e con la scusa che Baraldi
si diletta di poesia gli declamava a mezza voce alcuni versi suoi.
Alla lunga, quando fu liberato dal suo seccatore, il giovine ufficiale
mi si avvicinò e si cominciò a discorrere. Egli mi dipinse coi colori
più vivi la sua dolorosa situazione di poco addietro. Il poeta in
erba gli stringeva forte il ginocchio fra il pollice e l'indice della
destra, e sia pel gran calore che metteva nella recitazione, sia per
non alzar troppo la voce, gli si era avvicinato col viso in maniera da
fargli sentir troppo il suo alito... e anche qualcos'altro. Era come,
diceva Baraldi, se mi fossi trovato nella vicinanza d'una cascata,
in mezzo a quella specie di polvere acquea che vi penetra nei panni
e nelle ossa... Insomma si rise un po' del letterato, un po' degli
altri componenti la società... Avremmo fatto crocchio a parte, ma
sfido io, tra quelle mummie! Mio marito mi piantava ogni momento gli
occhi addosso; che uggioso! Voleva che mi mettessi a far conversazione
con lui? Il giorno dopo Baraldi portò i suoi biglietti di visita:
_Lodovico Baraldi, luogotenente del Genio_. In un angolo la sua brava
corona di conte. Quella lì già non mi fa più impressione perchè ormai
l'hanno tutti. Dev'esser stampata in precedenza sul cartoncino. Nella
settimana il compìto ufficiale venne in persona da me. Era suo dovere.
Del resto egli non mi trovò sola. C'era la Rinucci, quella che ha un
occhio di vetro e i fianchi di _cautsciù_, tantochè assicurano che un
giorno ne abbia perduto uno per istrada. Sarà e non sarà. Faccio per
dimostrare che non vi fu un colloquio a quattr'occhi. Ma la Rinucci è
una cattiva lingua, e cominciò subito i suoi _cancans_. A sentirla, io
avevo dato appuntamento al tenente alle Cascine. Bisogna esser proprio
brutta com'è lei per inventar simili fandonie. Sicuro ch'io dissi a
Baraldi che quando sono a Firenze vado alle Cascine ogni giorno alle
quattro.... di qualche cosa bisogna pur discorrere.... Ma che colpa ne
ho io se le quattro son parse anche a lui un'ora buona per passeggiare?
Io andavo in carrozza, egli andava a piedi; naturalmente le carrozze
sul piazzale si fermano, e i pedoni vengono allo sportello a salutar le
loro conoscenti. Un giorno solo, tanto per isgranchire le gambe, sono
scesa un momento e ho fatto un giro....
— Col tenente?
— Sì, col tenente, e anzi son rimasta scandalizzata a veder la marchesa
Dal Pozzo che filava il perfetto amore percorrendo in su e giù un viale
sotto il braccio di un onorevole, il quale avrebbe fatto molto meglio
ad essere a Roma, ove, per causa di queste distrazioni dei signori
deputati, la Camera non è mai in numero.... Però io non mi immischio
negli affari degli altri.... Credo d'aver passeggiato dieci minuti....
Se ne fece un chiasso ridicolo.... Proibizione di andare alle Cascine
alle quattro, e poi gita a Bologna per passare qualche settimana in
famiglia. Adesso un altro _casus belli_, perchè Baraldi è venuto a
Bologna anche lui. O che ci posso far io? Sono il suo colonnello? La
gente non ha forse il diritto di viaggiar per le strade ferrate come
le pare e piace?... Anche mia suocera, che mi scrive dei sermoni,
dovrebbe un po' badare ai fatti suoi e pensare a quello che si dice
delle sue debolezze di gioventù.... perchè, quantunque a vederla non si
crederebbe, è stata giovine....
A questo punto l'orologio ch'era in salotto cominciò a batter le ore.
— Le tre forse? — chiese Doretta.
— No, le quattro.
— Le quattro! Diamine, diamine! Non posso trattenermi un minuto di
più.... Ho ordinato la carrozza per le tre e mezzo....
— Ma, Doretta, adesso tocca a me a parlare....
— Un altro giorno. Oggi è impossibile.... La mia confessione io la ho
fatta.
— Però vi osservo, figliuola mia, che avete confessato sopratutto i
peccati degli altri.... In quanto ai vostri...
— I miei sono così piccoli che meritano l'assoluzione piena ed intera.
E non dubito che persuaderà i miei genitori.
— Un momento....
— Non c'è momento che tenga. Grazie, signor Anselmo, e a rivederci.
E Doretta sgusciò via come una biscia, lasciando con un palmo di naso
il suo confessore.


LO SPECCHIO ROTTO

I.
Patatrac.
Patatin.
Questi due suoni si fecero sentire quasi contemporaneamente una
mezz'ora prima del tempo di desinare in casa del signor Pacifico
Rosettini, dottore in legge e possidente, e loro tenne dietro un
rumoroso pianto infantile. La signora Virginia, seconda moglie
del signor Pacifico, la quale sedeva nel salotto da lavoro curva
sopra un ricamo; il signor Pacifico stesso che stava preparando una
_conclusionale_; la cameriera Adelaide che apparecchiava la tavola, e
due ragazzini fra gli otto e i dieci anni tornati in quel momento dalla
scuola e ronzanti intorno alle casseruole della cucina, convennero
da vari punti sul luogo dond'era venuto il rumore, e accolsero con
differenti esclamazioni e domande un fanciullo che poteva avere poco
più di un lustro d'età e che scendeva una breve e agevole scaletta con
una guancia più rossa dell'altra, un gran furore negli occhi lacrimosi
e i due piccoli pugni stretti in atto di collera e di minaccia.
— Che c'è, Gino?
— Che cosa è stato?
— Hai fatto una delle tue solite?
— Ti sei fatto male?
— Che bambino senza giudizio!
— Via, strapazzatelo per soprammercato.
— Ih! Che strepito!....
In mezzo a questo fuoco incrociato di punti interrogativi ed
ammirativi, la signora Virginia s'era chinata sul bimbo, e presolo per
disotto le ascelle lo esaminava e palpava da tutte le parti.
— Via, via, non ha nulla, — disse il signor Pacifico.
Intanto il fanciullo singhiozzava — Cattiva nonna.... cattiva....
— Ah! È stata la nonna. Che cosa ti ha fatto?
Gino segnò la guancia sinistra e piangendo con assai più rabbia che
dolore, disse: — Mi ha picchiato qui....
— Ti ha dato uno schiaffo?... Ma sarai stato cattivo.... Le avrai messo
sossopra la camera.
— Niente.... niente.... È caduto.... solo.... lo.... specchio.
La cameriera, nell'intento lodevolissimo d'esaminare _de visu_ la
posizione, aveva salito i pochi gradini della scala che metteva
all'appartamento della _padrona vecchia_ e stava già per entrar nella
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