Alla finestra: Novelle - 10

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aver imprecato anche al trasporto della sede del governo a Roma, e, Dio
non voglia, persino al regime parlamentare.
Stetti un po' perplesso sul da farsi, ma m'ero tanto incaponito
nell'idea di questo consulto che finii per prendere il treno diretto
per Roma. Naturalmente, prima di partire, telegrafai all'Adele affinchè
non si mettesse in pena pel mio ritardo.
A Roma, un nuovo contrattempo. Era domenica e il mio grand'uomo
era andato a pigliar aria a Frascati. Lo si aspettava di ritorno
la sera a mezzanotte. E io fin dalle undici ero nel suo salottino a
contare i minuti. A mezzanotte e un quarto il luminare della scienza
medico-chirurgica italiana arrivò e parve bastantemente annoiato di
trovar gente in casa sua. Quando gli ebbi esposto il motivo della mia
venuta e la mia intenzione di condurlo meco:
— Impossibile, — egli disse, — assolutamente impossibile. Domani va
in discussione al Senato il codice sanitario, e io devo sostenere il
lavoro della Commissione di cui faccio parte.
— Ma posdomani?
— Oh non son cose che si spicciano in un giorno, — egli rispose con una
cert'aria, come se volesse dire: «da che mondo viene?» Poi soggiunse,
guardando verso un uscio che doveva esser quello della sua camera da
letto: — Mi dispiace....
Io non sapevo risolvermi ad andar via, e volli almeno riferire
succintamente il caso, e sentire un parere.
— Quando non si vede il malato, — egli disse, — è molto difficile
pronunciarsi. Ma la cura seguìta mi par la migliore. Lei è benissimo
appoggiato.... il dottor Allinori sopratutto è un uomo di polso....
Dissentiamo su alcuni principii fondamentali della scienza, ma nel
resto siamo d'accordo.... In questo caso poi avrei fatto anch'io come
lui.
— Ma adesso? Che farebbe adesso?
— Eh, ritengo che farei l'amputazione.
— Si alzò dalla sedia, mi accompagnò cortesemente fino all'uscio,
rifiutò qualunque compenso per le sue chiacchiere e mi diede la buona
notte.
Di lì a un paio di settimane, forse, se avessi ancora avuto bisogno di
lui, avrebbe potuto venire... Grazie tante.
— Bel costrutto ch'io avevo cavato dal mio viaggio a Roma! Ero assente
di casa da quattro giorni e non sapevo nulla di Giovannino. L'Adele,
anche volendo telegrafarmi a Roma, non avrebbe saputo dove dirigermi
il dispaccio, perch'io m'ero dimenticato di dirle ove andavo ad
alloggiare. Le inviai un altro telegramma annunziandole che rinunciavo
per forza al nuovo consulto e che mi rimettevo tosto in cammino per
ripatriare. Mi facesse trovar notizie alla stazione di Firenze.
Alla mattina presi la prima corsa per l'Alta Italia. Fatalità su
fatalità! Un disgraziato ritardo a Orte ci fecer perder la coincidenza
a Firenze. Bisognava aspettare cinqu'ore.
Trovai alla stazione un telegramma così concepito:
_Non ci sono guai. Ti attendo. Hai ricevuto un altro dispaccio
che ti spedii due giorni fa all'Albergo del Nord?_
ADELE.
Un altro dispaccio? Non seppi resistere alla curiosità di leggerlo e
presi un _fiacre_ che mi conducesse al _Nord_. Avevo tempo d'avanzo
d'andare e tornare. Ecco il dispaccio che s'era incrociato col mio
e che quindi era stato spedito prima che l'Adele sapesse della mia
partenza per Roma:
_Il dottore Allinori, il quale anticipò la sua venuta, dice che
non c'è più tempo da perdere. Torna subito, subito, subito._
Queste parole mi misero la morte nell'anima. Cos'era successo di nuovo?
È vero che il dispaccio posteriore era molto più tranquillante, ma in
ogni modo, senza una grave ragione, Adele non mi avrebbe scritto così.
Non c'era tempo da perdere! Ciò significava che era necessario di far
tosto l'amputazione, quell'orribile, quell'abbominevole amputazione!
E mi si chiamava ad assistere a tanto strazio, si voleva ch'io fossi
presente mentre si storpiava mio figlio!
Non c'era tempo da perdere! E intanto io avevo fatto perdere due giorni
con la mia gita a Roma, e ne facevo perdere un terzo colla mancata
coincidenza di Firenze! Mi pareva di vederlo il dottor Allinori,
in camera del malato, coi suoi strumenti di tortura in mano, non
aspettando altro che la mia venuta per tagliare senza misericordia.
E se non ci fosse più tempo davvero? Se i miei indugi fossero stati
fatali? Se ormai io non avessi che da veder morire Giovannino? Volli
persuadermi di nuovo che era meglio vederlo morto che storpio, ma non
ci riuscii. Anzi mi adirai meco stesso per le mie esitanze passate e
dicevo:
— Sì, sì, lascerò che gli facciano l'amputazione, lascerò che gli
facciano tutto quello che vogliono pur che me lo salvino.
Viaggiai in uno stato d'inquietudine, d'ansietà ch'è facile immaginare.
Alla stazione non c'era nessuno; infatti non si sapeva con che corsa
sarei arrivato.
Giunto a casa, salii le scale in un lampo. Adele m'aveva sentito e
m'era venuta incontro sul pianerottolo. Il suo aspetto mi fece paura,
ella era bianca come un cencio lavato.
— Ebbene? — chiesi con voce soffocata.
— Ora dorme. Speriamo.... Entra.... Dio, povero Roberto, come hai la
cera scomposta!
— E tu Adele, se ti guardassi nello specchio.... Ma cos'è nato? Dimmi
tutto.
— Adesso; vieni dentro.
Mi lasciai condurre macchinalmente in salotto da pranzo.
— Avrai fame, — osservò l'Adele andando verso la credenza.
— No, non ho fame, non ho nulla. Voglio saper la verità vera su
Giovannino. Dov'è il dottore Allinori?
— È partito.
— Come partito? Bisogna richiamarlo subito. Non c'è tempo da perdere,
me l'hai telegrafato tu stessa.... Non mi oppongo più, sai, non mi
oppongo più all'amputazione....
— Ah no! — ella esclamò con un accento di gioia che mi parve molto
singolare, in quell'istante, alla vigilia d'una prova così terribile.
— Ma facciamo presto, — soggiunsi. — Voglia il cielo che non si sia
aspettato anche troppo.
— Roberto, — ripigliò l'Adele afferrandomi tutte due le mani, — tu mi
perdonerai dunque?
— Perdonarti? Perdonarti che? Parla per amor del cielo.... C'è qualche
disgrazia che non osi parteciparmi?
— No, te lo giuro, disgrazie no.... Anzi....
— Sei così imbarazzata.... Oh insomma voglio veder Giovannino.
E mi svincolai a forza da lei.
— Un momento, — ella gridò. — Ascolta.
Mi trattenni sulla soglia.
— Ti telegrafai a Firenze che il dottor Allinori diceva non esserci
tempo da perdere, e, aggiungevo: _torna subito, subito, subito_.
— Sì.
— Quel telegramma non l'hai ricevuto allora?
— No. Ero partito per Roma, e lo trovai al mio ritorno, di passaggio
per Firenze.
— Esso s'è incrociato con un dispaccio tuo che mi annunziava appunto
questa partenza per Roma senz'indicarmi dove potessi farti avere mie
notizie.
— È vero; l'avevo dimenticato.
— Pensa com'io rimanessi apprendendo che, invece di tornare
immediatamente, ti allontanavi.
— È stata una fatalità.
— Il dottor Allinori aveva consentito a rimanere un giorno, ma non
più d'un giorno, perchè serii impegni lo chiamavano altrove. Poi c'era
urgenza.... le cose s'erano aggravate nella settimana.... d'ora in ora
poteva formarsi la cancrena.
Io cominciavo a presentire il vero, ma non avevo forza di articolare
una parola. Ero tutt'orecchi, respiravo appena.
Mia moglie continuò:
— Mi si disse: signora Adele, si sente in grado di prender sopra di sè
una grande responsabilità?
— Dio! Credo d'aver capito.
— Ma me lo salveranno? — io gridai. — E i medici tutti e tre d'accordo:
Sì, glielo salveremo, vedrà. Abbia fede in noi, abbia fede nella
Provvidenza.... Se non ci lascia fare, quello è un bambino morto.
Morto! Intendi, Roberto? Morto!
— E tu?
— Io risposi: la grande responsabilità me l'assumo. Facciano.... Ti
vien male, Roberto?
— No. Continua.... L'amputazione?
— Fu eseguita or sono due giorni.
L'Adele era ritta davanti una seggiola tenendosi forte alla spalliera.
Io mi copersi il viso con le mani ed esclamai:
— Povero il mio Giovannino! Povera creatura! E ha potuto resistere?
— Gli si fece respirare il cloroformio. Egli mi guardò co' suoi begli
occhi pieni d'affetto e di sgomento, e mi disse: «Mamma, cos'è questo?
No, mamma, no.» Scosse il capo due volte, alzò la mano come chi vuol
scacciar via un insetto molesto, e poi cadde in un letargo. Allora....
— Oh taci. Eri presente?
— Volevano mandarmi in un'altra camera. Figurati se ci sono andata.
Rimasi là sino alla fine, pochi minuti, un secolo, non so.... Vidi
tutto, sentii tutto.... oh il suono stridulo di quella sega l'ho
qui nell'anima.... quel sangue lo vedrò scorrer sempre, sempre.... E
quando l'operazione fu terminata, e quella povera gamba che aveva tanto
patito fu gettata in un angolo come un inutile arnese, oh te lo giuro,
credetti che la mia forza d'animo m'abbandonasse e fui lì lì per cadere
come corpo morto. Ma mi sostenne un pensiero. Giovannino era assopito;
bisognava farlo rinvenire. Non dovevo esserci io, la sua mamma? Ce
ne volle a svegliarlo, sai. Due volte i medici si guardarono muti;
io guardavo loro; che momenti! che spasimo! Alla fine il bimbo mosse
un poco le braccia, aperse a fatica gli occhi e mi cercò, oh mi cercò
subito. «Mamma, non voglio più quel cattivo odore.»
— Ma alla gamba non si sentiva uno strazio?
— No.... allora no.... Più tardi....
— Oh basta, basta....
E mi misi a piangere come un fanciullo.
— Adesso, — ella soggiunse per consolarmi, — egli non sente quasi più
dolore; s'è rassegnato alla perdita della sua gamba; dice: «Brutta
gamba, han fatto bene a buttarti via.»
Io seguitavo a piangere.
— Proprio non mi perdoni? — ella riprese timidamente.
— Perdonarti? — io proruppi. — Perdonare io a te?... Sei tu che devi
perdonarmi, Adele....
E avrei continuato. Ma ella m'impose silenzio.
— Non una parola di più, Roberto, non una parola, per carità.... almeno
finchè Giovannino non sia fuori di pericolo.... Sei convinto che ho
agito pel meglio e mi basta. Qualunque cosa tu soggiungessi, mi sarebbe
oggi di cattivo augurio.
— E questo pericolo fino a quando durerà?
— Altri otto, altri dieci giorni, non si può dire con precisione. S'è
avuta tanta pazienza, abbiamone ancora.
. . . . . . .
Gli otto, i dieci giorni passarono, non senza che di tratto in tratto
Giovannino ci desse qualche ragione d'inquietudine e mettesse in
pensiero i medici. Ma, in capo a due settimane, ogni traccia di febbre
svanì, e il sedicesimo giorno, un mercoledì, oh me lo ricorderò sempre,
il dottor Allinori, che era venuto a visitare il suo piccolo malato,
strinse la mano a mia moglie in aria di trionfo, esclamando:
— Non glielo avevo detto, signora Adele, che lo avremmo salvato? Metta
dunque il suo cuore in pace dopo tante burrasche; il suo Giovannino
è salvo. Pur troppo egli crescerà senza una gamba, ma crescerà sano
e diverrà un bel ragazzo ugualmente. — Quindi, indirizzandosi a me,
soggiunse, da quell'uomo franco ch'egli era: — E lei, ringrazi sua
moglie; senza la signora Adele, il fanciullo sarebbe morto da un pezzo.
Io n'ero tanto convinto che mi voltai verso l'Adele dispostissimo a
gettarmele ai piedi. Dovetti invece correre a sostenerla. Le sue forze
che avevano così mirabilmente resistito al dolore, sembravano non saper
resistere alla gioia. Alle parole del medico, ella era divenuta prima
rossa, poi bianca come la cera: s'era sforzata di sorridere, di dir
qualche cosa, ma invano. Fu allora che, sentendosi mancare il terreno,
ella cercò un appoggio, e sarebbe caduta s'io non fossi stato pronto a
sorreggerla.
— Non sarà nulla, sarà la commozione, — disse il dottore, facendole,
fiutare una boccetta d'ammoniaca.
Ella si risentì, si passò la mano sulla fronte e susurrò con un filo di
voce. — È una cosa del momento.... Ma son così debole, così stanca....
Andrei a letto.... Non c'è Norina?
— La chiameremo, ma intanto son qua io.
E la condussi quasi di peso nella sua camera, ove non c'era che un
letto, ove da quattro anni ella dormiva sola come una fanciulla, come
una vedova, peggio ancora, come una ripudiata. La spogliai con l'aiuto
della Norina, e coricata che fu, le rassettai io stesso le coltri
intorno alla persona, e sedetti accanto al suo capezzale.
— Veglierò io, — dissi alla cameriera, — andatevene pure.
Vegliai tutta la notte, pensando a Giovannino ch'era guarito,
ahimè, a qual prezzo! all'Adele che stava forse per ammalarsi, ma
sopratutto pensando alle colpe enormi che avevo sulla coscienza, e
all'impossibilità di espiarle.
Io aveva potuto disprezzar l'Adele, aveva potuto preferirle delle donne
da trivio, avevo potuto proporle una separazione!
Ella aveva finito col prender sonno; il suo respiro, affannoso sul
principio, s'era fatto a poco a poco calmo e regolare: l'espressione
della sua fisonomia era tranquilla; eppure io ero tanto inquieto!
Ogni dieci minuti m'alzavo dalla sedia e andavo e guardar l'orologio
dell'Adele ch'era posato sul cassettone vicino al lume da notte, e il
suo uniforme _tic tac_, non so perchè, mi riempiva di tristezza. _Tic
tac_, _tic tac_. I secondi succedevano ai secondi, ma le pulsazioni nel
mio cuore eran molto più rapide!
Era strano. Non mi pareva d'esser degno di trovarmi a quell'ora nella
camera di mia moglie, che era pur stata la mia camera nuziale, ma
ch'io avevo stolidamente abbandonata. Quel profumo di donna onesta che
spirava intorno m'involgeva tutto, mi penetrava per tutti i pori. Io
carezzavo con la mano il semplice vestito dell'Adele gettato attraverso
la spalliera d'una poltrona, toccavo la sua biancheria raggomitolata
a' piedi del letto e involontariamente il mio pensiero correva ad
altre alcove men pure, piene di una luce insidiosa, piene d'odori
acuti, inebbrianti, sotto i quali s'indovinava però l'aria putrida
e malsana. Vedevo agitarmisi davanti agli occhi le turpi visioni di
nudità procaci, di veli ingialliti dai vapori della bettola, d'abiti
dissimulanti le rattoppature sotto i lustrini, e mi vergognavo all'idea
d'essermi ravvoltato in quella sozzura, io, marito, io, padre! La mia
donna, la madre del mio bambino era lì, ma non avrei osato d'alzare
un lembo delle sue coperte, non avrei osato deporre un bacio sulle
sue labbra, più caste di quelle d'una vergine. Le ero vicino perchè la
credevo malata; ma ella avrebbe potuto, svegliandosi, cacciarmi via e
dirmi: Che libertà ti prendi? che fai, di notte, accanto al mio letto?
L'alba cominciava a penetrar nella camera attraverso le imposte
socchiuse, e affacciandosi alla finestra si vedeva l'orizzonte listarsi
di rosa. Un po' prima delle sei, l'Adele si mosse, aperse gli occhi e
scorgendomi ritto al suo capezzale, diede un sobbalzo. — Tu, Roberto.
Che ora è?
— Son quasi le sei.
— Ti sei alzato così presto?... Giovannino forse non istà bene?
— Giovannino ha sempre dormito, Giovannino dorme sempre come un angelo,
— io risposi accostando l'orecchio all'uscio della camera attigua ove
c'era il fanciullo con la bambinaja.
— E allora, — ella soggiunse cercando di raccapezzarsi, — non
capisco.... Perchè sei qui?
— Ma tu come stai? — io chiesi.
— Oh.... Adesso mi ricordo.... Jersera debbo aver avuto un capogiro....
Ormai è passato.... Era una cosa da nulla.... Non c'era ragione che tu
ti alzassi prima di giorno.
— Non mi sono alzato, — dissi timidamente,
— Com'è? dov'eri? Eri uscito di casa?
— Ero.... qui.
— Sei rimasto qui tutta la notte?
Non risposi nulla, ma il mio silenzio valeva quanto una risposta
affermativa.
— Oh.... Roberto! — ella esclamò. — E mi fissò in viso i suoi belli
occhi inteneriti.
Non ne potei più e mi gettai in ginocchioni appiedi del letto e,
rompendo in singhiozzi, dissi tutto quello che mi stava sull'anima da
tanto tempo. Le parole non me le rammento; so che non mi risparmiai
nessun'accusa, che non tacqui nessuna bruttura della mia vita. E davo
all'Adele i titoli più dolci: la chiamavo angelica, santa, divina, la
dicevo salvatrice di nostro figlio, degna d'un uomo che avesse saputo
comprenderla mentre io....
Ella faceva di tutto per calmarmi.
— No, Roberto, non è vero, ho avute le mie colpe anch'io; ero fredda,
ero sprezzante, mi pareva di abbassarmi a confessarti il bene che ti
volevo.... la disgrazia del nostro Giovannino ci avrà corretti tutti e
due.... Ci ameremo di più e in questo amore intenso cercheremo tutti e
due l'espiazione dei nostri peccati....
L'Adele parlava de' suoi peccati!
— Non mi respingi dunque? — io insistevo. — Non la esigi tu stessa la
separazione...?
Ella non mi lasciò finire la frase. Chinandosi con mezza la persona
dalla sponda del letto, mi cinse il collo con le sue morbide braccia;
i suoi lunghi e folti capelli, sprigionatisi dalla cuffia che li teneva
stretti, scesero a lambirmi le spalle, le sue lagrime si confusero con
le mie, mentr'ella ripeteva con voce commossa:
— Povero Roberto, hai patito tanto anche tu in questi mesi!
I primi raggi del sole tremolavano sulla parete, una luce allegra
innondava la stanza; di fuori gli uccelletti salutavano la primavera.
E la primavera esultava nel mio cuore.
*
* *
Son passati da quella mattina degli anni parecchi. Giovannino porta
con disinvoltura la sua gamba di legno; è di statura piuttosto alta,
di viso bellissimo, di umore uguale e sereno, è buono, è intelligente,
è studioso. Alla scuola lo proclamano sempre il primo della classe; i
suoi condiscepoli lo adorano, i suoi professori lo amano e lo stimano
ed egli dice con un po' di baldanza: — Posso far quel che voglio,
fuorchè il militare. — È l'unica allusione ch'egli faccia alla sua
disgrazia.
Giovannino ha dei fratelli minori, vispi, sani, con tutte le loro
membra intatte, e si può credere se l'Adele e io abbiamo cara
quest'allegra nidiata di bimbi ch'è la miglior prova della nostra
riconciliazione. Eppure, quando sentiamo batter sul pavimento la
gamba di Giovannino, c'invade una tenerezza più profonda, una corrente
elettrica passa attraverso di noi e ci ravvicina. Noi ci sforziamo di
non mostrar nessuna preferenza, ma Arturo, ch'è il più malizioso dei
nostri figliuoli, dice qualche volta: — Oh se parla Giovannino, gli si
dà sempre ragione.
Il nostro primogenito ricambia liberalmente l'immenso affetto de' suoi
genitori. Forse egli predilige un poco sua madre. E come potrebb'essere
altrimenti? Le impressioni della prima infanzia non si scancellano;
sua madre lo adorava quand'io affettavo verso di lui una indifferenza
superba; e nella sua lunga infermità, chi lo assistette, chi vegliò al
suo letto, chi seppe sorridergli, pur avendo la morte nell'anima?
Cinta da un ambiente di simpatia, l'Adele ha smesso l'eccessivo
riserbo che la faceva apparir fredda e insignificante. Non v'ha nessuno
ormai che non pregi la rettitudine e la sicurezza del suo criterio,
e quando in casa mia si raccolgono alcuni amici fidati, è invalsa
la consuetudine di lasciare a lei l'ultima parola in quasi tutte le
discussioni. E la sua parola è sempre così temperata, così giusta!
Io ho trentacinque anni; ella ne ha trentadue, e ci amiamo come due
sposi novelli, anzi nel caso nostro, ben più che quando eravamo sposi
novelli. E dire che fummo in procinto di separarci! Ah! Giovannino non
saprà mai che miracoli la sua gamba abbia fatto.


IL FRATELLO DEL GRAND'UOMO

Il signor Isidoro non è un grand'uomo, proprio no. Nessuno tra' suoi
intimi amici ha mai arrischiato una proposizione così temeraria,
nessuno tra' suoi conoscenti ha mai avuto il più lontano sospetto
d'una cosa simile. Ma se il signor Isidoro non è un grand'uomo, egli è
fratello di un grande uomo, e questa fortunata combinazione lo toglie
alla sua oscurità. Il commendatore senatore Filiberto, fratello del
signor Isidoro, è uno tra i personaggi più imbottiti di titoli che
vi siano in Italia, e bisogna confessare che questi titoli egli non
li deve alla fortuna, ma al merito. S'egli è oggi un pezzo grosso,
è divenuto tale a forza d'ingegno, di studio e di perseveranza, e
anche riconoscendogli i suoi difettucci conviene fargli di cappello
e dire che egli è figlio delle sue opere. I suoi lavori scientifici
gli apersero le porte delle principali accademie, la sua eloquenza gli
aperse la carriera politica ov'era destinato a salire ai primi posti,
gli eccelsi servigi resi al paese fregiarono il suo petto di croci.
Se il signor Isidoro non fosse stato fratello di un commendatore e
senatore, egli sarebbe cresciuto tranquillamente in mezzo alle cassette
di petrolio, ai barili di acciughe e alle botti di zucchero della sua
casa Claudio Ferrarecci e figli, negozianti in più rami, casa fondata
dal nonno suo, il signor Claudio, e continuata sotto la medesima
ragione dai discendenti di costui. Tutt'al più il signor Isidoro
avrebbe obbedito alla sua naturale inclinazione pavoneggiandosi dinanzi
ai suoi avventori e trinciando giudizi sulle cose del giorno nella
cameretta blù del caffè al _Mercurio Risorto_, ordinario convegno dei
più cospicui rappresentanti del commercio locale.
Ma il signor Isidoro è fratello di un grande uomo, e ciò gli impone
obblighi speciali e lo sforza a sollevarsi sopra le cassette di
petrolio, i barili di acciughe e le botti di zucchero, e a tener
d'occhio la situazione.
Sarebbe errore gravissimo il credere che il periodo più brillante
dell'anno sia pel signor Isidoro quello in cui suo fratello viene a
riposarsi in grembo della famiglia. Certo, in siffatte occasioni,
il signor Isidoro si tiene stretto quanto più può ai panni del
commendatore e senatore, e allorchè gli è a fianco saluta gli amici con
un benevolo cenno della mano e con un sorrisetto di superiorità. Certo,
in quell'epoca meglio che mai, egli può allargare la cerchia delle sue
conoscenze, perchè il commendatore Filiberto incontra naturalmente per
via molte persone autorevoli; e l'altro, se non è ancora in relazione
con esse, tanto si agita, si dimena, si raschia, si soffia il naso, da
attrarre la loro attenzione e da costringere il commendatore ad aprire
una proposizione incidente e a dire a bocca stretta: _Mio fratello_. Il
signor Isidoro s'inchina, ammiccando con l'occhio, come a significare:
Egli è celebre, io no, perchè non ho voluto.
Soddisfazioni magre. In complesso, quando c'è il commendatore senatore,
il nostro signor Isidoro è sacrificato, è schiacciato. Tutta la luce
si concentra sul grand'uomo e a lui ne resta pochina davvero. Poi gli
tocca tacere, e che supplizio è per lui! Poi gli tocca assentire ogni
volta che il fratello parla, e anche questo gli pesa, perchè nel resto
dell'anno egli dice sempre: Io sono indipendente.
Senza contare un'umiliazione più grossa. Talora, anche in mezzo della
strada, il commendatore Filiberto, volendo conferire con qualcheduno,
lo manda via senza tanti preamboli, e il signor Isidoro dopo uno
di questi brutti congedi si trova assai sbilanciato. Qualcheduno,
vedendolo, gli chiede maliziosamente: — E vostro fratello? — Avevo un
affare e ho dovuto lasciarlo — egli risponde scambiando le parti. Ma la
bugia gli lega la lingua, ed egli incespica, diventa rosso e coglie il
primo pretesto per svignarsela.
È ben altra cosa quando il commendatore Filiberto è alla capitale.
Allora il signor Isidoro diventa il legittimo rappresentante del
grand'uomo, allora porta le ambasciate di lui a Caio ed a Tizio, ha
ingresso libero dal prefetto, dal sindaco, dai giornalisti. E coi
cittadini autorevoli per posizione o per influenza ama mostrarsi in
pubblico, e li visita in teatro, e delizia della sua conversazione le
loro consorti, nè abbandona il palco finchè non ha potuto in un modo o
nell'altro affacciarsi al parapetto ed esser ben sicuro che trenta o
quaranta individui almeno l'han visto. Le signore arricciano il naso
e non nascondono la loro noia ai rispettivi mariti, ma i rispettivi
mariti sono uomini pubblici, e il signor Isidoro è fratello di un
uomo pubblico, di un uomo grande, influente, che ha lo zampino nei
ministeri, ch'è un po' ombroso e con cui non bisogna guastarsi.
— Bella seccatura questi uomini grandi! — dice la consorte del sindaco,
che ha la lingua lunga.
La _prefettessa_, più prudente, si guarda attorno e soggiunge a bassa
voce. — Io li venero e li rispetto, ma vorrei che fossero figli unici.
Del resto, il commendator Filiberto non tien mica in gran conto il
fratello e non gli affida mai uffizi i quali richiedano un singolare
acume d'ingegno. L'indole degli incarichi è, su per giù, la seguente:
consegnare in proprie mani una lettera chiusa, annunziare che il
commendatore arriverà in tal giorno alla tale ora, e fissare un
abboccamento, portare qualche rettifica alla redazione di un giornale.
Ma il signor Isidoro attraversa la città come una nube grave di fulmini
e sa dare a ogni inezia le apparenze di affari di stato.
— Novità? — gli si chiede per via vedendolo così misterioso e impettito.
— Ma!... Io non so nulla.
— Queste elezioni, eh?
— Chi può farsi un criterio?... C'è una confusione....
— Confusione grande, non è vero?
— Altro!... Vengo via adesso dal Prefetto dopo una conferenza di un'ora.
— Nespole! Di un'ora?
— Sì... Oh!... Chiacchiere!... Quel benedetto uomo non mi lascerebbe
mai andarmene pei fatti miei.... Io gli dico sempre: _Tu_ sei un
individuo meraviglioso, lavori tanto e trovi anche tempo da far queste
lunghe cicalate.
Scopo del signor Isidoro, come si capisce, è quello d'incastonare
nel discorso il pronome personale _tu_, a testimonianza della sua
dimestichezza col Prefetto.
Pur si vorrebbe ricondurre la conversazione sul primo terreno. —
Dunque, di queste elezioni, che dice il signor Prefetto?
— Uhm!... Sa... dice e non dice....
— Capisco.... Lei non vuol parlare....
— Oh non creda! — interpone il signor Isidoro facendo il bocchino da
ridere. E si accommiata lietissimo di lasciare nel suo interlocutore la
convinzione ch'egli sappia molte cose, ma _non voglia parlare_.
Talvolta lo si ferma per domandargli notizie del grand'uomo.
— E il commendatore sta bene?
— Bene, grazie.
— E non lo si vedrà per ora da queste parti?
Il signor Isidoro piega la testa da un lato, la sprofonda nella spalla,
alza le due mani fino all'altezza delle orecchie, e tenendole aperte
con le palme in fuori dice: — Mah!
— Potrebbe farmi il piacere, — prosegue timidamente l'altro
guardandosi le punte delle dita — di fargli pervenire una lettera?...
A mandargliela sciolta.... m'intende già.... uomini come il suo
signor fratello ne ricevono ogni giorno a dozzine, e molte vanno a
finire nella paniera.... Invece per mezzo d'un fratello che gode....
meritamente.... di tanta influenza.... è un'altra cosa.
Il signor Isidoro fa il prezioso, solleva dubbi, scrupoli, obbiezioni,
ma finisce col lasciarsi persuadere, e conclude: — Insomma, mi mandi la
lettera.... Vede, se ho fatto difficoltà non è per la cosa in sè.... ma
pare che si voglia esercitare pressione....
— Dio guardi....
— E io invece non ho mai voluto ingerirmi in nulla.... Non ho voluto
favori, nè onorificenze....
— Se avesse voluto....
— Non dico questo.... ma infine.... Gli è che io preferisco
l'oscurità.... Basta, siamo intesi....
Detto ciò, il signor Isidoro si allontana pomposamente, superbo di
vedere sollecitata la sua protezione.
Il signor Isidoro legge dalla prima all'ultima riga i discorsi che suo
fratello pronuncia in Senato, legge i fogli politici tanto ministeriali
che di opposizione, e se in questi ultimi vede qualche volta tartassato
il grand'uomo, spiega una temperanza, un'equanimità da lasciare
edificato l'uditorio.
— Io non appartengo a nessun partito.... io sono indipendente.... non
guardo in viso a nessuno, io.... Mio fratello è una bravissima persona,
ma anch'egli i suoi errori li avrà commessi.... Io non ho certo tutte
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