Alla finestra: Novelle - 01

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ALLA FINESTRA

NOVELLE
DI
ENRICO CASTELNUOVO
_Seconda edizione, con numerose aggiunte._

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI.
1885.


PROPRIETÀ LETTERARIA.
Tip. Fratelli Treves.


AVVERTENZA DEGLI EDITORI.

_Questo libro non è una semplice riproduzione di quello da noi
pubblicato con lo stesso titolo nel 1878, e completamente esaurito.
L'autore ne tolse alcune novelle ed alcune ne aggiunse. Tolse
quelle che gli parevano più scadenti, aggiunse altre inserite già in
precedenti raccolte, del pari esaurite e da lui credute non indegne di
rivedere la luce._
_Così dei sedici lavori che si trovano oggi riuniti sono riprodotti
dalla nostra prima edizione i seguenti:_ Alla finestra, Le chiacchiere
della nonna, Nevica, La gamba di Giovannino, Il fratello del
grand'uomo. Due ore in ferrovia, La democrazia della signora Cherubina,
La confessione di Doretta, La pagina eterna.
_Invece _Un raggio di sole_ e _Il colpo di stato di Clarina_
appartengono al volume _Racconti e bozzetti_ stampato nel 1872 a
Firenze dal Le Monnier; _Lo specchio rotto, Il parassita indipendente,
Il maestro di calligrafia, L'orologio fermo, La lettera di Margherita_
sono tolti dai _Nuovi racconti_ editi a Torino nel 1876 dal Casanova._
_È insomma una scelta fatta dall'autore tra varie sue pubblicazioni e
speriamo che la scelta non sarà sgradita ai lettori._


ALLA FINESTRA

I.
Alla finestra ci si sta negli altri paesi per veder la gente che passa;
in molte parti di Venezia ci si sta sopratutto per discorrere. E chi
conosce questa città singolare non deve farne le meraviglie; parecchie
delle nostre _calli_ sono così anguste che la camera dell'inquilino
dirimpetto è assai spesso la cosa che si vede meglio affacciandosi
al verone; le finestre si aprono le une nelle altre e paiono strette
in sodalizio di mutuo soccorso; tu guarda qui, io guarderò costà.
In queste viuzze, d'inverno, le donne si ammiccano dietro i vetri,
si salutano con la mano; nella buona stagione, appena possono, si
appoggiano al davanzale e mandano innanzi quei dialoghi che non hanno
nè principio nè fine, e che il nostro Goldoni coglieva sul vero. Si
ciancia di tutto: del tempo e dell'economia domestica, delle funzioni
della chiesa e delle tresche della vicina, del grasso e del magro,
delle bizzarrie dei bimbi e dei numeri del lotto, del cappello che
la tale aveva domenica a messa e del rincaro del pollame, del puzzo
dei _rii_ e del travaglio che danno le zanzare. In mezzo a queste
chiacchiere innocenti si formano adagio adagio i pettegolezzi, le
permalosità; indi mille soggetti di commedia che aspettano l'autore
comico. Talora fra le due finestre, se da una parte vi è un uomo,
s'inizia un intrigo galante che andrà a terminare nel matrimonio,
oppure si risolverà in nulla come una bolla di sapone. Ma in tal caso,
disgraziate quelle due finestre! Esse si terranno il broncio fin che
non muti l'uno o l'altro degli inquilini.
Fra le tante _calli_ che vi sono in Venezia ce n'è una chiamata
_Calle lombarda_. Il perchè di questo nome domandatelo agli eruditi;
noi profani non sappiamo assolutamente che cosa ci abbia da fare la
Lombardia. Da un lato, e precisamente a destra di chi ci entra, nè
ci si entra che da una parte sola, sorgono alcune casupole disuguali,
povere e affumicate; di fronte c'è il muro posteriore di un palazzone
del seicento, la cui facciata guarda sul Canal grande, e un braccio
di questo muro facendo angolo retto col lato principale viene ad
occupare i due metri che fronteggiano l'imboccatura della _calle_, e
le dà appunto in tal modo il carattere di via cieca. Il palazzo, dalla
famiglia che l'ha edificato, è conosciuto sotto il nome di Cà Dareni
e sul Canale fa abbastanza bella mostra di sè. Verso la _calle_ invece
esso non presenta che una muraglia sgretolata, nelle cui fessure cresce
il musco, e che finisce in un cornicione sotto il quale han posto il
nido i colombi. La porta, un po' piccina per quella mole ciclopica,
ha un pregevole martello di bronzo raffigurante un Prometeo legato
alla rupe. Sopra la porta, a tre piani diversi, ci sono tre finestroni
difesi da grosse inferriate. Sono i finestroni delle scale. Del resto,
lungo tutto il muro, per quanto è alto e largo, non ci si vede che una
finestra, precisamente all'estremità interna del vicolo. Essa dà luce
ad un gabinetto, che viene a terminare una fila di stanze, l'ultima
delle quali guarda il Canalazzo e le altre guardano un _rio_. Il muro
di Cà Dareni è alto e le catapecchie di rimpetto son basse, ragione
per cui il sole conforta le lucertole che sbucano dalle screpolature
del palazzo e non manda mai un raggio benefico alle creature umane le
quali abitano nelle catapecchie. Quanto alla _calle_, essa nuota nelle
tenebre tutto il giorno, ma è rischiarata la notte da un fanale a gaz
posto sull'angolo. Nondimeno la mancanza assoluta di sole mantiene il
selciato in una condizione semipaludosa che fa acquistare ai passanti
la buona abitudine dei piediluvi. Dico passanti così per dire, perchè
in verità non vi passano che gl'inquilini delle case e del palazzo,
quando se ne eccettui forse qualche coppia sentimentale che trova il
luogo propizio alle sue espansioni. Si sbaglierebbe però a credere che
la _calle_ fosse sacra al silenzio. Prima di tutto vi sono i rumori
esterni, perchè la _calle_ sbocca in una stradicciuola non larga ma
brulicante sempre di gente. Poi c'è il fruttaiuolo sulla cantonata che
vale per dieci. Dal giorno in cui la prima castagna raccolta sui monti
arriva a Venezia fino al giorno in cui è lecito arrostire castagne,
egli vende i suoi marroni caldi, e richiama i compratori gridando
a squarciagola — _Di bollio! Ma di bollio!_ Egli intende così di
esprimere in pretto toscano che i suoi marroni bruciano anzi _bollono_,
secondo la sua elegante dicitura. D'autunno egli lascia l'ufficio
di urlare alla moglie, la quale magnifica in note di soprano sfogato
la zucca santa e baruca, e non si stanca mai di ripetere _Cò negra!
Ma cò negra!_ Finalmente nelle sere d'estate i due coniugi a vicenda
proclamano ai quattro venti i meriti delle loro _angurie_ (cocomeri).
A ogni modo, nella _Calle lombarda_ la conversazione è languida. Ciò
dipende dall'esser tutte le finestre, meno una, da una parte sola,
dimodochè per vedersi bisogna sporger la testa fuori del davanzale
e rischiare di prendere un torcicollo. Aggiungasi poi che in questa
infelice condizione di cose _siora_ Annetta può discorrere con _siora_
Gertrude che le sta _muro con muro_, ma stenta a scambiare i suoi
pensieri con _siora_ Veronica che abita quattro finestre più in là.
Una conversazione generale è difficilissima e non si tiene regolarmente
che il sabato dopo l'estrazione del lotto. Quando uno dei monelli che
assistettero all'estrazione in piazzetta, passa davanti all'imboccatura
della _calle_ con le sue polizzine di numeri in mano e gridando _Cò
bei! siora_ Annetta, _siora_ Gertrude, e siora Veronica balzano tutte
alla finestra e una di esse chiama il ragazzo, cala il panierino col
suo centesimetto e ritira la lista di cui legge poi ad alta voce il
contenuto. Allora si discute sui numeri che naturalmente si trovano
assurdi perchè non si è guadagnato, e si conclude che oramai non _c'è
più regola_, e che anche la cabala è diventata vecchia e bisognerebbe
cambiarla.
Abbiamo già detto che sul muro del palazzo, oltre ai finestroni
delle scale a cui non s'affaccia mai nessuno, si apre una finestra.
Precisamente di fronte ad essa, sulla linea delle casupole, c'è una
finestretta molto invidiata dai vicini perchè è la sola che possa
vedere dentro Cà Dareni. Non s'invidia però la persona che da tanti e
tanti anni siede a quel posto e non se ne muove che per coricarsi sopra
un letticciuolo lì presso. Povera Gegia!

II.
Fino a dodici anni ella era stata un amore di bimba. Aveva lunghi
capelli biondi, occhi grandi e bruni e una personcina svelta, elegante,
su cui i cenci facevano l'effetto di sete e di trine. Mòrtale la mamma
mentr'essa era ancora in cuna, ella fu l'orgoglio del padre, gondoliere
presso una famiglia signorile, il quale, rimasto vedovo, aveva preso in
casa una sorella nubile per attendere alla fanciulla. Filippo (egli si
chiamava così) godeva di una singolare reputazione presso i barcaiuoli
come quegli che aveva vinto il primo premio in due _regate_, e che
conosceva tutte le regole dell'arte sua. Lo nominavano padrino nelle
sfide, lo invocavano a giudice nelle contese e quando una parola era
stata detta da Filippo, nessuno rifiatava più. Egli era inoltre un
avvenentissimo uomo e si pavoneggiava nella sua livrea blù coi galloni
d'oro. I bimbi lo guardavano con ammirazione e le donne più ancora dei
bimbi. Egli faceva buon viso alle donne ed al vino, ma mostrava d'amar
sopratutto la sua Gegia, che a nove anni sapeva leggere correntemente,
conosceva la _dottrina_ come un canonico, e dava scacco matto per
bellezza a quant'erano le fanciulle della parrocchia. L'accompagnava
ogni domenica a spasso e di tratto in tratto la conduceva a visitare
i suoi padroni che le regalavano o una chicca, o una moneta, o una
vesticciuola. Di questi doni la moneta era il meno gradito per lei,
giacchè suo padre la metteva in tasca ed ella non ne sapeva più
notizia.
Anche i Dareni, patrizi molto boriosi e molto bene incamminati verso
il fallimento, si degnavano di sorriderle e di carezzarla e avevano
perfino consentito alle loro bambine d'invitarla a casa. La Gegia ci
era entrata come in un castello di fate, era corsa per la lunghissima
sala, aveva visto gli specchi e i lampadari di Murano su cui si
frangevano i raggi del sole, aveva visto i quadri coi parrucconi e le
poltrone dai grandi schienali dorati, aveva visto infine il conte Luca
alzar dalle pieghe della _Gazzetta di Venezia_ il suo naso monumentale,
tirar fuori di tasca un fazzoletto di colore e soffiarsi con uno
strepito da svegliare i morti. Ma il suo maggior gusto era stato quello
di chiamare a nome dalla finestra del palazzo che dava sulla _calle_
tutti i bambini di sua conoscenza e di salutarli con un _bondì_ pieno
di degnazione. Le aveva fatto poi un effetto singolare lo spinger gli
occhi da colà entro la stanzuccia della sua casa.
Quest'amicizia della Gegia coi _zentilomini_ suscitava certo qualche
malumore, qualche invidiuzza, ma in complesso ella era benvoluta
da tutti. Era buona, servizievole, facile ad affezionarsi, e la sua
_aria di contessina_ non le faceva sdegnare la compagnia di quelli
ch'erano da meno di lei. L'avevano carissima anche nella fabbrica di
_conterie_ ove ella era entrata a undici anni e ove si distingueva
per la sua assiduità al lavoro e per la sua intelligenza. Il signor
Menico, il vecchio commesso che distribuiva le paghe il sabato, le
pizzicava volentieri la guancia e ogni tanto le donava un cartoccio di
perle colorate ch'ella portava a casa come un trofeo e con le quali
si conquistava il cuore di tutti i bimbi del vicinato, comprese le
contessine Dareni.
Quest'ultime però dovevano sparir presto dalla scena. Un bel giorno si
seppe che il palazzo andava all'asta e che i Dareni si stabilivano in
campagna. Infatti essi si dileguarono in silenzio lasciando dietro a
sè un lungo strascico di debiti. Le contessine non si curarono punto di
salutare la Gegia e la finestra sulla _Calle lombarda_ si chiuse.
La Gegia ne provò un vivo dolore, ma in quell'età le afflizioni non
durano a lungo e l'ingresso del nuovo parroco avvenuto dopo alcune
settimane la compensò ad usura della conversazione che le era mancata.
Che spettacolo quell'ingresso! Tappeti a tutte le finestre, iscrizioni
per tutti i muri, festoni lungo le strade, e baracche sui _campi_
ove si friggevano i _galani_, e si vendevano giocatoli. Il babbo, che
nella pompa della sua livrea la teneva per la mano, aveva speso dieci
centesimi per comperarle una specie di girandola, e l'aveva poi presa
in collo in mezzo alla folla affinchè ella potesse veder meglio ogni
cosa. In questa posizione eminente ella aveva letto quattro versi
scritti in color verde sul muro della canonica nei quali si faceva
giocare con molto spirito il nome e cognome del nuovo pastore:
_Dei parrocchiani il core_
_Conforti Don Vittore,_
_Il cor dei parrocchiani_
_Conforti Don Milani._
Le donnicciuole gridavano in estasi: _Siesta benedeta! Co'ben che la
leze! Co'bela che la xè!_ Alla funzione in chiesa ella aveva poi saputo
attirare perfino l'attenzione del parroco, che s'era informato con
molta premura di lei.
A rendere ancora più memorabile quella giornata, la Gegia seppe che
il palazzo Dareni era stato appigionato ad una famiglia forestiera,
dimodochè fra poco si sarebbe riaperta la finestra prospettante quella
della sua casa.
Ma, prima che ciò avvenisse, la fanciulla infermò di un male strano.
Il medico della parrocchia non ci capiva nulla, un altro dottore
che Filippo fece venire a veder la figliuola, disse che c'era un
rammollimento della midolla spinale, che sarebbe occorsa una cura
lunga, una di quelle cure che la povera gente non può fare a casa sua,
e per le quali ci sono gli ospedali apposta. Ma alla parola ospedale
la Gegia gridò come un'ossessa, Filippo dichiarò che sua figlia non
andrebbe _in quei luoghi_, e le comari della _calle_ dissero a una
voce e con molta solennità che i medici non ne indovinano una. Si
ricorse quindi ai sapienti consigli di una empirica, la quale si rese
mallevadrice della guarigione in quindici giorni. E siccome le febbri
che avevano prima travagliato la fanciulla andarono via via rimettendo
della loro intensità fino a sparire del tutto, così si cantò vittoria.
_Siora_ Veronica, la moglie del falegname, giocò al lotto i numeri
della guarigione, e guadagnò un ambo.
Fatto si è che la Gegia non tardò a poter essere levata dal letto e
messa sopra una sedia, ma non c'era caso di farle fare un passo. Sarà
debolezza — dicevano il padre e la zia e le vicine; ed aspettarono.
Ma il tempo, il gran medico, non seppe giovare in nulla alla
povera creatura. Le sue gambette che parevano fatte al torno si
assottigliarono, s'incurvarono; pareva che un soffio maligno avesse
arrestato lo sviluppo della leggiadra pianticella.
Con la beata spensieratezza della sua età, ella non dubitò un momento
che sarebbe guarita; si metteva piena di fede certi empiastri che
le erano suggeriti dalla ciarlatana, e faceva assegnamento sulla
buona stagione. Il male l'aveva colta d'autunno, poi era sopraggiunto
l'inverno, ma dopo l'inverno veniva la primavera, e con la primavera,
chi non lo sa? rinasce tutto a questo mondo.
Intanto s'era fatta trasportare nella cameretta, la cui finestra
guardava nella _calle_, e prospettava quella del palazzo Dareni. Questa
cameretta si apriva sulla scala, e aveva servito fino allora come
luogo di passaggio, ma la Gegia la preferiva alla stanza ove aveva
dormito per lo addietro, appunto per poter vedere i nuovi inquilini del
palazzo e sentire nella _calle_ le voci dei suoi compagni di giuoco.
Ed ogni mattina, o si strascinava ella stessa carponi, o si faceva
collocar dalla zia sopra una sedia vicino alla finestra. Teneva uno
sgabello piuttosto alto sotto i piedi, e con una ciotola di conterie
sui ginocchi e un mazzetto d'aghi in mano passava tutta la giornata
a infilar perle. Dietro i vetri foschi e giallastri si vedeva così da
mane a sera la sua testina di Madonna, più spesso curvata sull'opera
sua, talora volta all'insù a cercar l'azzurro del cielo, e talora
intenta a guardar dentro il palazzo che s'era riaperto.

III.
Era venuta ad abitar Cà Dareni una ricca famiglia tedesca e il
gabinetto di fronte alla cameruccia della Gegia serviva di abbigliatoio
ad una ragazza di tredici anni, già alta di statura e in via di
acquistare proporzioni matronali. La chiamavano Lotte (Carlotta), aveva
occhi azzurri, capelli castani, di cui le scendevano due lunghe treccie
giù per le spalle; le rosee guancie davano l'immagine della salute.
Con un po' di tempo sarebbe certo divenuta una bella ragazza. Quando
vedeva la Gegia le sorrideva. Ma la vedeva poco, perchè era d'inverno,
ed essa sollevava di rado le cortine, e più raramente ancora apriva la
finestra.
La buona stagione non portò alla Gegia alcun miglioramento. I fanciulli
del vicinato ripigliarono i loro giuochi nella _calle_, le rondini
tornarono a far sentire i loro trilli armoniosi, ma ella era inchiodata
nella sua sedia a infilar perle. Un dolore inatteso le aveva poi recato
lo strano contegno di suo padre verso di lei. Nei primi tempi della
sua malattia egli le aveva prodigato ogni sorta di cure; adesso, non
isperando più ch'ella guarisse, era freddo, ingrugnato, le teneva il
broncio. Gli è che Filippo, nel fondo, era un grande egoista. Aveva
amato sua figlia finchè la bellezza di lei, gli elogi che le venivano
diretti, lusingavano il suo orgoglio; adesso la commiserazione ch'ella
destava negli antichi conoscenti muoveva la sua stizza, gli pareva
un'offesa; adesso sarebbe stato lieto di poter dimenticare che aveva
una figlia. Aveva amato il suo sorriso, non amava la sua mestizia e le
sue lagrime; l'aveva amata ritta, svelta della persona, vispa delle
movenze; non sapeva più amarla così rattratta, così pallida, così
diversa insomma da quella ch'ella era. E cercava ogni pretesto per
venire a casa meno che fosse possibile. Finalmente disse un giorno
che d'ora in poi doveva passar la notte nel palazzo dei padroni, ed
era vero, ma era vero altresì che aveva sollecitato egli stesso questo
favore e che per ottenerlo s'era offerto di far la guardia al _padrone
vecchio_, il quale contava più di settant'anni, e aveva bisogno che
qualcheduno gli dormisse nell'anticamera. Presa questa risoluzione,
Filippo lasciava trascorrere anche una settimana senza veder la sua
figliola e credeva di adempir largamente a' suoi doveri di padre
pagando la pigione di casa, e dando a sua sorella un piccolo peculio
per mantenere sè e la Gegia. Ma queste poche lire non avrebbero bastato
nemmeno a toccar la metà del mese, se non vi si fossero aggiunti i
quattrini che la fanciulla continuava a guadagnarsi anche dopo la
malattia col suo mestiere di infilatrice di perle. E l'ottimo signor
Menico le portava in persona ogni sabato il suo salario, e non poteva
capacitarsi che la più vispa delle sue operaie fosse ridotta così.
Ma in cospetto di lei si mostrava pieno di fiducia, le discorreva dei
miglioramenti introdotti nella fabbrica, dei nuovi locali che si erano
aperti, e del posto ove la si sarebbe messa, quando fosse guarita.
Ella stava intenta ad ascoltarlo, e sperava, e rinfrancata dalle sue
visite, subiva con animo paziente l'abbandono del padre e gli umori
bisbetici della zia Marianna. Costei non era cattiva ma brontolona,
ed era affetta da una sordità che cresceva ogni giorno. Diceva che la
Gegia non aveva voce affatto, ma s'arrabbiava poi s'ella gridava un po'
forte, come se avesse da discorrere con una sorda. E nella sua stizza
si chiudeva in cucina e faceva al gatto lunghe e feroci requisitorie
contro la nipote, che sentiva benissimo le impertinenze a lei dirette,
e sospirava.
Nell'aprile di quel primo anno di malattia, una bella mattina, la Lotte
spalancando le imposte si affacciò al davanzale della sua finestra.
Aveva un bianco accappatoio sulle spalle e doveva ancora pettinarsi.
Ella vide la Gegia nel solito posto.
La Lotte aveva imparato un po' d'italiano, e raccogliendo tutte le sue
cognizioni, chiese:
— Come ti chiami?
— Gegia, signora.
— E stai sempre a quella finestra?
— Sempre.
— O perchè non ti muovi?
La poveretta arrossì, e sentì venirsi le lagrime agli occhi.
— Sono malata — rispose.
— È vero. Sei un po' pallida. O che cosa hai?
— Ho male alle gambe.
— Da un pezzo?
— Da sei mesi.
— Oh, ma guarirai certo.
— Sì, spero, quest'estate.
Da quel giorno le conversazioni fra le due finestre si rinnovarono
spesso. La Lotte era riconoscente alla fanciulla della buona cera
ch'essa le faceva. In quel tempo (era nel 1862) i Tedeschi non erano
avvezzi in Venezia ad esser trattati con cordialità.
— Che cosa fai? — domandò un dì la forestiera alla Gegia, vedendola
occupata in un lavoro diverso dall'ordinario.
— Faccio un sottolume di perle a colori.... tanto per distrarmi.
— Dovresti vendermelo.
— Oh! Venderglielo, no.
— Perchè?
— Perchè vorrei regalarglielo.... se non si offende....
— Poverina! No, che non m'offendo.... Ma tu non sei ricca.
— Oh questa roba qui non val nulla.
— Senti, Gegia, accetto il tuo regalo ad un patto.
— Quale?
— Che tu mi permetta ch'io t'insegni un lavoro che ti distrarrà ancora
di più.
— Oh magari? E sarebbe?
— Vedrai.
Così dicendo la Lotte si ritirò dalla finestra e scomparve.
Di lì a pochi minuti la Gegia sentì bussare all'uscio della scala, chè
quanto alla porta di strada essa soleva rimaner socchiusa gran parte
del giorno.
Tirò il cordone ch'era a portata della sua mano ed aperse.
Quale fu la sua maraviglia allorchè si vide dinanzi la Lotte in persona
accompagnata dalla cameriera, che per dir la verità aveva un'aria scura
ed uggita!
— Non c'è in casa nè il babbo nè la mamma — disse la ragazza — e ho
voluto prendermi un po' di vacanza. — Poi rivoltasi alla cameriera,
soggiunse in tedesco. — Dà qui. — La donna tolse, brontolando, un
involto enorme di sotto il braccio, e lo consegnò alla sua padroncina
che lo posò sopra il tavolino, e lo aperse. C'erano fogli di carta di
tutti i colori, forbici, fili di ferro, ecc., ecc. La Gegia guardava
esterrefatta.
— Non capisci? Voglio insegnarti a fare i fiori di carta?
— Oh! — esclamò la Gegia, battendo le mani per la contentezza.
— Non c'è da sedersi in questa camera? — ripigliò la tedesca. E in pari
tempo andò in cucina, ove la zia Marianna stava attizzando il fuoco,
prese due seggiole di paglia, una per sè, l'altra per la sua cameriera,
e senz'aggiunger parola tornò dalla Gegia.
La sorda, sbalordita da quell'apparizione, le corse dietro col ventolo
gridando: — Ehi chi è là? Chi è là?
La Lotte diede in una risata sonora.
Quando la donna riconobbe la signorina dirimpetto cominciò una filza
di scuse e di complimenti. La ragazza le rispose qualche cosa, ma
visto che l'altra intendeva a rovescio non si occupò più di lei, e si
consacrò tutta alla sua lezione.
— To' — diss'ella ad un tratto picchiandosi il fronte. — Ci manca
il meglio. — E con un ordine breve e con un gesto imperioso mandò la
cameriera a prendere quello che le mancava. Costei uscì borbottando e
in un paio di minuti fu di ritorno con un mazzolino di fiori. C'era una
camelia bianca cinta di violette.
— Ecco — osservò la Lotte pigliando il mazzolino — gli esemplari
dipinti e gli stampi sono belli e buoni, ma quando non s'abbiano i
fiori vivi davanti non se ne fa nulla.
La Gegia mostrava una singolare attitudine ad imparare, e la sua
maestra la lasciò dopo un paio d'ore assai soddisfatta.
— E questa roba? — chiese timidamente la Gegia.
— Che roba?
— Questa carta, questi modelli?
— Ti regalo tutto, diamine.
— Oh, ma è troppo....
— Ti ripeto che ti regalo tutto, e basta. Non sono avvezza a sentirmi
contraddire. Del resto anche tu mi regali il sottolume.... Via, non vo'
sentir altro, — e le pose la mano alla bocca, — ripiglieremo la nostra
lezione domani, posdomani, quando vuoi. — Le carezzò i capelli e senza
lasciarle tempo a rispondere fu fuori della porta.
La Gegia era tra commossa e confusa. Pur pensava che non poteva
trascurare troppo il suo mestiere, e che avrebbe quindi dovuto
rallentare un po' la foga della sua amica. Ma non ce ne fu punto
bisogno; la Lotte era stranamente volubile, e corsero parecchi giorni
prima ch'ella riparlasse dei fiori di carta. Intanto la Gegia faceva
singolari progressi da sè, e non ci volle molto prima ch'ella ne
sapesse quanto la maestra.
Una volta la Lotte comparve con un signore vestito di nero.
— Ho condotto qui il nostro medico, — ella disse, — voglio ch'egli ti
veda.
La Gegia arrossì.
— C'è quella noiosa di tua zia?
— No, è fuori.
— Tanto meglio.
Il medico non sapeva una parola d'italiano, onde la Lotte doveva
servirgli d'interprete. Fu un interrogatorio in tutte le regole
sulle origini del male, sui sintomi, sulle sofferenze, ecc., ecc.
All'interrogatorio succedette un esame. Il dottore fece uno sproloquio
alla Lotte in tedesco, indi si ritirò con lei.
Per quel giorno la Lotte non si lasciò vedere alla finestra del
gabinetto. Il dì appresso ella ritardò a sollevar la cortina.
E la Gegia aveva tanta impazienza di saper da lei che cosa aveva detto
il dottore!
Finalmente, quando le due fanciulle si videro, la Lotte pareva
imbarazzata.
— Dunque? — chiese la Gegia, — il medico?....
— Ah! Il medico disse che.... guarirai... con un po' di tempo.
E la Lotte finse che qualcheduno la chiamasse per poter allontanarsi
subito dalla finestra.
Fatto si è che il medico aveva giudicato la malattia della fanciulla
non esser guaribile. Se fosse stata ricca, se avesse avuto i mezzi da
fare una cura lunga e regolare, ci sarebbe stato da tentar qualche
cosa, ma nelle condizioni in cui ell'era bisognava rinunciarvi. La
Lotte se ne dolse vivamente, ma ella non poteva pretender che la sua
famiglia sostenesse per un'estranea le spese d'una cura come quella che
il dottore reputava necessaria; così era forza ch'ella si rassegnasse.
Del resto si finisce sempre col rassegnarsi ai mali degli altri.
Quanto alla Gegia, ella non poteva a meno di dare un triste significato
alle parole mozze della sua protettrice. Si disperò e pianse. Ma ella
era in una età nella quale le illusioni ripullulano facilmente; aveva
sperato nella primavera e poi nell'estate, e adesso andava via via
persuadendosi che la primavera era stata troppo rigida e che l'estate
era troppo soffocante.... Forse in autunno, chi sa? o, in ogni caso, a
un'altra primavera.

IV.
Succedette un inverno freddissimo. Nevicava ogni secondo giorno, e la
Gegia stava rannicchiata sulla sua sedia collo scaldino allato tanto da
poter posarvi di quando in quando le mani che intirizzivano. La neve,
cacciata dal vento, si era rappresa sugli sporti, sulle inferriate,
nelle screpolature del muro di faccia, e spenzolava dal cornicione del
palazzo come il drappo d'un baldacchino, e orlava le imposte della
finestra della Lotte che appena ogni due o tre giorni sollevava un
momento le cortine e salutava con un cenno l'amica. Giù nella _calle_
c'era un gran baccano. I monelli si rincorrevano gettandosi addosso
la neve a manate, e la Gegia sentiva quel chiasso, sentiva le palle
di quel bombardamento da burla frangersi sulle porte e sui muri, e il
gridio dei fanciulli, e le voci corrucciate dei babbi e delle mamme, e
pensava con che voluttà si sarebbe ella pur commista all'ilare schiera.
Ma a dover stare così immobile, infilando perle alla luce colata che
scendeva dall'alto, quei fiocchi bianchi che venivano a posarsi in
silenzio sul suo davanzale le mettevano una malinconia da non dirsi.
E salutò con entusiasmo i venti di marzo che portavano via le ultime
traccie di neve, e salutò i colombi, che rinfrancati, non uscivano più
dal loro nido soltanto una volta al giorno per andare al tocco delle
due in piazza San Marco, ma passeggiavano sul cornicione, traversavano
la _calle_ e si posavano sulla sua finestra a beccolarvi le briciole di
polenta ch'ella spargeva colà apposta per loro.
— Come sono interessanti quelle bestiuole! — esclamò una mattina la
Lotte affacciandosi al balcone dopo tanti mesi, e come se ripigliasse
un discorso interrotto pochi minuti prima. — E che bene si vogliono!
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