Alla finestra: Novelle - 12

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— La mia felicità? Ma sono io sola sulla terra, ma non ho obblighi che
con me stessa, ma non ho da guardar che a me sola? E tu non ci sei per
nulla nella mia vita?
— O che c'entro io in tutto ciò?
— Senti, babbo, bisogna proprio che tu non mi giudichi male da quel che
ho fatto sinora... Adesso mi son ravveduta....
— Ma tu parli per indovinelli, Clarina.
— Mi spiegherò, purchè tu mi lasci discorrere tutto d'un fiato, purchè
tu non m'interrompa, e non faccia nè _ih_, nè _oh_, nè esclamazioni di
sorta alcuna.... Tu ti ricordi benissimo il caso stragrande che si fece
da te e dall'Angelica della mia ultima malattiuccia.... Quanto a me
ritengo che non ci fosse il menomo pericolo....
— Oh ce n'era, ce n'era — uscì a dir vivamente il signor Emilio,
rannuvolandosi in viso, e stringendo a sè la ragazza come per tema di
qualche novella insidia. — Non lo disse forse anche il medico?
— Bella ragione! Ma ciò poco monta. Fatto si è che pareva non dovessero
esservi nè cure, nè riguardi sufficienti per me. E io te ne ringrazio,
sai, e ne ringrazio anche l'Angelica la quale per una figliuola non
avrebbe potuto fare di più. In quei giorni la signora Fanny veniva
spessissimo a informarsi di me, a salutarmi, e vedendo quante brighe
tu e l'Angelica vi davate per amor mio, e come vi negavate il sonno e
il riposo, s'offerse a dividere in giusta misura con voi le fatiche
e le veglie. O perchè ella cogliesse meglio nel segno, o perchè
fosse di carattere meno apprensivo, fatto si è ch'ella era molto più
tranquilla, e quindi poteva con minor dispendio di forze prestare
opera efficacissima. Ella volle rimanere parecchie notti nella mia
stanza, sempre fedele esecutrice delle prescrizioni del medico,
sempre indovinando ogni mio desiderio. Quand'io la vedevo pender su
me e rassettarmi le coperte, e bagnarmi le tempie infuocate dalla
febbre e guardarmi con que' suoi occhi intelligenti e tranquilli, e
calarsi giù giù sul mio capezzale fino a che qualche riccio dei suoi
capelli biondi veniva a sfiorarmi la fronte, mi pareva come se la
povera mamma vegliasse lei presso il mio letto.... Già la malattia
aveva traversato quella che voi chiamate la crisi, e piegava verso
una soluzione felice; nondimeno io mi sentivo immensamente debole: i
miei giorni trascorrevano in lunghi sopori, i miei occhi s'aprivano a
fatica, ond'io scorgevo, come attraverso un velo di nebbia, gli oggetti
che mi passavano innanzi, e, pure avendo la coscienza di quanto mi
avveniva d'intorno, non sapevo uscire dalla mia condizione d'inerte
spettatrice....
Era una di quelle notti. La signora Fanny aveva a poco a poco lasciato
cader la testa sulla sponda del mio letto: ella dormiva vicino a me:
io sentivo il suo dolce respiro aleggiarmi tepidamente d'intorno, io
sentiva la fragranza della sua morbida chioma diffusa. La lampada
da notte posta sopra un tavolino in un angolo spargeva una luce
tremula e fioca nella stanza, allungando talora con guizzi improvvisi
l'ombra delle sedie, degli armadi e del letto. L'uscio si aperse.
Eri tu, nè me ne meravigliai: quelle tue visite erano cosa solita.
Ti approssimasti in punta di piedi, mi mettesti la mano sulla fronte;
poscia, inchinandoti lieve lieve su me, mi baciasti a fior di labbra
la bocca. La signora Fanny era sempre assopita. Tu rimanesti alcuni
secondi immobile a contemplarci; poscia ti vidi abbassarti di nuovo e
deporre rapidamente un bacio sopra i capelli di lei. — (Qui Clarina
pose la mano sulla bocca del signor Emilio che voleva parlare). —
Ti rizzasti con un moto subitaneo, sospettoso quasi, e uscisti dalla
camera.... Quello ch'io provai non so dirtelo:... al primo istante fu
maraviglia....
— E di che mai, Clarina? — interruppe il signor Emilio, allontanando la
mano con la quale ella voleva chiudergli le parole in bocca. — Seppur
quello che credi aver visto non è un parto della tua fantasia, che cosa
vi sarebbe da stupire se io mi fossi lasciato vincere dall'emozione
vedendo un'estranea far teco le veci di madre?
— No, babbo.... Il dì appresso, quando il medico ti disse che potevi
smettere ogni apprensione, ti vidi nella tua contentezza baciar
l'Angelica quantunque avesse attorno un grande odor di cipolla, e
perfino la zia Lena quantunque fosse più brutta del consueto; ma era un
altro modo di baciare....
— Orsù Clarina, tu fai discorsi inutili, e anche un poco sconvenienti
per una ragazza.
— Ci vuol pazienza. Ho incominciato, e bisogna che dica tutto, e che tu
ascolti tutto. Descrivere lo stato dell'animo mio in quella notte, dopo
che tu uscisti della mia stanza, sarebbe impresa assai assurda. Dissi
che il mio primo sentimento fu di maraviglia. È vero. La dimestichezza
formatasi tra la signora Fanny e te non aveva mai passato quel limite
oltre al quale comincia la galanteria. V'era nella vostra amicizia un
non so che di contegnoso che pareva dire. — Fino a questo punto, sì;
più in là, no. — Alla meraviglia (perchè dovrei negarlo?) successe
un granellino di rancore verso la signora Fanny. La donna ch'io amavo
senza sospetto, la donna alla quale io avevo parlato e contavo parlare
tante volte ancora della mia mamma, s'intrometteva invece fra me e
lei, distruggeva il mio bel sogno, diveniva una rivale di quella che
io non avevo mai conosciuto, ma che avevo imparato da te ad amare con
tutte le potenze dell'anima. Io sentivo sotto le palpebre chiuse gli
occhi gonfiarmisi di lacrime, io sentivo affollarsi nella mia mente i
rimproveri che avrei indirizzato alla signora Fanny, appena ne avessi
avuto la forza. Ma in verità, questa forza l'avrei mai avuta? Non sarei
stata disarmata dalla dolcezza e dalla serena mestizia del suo volto?
Da quella fronte severa che il dolore aveva potuto solcare, ma che la
vergogna non aveva mai fatto arrossire?
Nel mentre io m'abbandonavo a queste fantasie, ella si era svegliata,
quasi vergognosa che il sonno l'avesse colta, e dopo d'essersi piegata
su di me per veder s'io dormiva (e, tra per la mia debolezza, tra per
gli affetti che si combattevano nell'animo mio, io fingevo davvero di
dormire) guardò l'orologio, tolse la lampada da notte dal tavolino
e schiudendo le invetriate la posò sul davanzale e la spense: indi,
aperti alquanto i registri delle persiane, lasciò entrare nella stanza
un po' d'aria e di luce. Appoggiata allo stipite della finestra, stette
colà qualche minuto, immobile, ritta, pensosa, stringendo sul petto
la veste discinta.... I primi chiarori dell'alba facevano risaltare
di più il pallor naturale del suo viso, la brezza mattutina agitava
lievemente i suoi biondi capelli che le scendevano giù pel collo in
vago disordine. Nel fissarla attentamente, con un occhio a cui le
inattese rivelazioni di quella notte accrescevano la virtù indagatrice,
io m'accorsi che, se la signora Fanny non era bella, le traccie della
bellezza v'erano ancor sul suo viso, ma sepolte, per dir così, sotto lo
strato che vi avevano deposto i lunghi anni di patimenti. E non so s'io
m'ingannassi, ma mi pareva che qualche lampo almeno di quell'avvenenza
dovesse brillar nuovamente, solo che la gioia tornasse nell'anima alla
poveretta. A che pensava ella in quell'istante? Forse a' bei sogni di
fidanzata quando ella intrecciava la ghirlanda pel suo giorno di nozze?
Forse al campo sanguinoso di san Martino ove il suo diletto cadeva per
non rialzarsi mai più? O sospirava vedendosi omai al confine estremo
di giovinezza, con le rose del volto sfiorite, con l'anima deserta
d'affetti, e costretta a viver sempre d'una memoria? O sentiva un
arcano bisogno d'amare, d'essere amata prima che il tempo inesorabile
gliene contendesse perfino la speranza?.... Povera signora Fanny! Una
lacrima le colava lentamente dal ciglio: ella si passò la mano sulla
guancia per asciugarla, poi si tolse bruscamente alla sua fantasia, e
tornò da me. Io feci le viste di svegliarmi allora, e pentita d'aver,
fosse pure un istante, accolto nel mio cuore de' sentimenti ingenerosi
verso di lei, feci uno sforzo supremo, e presa la mano ch'ella mi
tendeva, la portai alle labbra coprendola d'ardentissimi baci.
— Calmati, calmati, Clarina mia, — mi diss'ella, — perchè agitarti così?
— Perchè sento, — io risposi, — che non potrò mai renderle la centesima
parte di quello che ella ha fatto per me.
— E che ho fatto, piccina? Non è mica un merito quello di volerti
bene. E poi, noi altre vecchie zitelle, dobbiamo pure affezionarci
a qualcheduno. E quando vediamo soffrire delle creature giovani,
leggiadre come tu sei, ci pare, assistendole, di assistere i figli che
avremmo potuto avere.
Sedette vicino a me, carezzando la mano che io lasciavo cader penzoloni
dal letto, e non aggiunse parola.
— Io era ancora troppo debole per continuare il colloquio, ma
fissavo con occhi intenti quel suo volto pensoso, e quand'ella si
alzò nuovamente, e dinanzi allo specchio ricompose alquanto il suo
abbigliamento e ravviò sulla fronte i capelli disordinati, io le tenevo
sempre dietro con lo sguardo e, più ancora, con l'anima. E pensavo
agl'incidenti di quella notte, e a un'altra esistenza isterilita in
gran parte per colpa mia. Si, v'era un'altra persona che s'avvicinava a
quello stadio della vita in cui le maggiori dolcezze non sono più che
una memoria ed un desiderio, v'era un'altra persona che per me aveva
logorato i suoi anni più belli, compressi i suoi palpiti più ardenti,
anticipato l'età in cui ogni passione si spegne naturalmente... Oh
babbo: ho bisogno di dirtelo? Quella persona eri tu. Espiare i miei
torti, riparare a due sventure in un tempo, qual nobile impresa non
era la mia? Quanto più io ero stata fino allora sospettosa, egoista,
tanto più sentivo corrermi l'obbligo di essere ormai il buon angelo
della casa, di farmi uno stromento di quella felicità che avevo voluto
impedire. Ebbene, babbo, da quell'istante io non ebbi altro pensiero.
Ciò che tu provassi per la signora Fanny ormai io lo sapevo....
— Ma tu t'inganni, Clarina, ma tu deliri, — proruppe il signor Emilio,
visibilmente commosso.
— No, non m'inganno e non deliro, e nulla potrebbe sradicare questo
convincimento dall'animo mio. Quello ch'io non potevo sapere ancora
con ugual sicurezza era ciò che pensasse la signora Fanny. Da
quell'istante, usando un'arte ond'io non mi credevo capace, spiai
accortamente ogni suo atto, ogni parola, ogni sguardo.... e infine....
— Infine, che cosa? — chiese il signor Emilio, mal potendo nascondere
la sua agitazione.
— Zitto! — gridò Clarina, tendendo l'orecchio.
Il campanello di strada aveva suonato, il gatto Artaserse con un
immenso e incivile sbadiglio si era ritto sulle quattro zampe arcuando
portentosamente la schiena, tanto da parere un dromedario, l'Angelica
s'era scossa ella pure, dicendo con rara ingenuità: — Oh!... hanno
suonato.... Ero lì lì per addormentarmi.... — Intanto s'intese aprire
e poi chiudere l'uscio della scala, e un passo di donna si fece sentire
nell'andito.
— E proprio la signora Fanny, che viene a farci la sua solita visita,
— disse Clarina, muovendosi in fretta per andarle incontro.
— Bada, Clarina, — interpose serio serio il signor Emilio, — che non
voglio fanciullaggini. E tutta la tua cicalata di questa sera dev'esser
come non avvenuta.... Già, io uscirò di casa.... — E si alzò in piedi,
inquieto, turbato.
— Un momento, un momento, — susurrò la vispa ragazza, con accento
deciso.
Era appunto la signora Fanny, vestita a bruno, e con una fascia di lana
violetta intorno al capo e alla bocca.
— Come siete rossa in viso, signora Fanny! — esclamò Clarina,
aiutandola a levarsi d'intorno lo scialle e la fascia. — Fa proprio
freddo fuori?
— Si gela.
— Ebbene; si metta presso al camminetto. Su, Angelica, falle posto.
La zittellona si levò un po' brontolando, e tenendo fra le braccia il
preziosissimo micio che dava segni non equivoci di disapprovazione.
Mentre la signora Fanny stava per sedersi, la Clarina disse con
indifferenza e come se si trattasse d'una cosa da nulla:
— A proposito, signora Fanny, la sa la notizia?
— Quale?
— Che il babbo è sul punto di riprender moglie.
Queste parole caddero nella stanza come un fulmine, e gli effetti da
esse prodotti ebbero un carattere di _contemporaneità_ che non si può
rendere nella narrazione.
— Misericordia! — gridò l'Angelica esterrefatta, lasciando cadere il
pingue Artaserse, che, sorpreso dell'insolito trattamento, corse a
rifugiarsi sotto la credenza soffiando in un modo affatto ostile.
Il signor Emilio die' un balzo prorompendo in tuono di rimprovero: —
Clarina!
Ma intanto la signora Fanny era divenuta bianca come un lenzuolo, e
aveva afferrato convulsamente con una mano la spalliera della seggiola,
mentre si passava e ripassava l'altra mano sugli occhi, come per
diradare la nebbia che vi si andava addensando.
Clarina le fu addosso in un attimo, e gettatele le braccia al collo (la
signora Fanny s'era lasciata cader sulla seggiola) le disse con lacrime
dirotte: — Oh perdona; lo sapevo che tu dovevi essere la mia mamma. Era
il babbo, cattivo, che, pur volendoti bene, non si persuadeva a niun
costo di ciò ch'io avevo indovinato....
La signora Fanny mise un grido ineffabile, e questa volta svenne
davvero.
Le furono tutti attorno, l'Angelica che non capiva sillaba
dell'avvenuto, il signor Emilio, ormai inabile a simulare, e di
null'altro sollecito che di confermare le indiscrezioni della
figliuola, e la Clarina finalmente, giuliva, trionfante, come un
generale che ha vinto una battaglia.
Il resto ve lo potete immaginare. Solo vi dirò che, al finire di quella
sera così piena di emozioni, il signor Emilio, abbracciando teneramente
Clarina, le disse: — Sai che il tuo si può chiamare un _colpo di
Stato_?
— Lo so, ma se fossero tutti di questo genere, il mondo non avrebbe a
lagnarsene.


DUE ORE IN FERROVIA

Io non sono azionista di nessuna società ferroviaria, non ho garantito
(ci mancherebbe altro,) il prodotto chilometrico di nessun tronco,
non mi appassiono troppo nelle questioni del riscatto e dell'esercizio
governativo, non ho un trasporto straordinario per le frasi di metodo
sul _fischio della locomotiva che è l'araldo della civiltà_, ecc.,
ecc.; eppure vi dico: viaggiate in strada ferrata. Non c'è un modo
migliore di raccogliere osservazioni, di tener desta la fantasia. E non
è punto necessario di accingersi a viaggi lunghi, di andare da Venezia
a Pietroburgo e da Pietroburgo a Parigi. Basterà di tanto in tanto una
breve corsa di un paio d'ore.
Se volete seguire per intero il mio consiglio, prendete il biglietto
di seconda classe e scegliete i treni omnibus. Vi spiego subito il
perchè. La terza classe è troppo incomoda; troppi uomini che sanno
d'aglio, troppe donne sgangherate, troppe galline che legate insieme
per le zampe e cacciate sotto i sedili fanno uno strepito d'inferno.
La prima è troppo compassata; troppi Inglesi che consultano la guida
del Baedeker e il dizionario tascabile, troppi senatori e deputati che
discorrono di politica, troppi banchieri, troppi conti, troppi baroni.
Nella seconda classe invece trovate la maggior varietà di tipi, quindi
la più ricca fonte di osservazioni.
Quanto al treno omnibus, per chi non ha fretta, esso è di gran lunga
il migliore. Coi treni diretti la compagnia non si muta che a grandi
intervalli; invece coi treni omnibus è un continuo succedersi di figure
diverse, come per effetto di una lanterna magica.
— Ma, — direte voi, — se s'incontra una compagnia piacevole che gusto
c'è a mutare?
Questa domanda mostra in chi la fa una grande inesperienza del vero
carattere del viaggio in ferrovia dal punto di vista ond'io amo
considerarlo. Anche astraendo dal fatto che le compagnie piacevoli non
sono le più comuni, è indubitabile che l'impegnarsi in un dialogo nuoce
al raccoglimento necessario all'osservazione.
Nel viaggio di ferrovia, come io lo intendo, è utilissimo il non
imbattersi in nessuna persona di conoscenza, e l'andare a rilento
prima di mettersi a conversare cogl'ignoti. Il carattere dei proprii
simili s'indovina meglio quando tacciono che quando parlano con gente
veduta per la prima volta. E, in strada ferrata, il meglio che si può
fare a questo scopo è di rannicchiarsi in un angolo, aprire un libro e
guardar di sottecchi. Non è poi una grande indiscrezione; a ogni modo
è una indiscrezione che, qual più qual meno, commettono tutti. Che in
compartimento si sia in quattro, in otto o in dieci, è certo che questi
otto, sedici o venti occhi s'incontreranno con piglio scrutatore.
Si principia sempre nella stessa maniera. Le sacchette, le valigie
portatili, gli ombrelli, gli scialli sono collocati alla meglio sulla
reticella, le donne raccolgono le sottane, gli uomini si stringono
quanto più possono, qua e là è bisbigliato qualche _scusi_ sommesso,
a cui succede un cerimonioso _oh la prego_; poi tutti si lagnano
della Società ferroviaria che vuole stipare la gente nei carrozzoni
come le sardelle in barile, tutti rilevano con impaziente ironia gli
interminabili gridi di _partenza_ senza partir mai; c'è l'uomo arguto
che paragona la macchina che si provvede d'acqua ai cavalli a cui si
dà la biada; c'è la donna di spirito che al sentir il campanello, al
cui suono si parte davvero, dice con un sorriso pretenzioso: _Ecco il
campanello della messa_. Finalmente il convoglio esce dalla tettoia e
si stabilisce un certo silenzio. Guardiamo un po' intorno a noi.
Trovo a questo proposito i ricordi d'una gita recente. Chi è quella
signora dall'aria sentimentale, seduta presso il finestrino a sinistra
con un libro in mano? Prima di tutto un'occhiata di sbieco al libro.
Se non si può vedere il titolo contentiamoci per ora dei connotati
esteriori. Formato in-12.º, coperta gialla; ahimè! indizio gravissimo,
sulla coperta una macchia d'unto. La lettrice dovrebbe essere una
cameriera. La letteratura della cucina ha quasi sempre questo segno
caratteristico. Una cameriera? Eppure le vesti sono abbastanza
eleganti. Si, ma quando le si osservi con un po' di attenzione si
vedrà che sono vesti piuttosto fruste; senza dubbio gli abiti usi
della padrona. Però il _vis-a'-vis_ maschile (un giovinotto in calzoni
caffè e latte e panciotto bianco a fiori lilla) non ha questi sospetti
o è superiore ai pregiudizi di casta e comincia a slanciare alla
viaggiatrice certi sguardi di fuoco che fanno temere un incendio.
Il primo raggio di sole che entra nella carrozza dà appiglio alla
conversazione: — Vuole tirare la cortina?... Aspetti.... Ecco qua. —
Poi c'è un buffo di vento importuno. — Vuol chiudere il vetro? — Se non
disturba a lei. — Anzi, le pare? Ecco fatto. — Questi due sono messi in
movimento. Lasciamoli stare.
Proprio di fronte a me c'è un bellimbusto in guanti chiari che par
poco soddisfatto della compagnia. Nella signora che legge egli ha
fiutato la cameriera e non vuole sprecare per essa le sue occhiate
da conquistatore, nè si degnerebbe a ogni modo di competere con quel
tipo di garzone di negozio che le fa la corte; la sua vicina immediata
ha una circonferenza di due metri e una buona quarantina d'anni sulle
spalle, e una giovine che è con lei e siede alla mia sinistra è magra
e gialla come una carota. Il bellimbusto, esaminate tutte queste cose,
si leva i guanti. Fra la signora magra e la cameriera patetica siede
un uomo di mezza età e in occhiali, che tiene spiegata davanti a sè
la _Gazzetta dei Prestiti_. Dirimpetto a lui, il numero dei quattro si
compie con un vecchietto sudicio e tabaccone che va mangiando ciambelle
e raccoglie e beccola le briciole che gliene cadono giù pei calzoni.
E il treno cammina, e gli alberi piantati lungo la strada paiono
correrci incontro rapidamente, e i fili del telegrafo per una
strana illusione ottica sembrano alzarsi e abbassarsi a vicenda,
e i cantonieri ritti, impalati dinanzi alle loro garette, fanno il
segnale d'obbligo, e la macchina fischia, rallenta il suo corso e si
ferma alla prima stazione. Movimento. La signora grassa e la signora
magrissima discendono. Un _oh_ di soddisfazione esce da tutti i petti.
Si amerebbe che scendesse anche il vecchietto sudicio, ma egli rimane
e seguita a mangiar ciambelle e a raccoglierne le briciole con la
punta del dito bagnata sulla lingua. Restano due posti vuoti. Chi li
prenderà? La gente passa davanti allo sportello e guarda dentro. Poi
si ritira. Non le piace la compagnia. Il bellimbusto è inquieto e pare
in forse di cambiar vagone. Quand'ecco il conduttore che precede due
passeggieri e addita loro i due posti. Entra prima un signore maturo e
urta nelle gambe della cameriera esageratamente protese verso quelle
del suo _vis-a'-vis_. Al signore maturo tien dietro una giovinetta
vispa, saltellante, vestita di percalle bianco e celeste, la quale
con un passo di grazia evita l'ostacolo che arrestò un istante il suo
signor padre e viene a sedersi proprio vicino al giovinotto elegante.
Costui si ricompone, infila di nuovo i guanti e prende un atteggiamento
pari alla circostanza. Il convoglio si muove. Il giovinotto, prima
di riaccendere il sigaro che si è spento, chiede alla sua vicina se
il fumo la disturba, e la vicina risponde con un garbatissimo — _No,
grazie_.
Il signor padre intavola un discorso con la persona grave che ha in
mano la _Gazzetta dei Prestiti_. La questione d'Oriente è il tema
della conversazione. — Povero Abdul Aziz! Dicono che si sia suicidato,
ma chi ci crede? — Lo avranno ammazzato, non ne dubiti. In Turchia
si ammazzano tutti i sultani — dice il lettore della _Gazzetta dei
Prestiti_, che è stato a Costantinopoli e conosce gli usi orientali.
— Quell'Ignatieff — osserva l'altro con aria di mistero — voleva farla
ai Turchi. — Sì, e i Turchi l'hanno fatta a lui. — C'è l'Inghilterra.
— Un osso duro — Altro! — L'Inghilterra vuole l'integrità dell'impero
ottomano. — Se la vuole! ha letto l'articolo dello _Standard_, organo
di Derby? — No signore. — Lo legga e vedrà. — Brutti affari. Perchè la
Russia pesca nel torbido. Gran potenza anche la Russia. — Cospetto! —
Ma in mare l'Inghilterra la supera. — Non si può dir nulla come andrà
a finire. — Non si può dir nulla. — Il meglio è stare a vedere.
Mentre i due politicanti deliberano di stare a vedere, il bellimbusto
cerca di attaccar conversazione con la ragazza vestita di percallo, ma
non riesce a cavarle di bocca che monosillabi. Allora egli si studia di
produrle impressione in altra maniera, estrae di tasca un libro, e se
lo pone sulle ginocchia in modo che la vicina ne veda il frontispizio
e capisca che è un libro francese. Quando egli è ben convinto che la
giovinetta ha acquistato questa importante cognizione, egli si mette
a leggere, di tratto in tratto ripiega il volume sull'indice della
destra e guarda nel vuoto come persona che medita. Ma non c'è caso; la
fanciulla non gli abbada e invece interrompe il padre nel bel mezzo
delle sue disquisizioni politiche per chiedergli se prima di uscire
di casa si sia ricordato di ordinare alla serva che dia da mangiare al
canarino.
Il mangiatore di ciambelle ha lasciato cadere la testa sulla spalliera
del sedile e dorme con la bocca semiaperta e con la barba piena di
briciole. La cameriera e il suo galante continuano a intendersela molto
bene e colgono ogni occasione per toccarsi le mani. Il giovinotto
_chic_ comincia a invidiare la sorte del compagno di viaggio meno
esigente.
Nuova fermata e cambiamento di scena su tutta la linea. Discendono
padre e figliuola, la cameriera, il bellimbusto, l'uomo della _Gazzetta
dei Prestiti_ e il vecchietto sudicio. Si resta per un momento in due:
il don Giovanni di cucina ed io. Il don Giovanni di cucina, dopo aver
seguito con l'occhio sin fuori della stazione la cameriera patetica,
vede ch'io non posso certo risarcirlo di tanta perdita, e si rannicchia
di malumore nel suo cantuccio.
_Secondi avanti_, grida il conduttore; _sei posti vuoti_. Ed ecco in
primo luogo due signore in lutto strettissimo, poi una famigliuola di
tre persone, marito, moglie e un bimbo di tre anni. Il marito mette
a posto una sacchetta, una valigia di cuoio spelata, due ombrelli,
uno sciallo, una cappelliera di cartone. Senza dubbio è un impiegato
traslocato. Per due volte egli porta macchinalmente la mano al
taschino del panciotto, e la ritira con un gesto che non tradisce la
più schietta soddisfazione dell'animo. Si rischia poco a scommettere
che il pover'uomo ha impegnato in questi ultimi giorni l'orologio. La
moglie ha un cerchio ribelle, che per quanto ella faccia, prende le più
strambe posizioni e tiene alzata la gonna fino al collo del piede. Non
ci guadagna proprio nulla. Il piede della signora è brutto per sè ed è
reso ancora più brutto da un paio di stivali da uomo. Saranno stivali
dimessi dal marito. Il bimbo che sarebbe bellino non brilla neppur esso
per buon gusto nell'abbigliamento. Invece c'è da scommettere che egli
non istarà mai fermo, e comincia a cascarmi addosso appena il convoglio
si rimette in moto. Poi piagnucola perchè non è presso al finestrino,
nè può vedere gli alberi. Affine di chetarlo, lo faccio venire nel mio
angolo, lo sollevo ritto sul sedile e lo tengo perchè non cada. Ma di
lì a un minuto gli viene una voglia irresistibile di tornar dalla mamma
e senza cerimonie eseguisce il gran passaggio sulle mie ginocchia.
Scandalo e scuse dei genitori. Il marito mi conferma a bassa voce che è
un impiegato traslocato. Non osa lagnarsi del suo destino perchè teme
lo si traslochi un'altra volta. Tanto e tanto bisogna ringraziare il
cielo che non sia accaduto di peggio. Era a Treviso e va a Lecce. Una
bagatella di oltre a mille chilometri di distanza: ma se lo mandavano
in Sicilia?
Mentre lo ascolto distratto, la mia attenzione si ferma sulle due
signore vestite a bruno. Son giovani ancora, non però giovanissime,
e hanno un aspetto triste e patito. Non parlan nemmeno fra di loro e
tengono il viso basso e il velo calato. A un punto una d'esse, come
per un segnale convenuto, tocca con la mano il ginocchio dell'altra, e
alzando il velo spinge la testa fuori del finestrino. La sua compagna
fa lo stesso. Vinto dalla curiosità, guardo anch'io da quella parte.
Non vedo sulle prime che una lunga distesa di campi; poi fissando la
pupilla in lontananza, mezzo nascosta da una macchia d'alberi, discerno
a fatica una casetta bianca sormontata da una banderuola metallica
che scintilla ai raggi del sole. È là che le due donne appuntano
gli sguardi, nè li rimuovono finchè la casetta bianca non scompare
dall'orizzonte. Allora una d'esse, la più giovine, quella che ha
l'aspetto più addolorato, si porta rapidamente una mano alle labbra e
invia un bacio alla cara visione. Poi entrambe riabbassano il velo e
ritirano il capo nell'interno della carrozza. Quella stessa che inviò
il bacio passa, sotto il velo, il fazzoletto, e si copre gli occhi.
Intanto il mio vicino discorre del progetto Depretis sul miglioramento
della sorte degl'impiegati, ma io non gli do retta. Penso al dramma
intimo di cui le due viaggiatrici abbrunate portano seco il facile
segreto, penso alla casetta bianca ove pochi giorni addietro qualcuno
dava l'ultimo addio alla luce, penso a questo atto così universale,
così costante della morte, eppur sempre così nuovo, così misterioso,
così terribile.
— Adesso non si può; a momenti, alla prima stazione — dice la signora
_impiegata_ al suo bimbo. Il bimbo strilla un poco, quindi s'acqueta e
ripiglia i suoi pellegrinaggi da una parte all'altra della carrozza.
Fa caldo, la conversazione s'interrompe, le teste diventano pesanti,
gli occhi hanno una tendenza a socchiudersi. Quand'ecco il silenzio
è interrotto da una fiera protesta del giovinotto dai calzoni color
caffè e latte, il quale, mentre sonnecchiava, sentì lungo le gambe una
impressione assai poco gradevole e incolpa del fatto il fanciullo, che
ad avvalorare i sospetti, si trova precisamente da quella parte.
I genitori si profondono in iscuse, ma la vittima non si calma così
presto.
— Non si conducono in viaggio bambini di questa età.
Questa proposizione stravagante fa montar la mosca al naso al _Travet_.
— Oh sì.... Anzi un funzionario traslocato non condurrà seco la prole.
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