Alla finestra: Novelle - 04

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principale, ch'era nomo di statura al disotto della mezzana. Inoltre
per la paura di mandar a male la grand'opera col più piccolo movimento,
il suo corpo aveva perduto ogni morbidezza di contorni ed era rigido
e stecchito come quello di un assiderato. Le braccia tese scendevano
fino all'altezza dell'anca, facendo un leggiero angolo acuto col
busto, e le mani aperte a ventaglio parevano preoccupate sovra ogni
cosa di persuadere il mondo ch'esse avevano il numero giusto di dita,
tanto un dito era discosto dall'altro. Ad aggiunger grazia all'insieme
contribuiva il fondo che figurava un giardino. — Giacchè debbo viver
sempre tra quattro muri, voglio stare almeno all'aperto in ritratto
— aveva detto il giovine al fotografo, e questi, per compiacerlo, lo
aveva addossato ad un paravento su cui erano dipinte due magnifiche
palme.
La Gegia ch'era artista per istinto avrà notato senza dubbio queste
stravaganze, ma non volle contristare con le sue critiche il buon
Carletto, e lo ringraziò molto della sua premura. Senonchè, mentr'ella
parlava, non potè a meno di osservare nel suo interlocutore un certo
che d'impacciato, una preoccupazione non naturale, una singolare
inquietudine dello sguardo. Parve ch'egli stesso trovasse necessario di
giustificarsene, perchè, quando i suoi occhi s'incontrarono in quelli
della Gegia egli divenne rosso e balbettò: — Guardavo quei fiori lì sul
tavolino.
La ragazza ben s'accorse non esser questa se non una scusa; tuttavia
volle accettarla per buona, stese il braccio a prendere i fiori
ch'erano ancora sciolti e se li pose in grembo.
— Oh la bella rosa — esclamò Carletto. — Verrebbe voglia di
odorarla.... E questo gelsomino!...
— Oh il gelsomino è facile; cinque pezzettini di carta bianca, guardi
il garofano piuttosto.
— Ma davvero! Com'è brava!
— È affar di pratica.
— Che lavoro c'è! Almeno glielo compenseranno bene.
La Gegia sorrise e disse: — Sa per chi preparo questo mazzolino?
— No in verità. Come potrei saperlo?
— Ebbene, spero che la sua mamma non avrà difficoltà ad accettarlo.
— La mia mamma? — esclamò Carletto.
— Sì — soggiunse la Gegia con accento commosso — da quando ho sentito
che discorrono qualche volta di me con la sua mamma, m'è venuta l'idea
di regalare a quella povera vecchia un lavoro mio.... Non ci vedremo
mai; ella non si muove più di casa, io non mi muovo di questa camera,
ma almeno.... io che sono la più giovine.... io che se fossi sana
dovrei andarla a trovare.... pregherò questi fiori di far le mie veci.
Mentre diceva così, annodava rapidamente il mazzolino con un sottile
filo di ferro, e con la manica del vestito si asciugava due grosse
lagrime che le colavano giù per le gote.
— Oh Gegia, com'è buona! com'è gentile! — disse Carletto, volendo
prenderle la mano.
Ella si schermì con uno di quegli atti istintivi della donna che nega
per consentire, e con un movimento un po' brusco della persona lasciò
scivolare la coperta che teneva sulle gambe.
— Oh perdoni — disse il giovine. E raccolse la coperta da terra e
gliela stese addosso amorevolmente. Pur non potè a meno di avvertire,
meglio che non avesse fatto sino allora, la sproporzione del
corpicino di lei; onde le parole gli morirono sulle labbra e restò lì
imbarazzato, confuso.
— Dunque li accetta questi fiori perla sua mamma? — ripetè la povera
Gegia macchinalmente, tendendogli il mazzolino e senza osar nemmeno di
guardarlo in viso.
— Oh se l'accetto! Sì, con tutta la gratitudine — egli rispose
prendendoglielo dalla mano, che questa volta, egli strinse davvero
nella sua.
— Vada via adesso — ella replicò tenendo il capo voltato verso la
finestra e accennando con la mano che le restava libera. — Vada via,
potrebbe venire la zia Marianna.
Egli esitò ancora un istante; poi disse: — Grazie ancora una volta,
Gegia, e a rivederci. — E se ne andò.
Oh se la Gegia fosse stata una ragazza come tutte le altre, certo egli
non le avrebbe ubbidito così presto!
Appena egli ebbe chiusa la porta, la giovine appoggiò i gomiti al
tavolino, nascose il viso fra le palme e ruppe in un pianto dirotto.
Il pingue gatto soriano ch'era in cucina e durante questo colloquio
aveva cacciato più volte il muso attraverso lo spiraglio dell'uscio e
s'era sempre tirato indietro alla vista di un estranio, ora si avanzò
adagio adagio sulle sue zampe vellutate, venne fino alla Gegia, si
fermò un momento a guardarla; poi le saltò sulle ginocchia.
— Povera bestia! — esclamò la Gegia. — Povera bestia! — E lo accarezzò
con una tenerezza assai maggiore dell'ordinario, tantochè il micio
non si mosse di là, finchè la zia Marianna non venne in persona a
prenderselo.
In quel giorno la Gegia aveva capito due cose: ch'ella amava Carletto,
e che non avrebbe mai potuto essere amata come sono amate le altre
donne.
Carletto le aveva detto — _A rivederci_ — ma c'era da scommettere
ch'egli non aveva in animo di tornarla a visitare; certo egli intendeva
dire soltanto che si sarebbero riveduti dalla finestra.
Dalla finestra egli le porse infatti i ringraziamenti di sua madre pel
dono dei fiori, ma non le fece altre visite, ed ella non cantò più;
nè egli le chiese perchè non cantasse. Capiva forse di essere andato
troppo avanti e non gli pareva onesto di lusingare la passione ch'egli
aveva creduto scoprire nella Gegia. Così il primo colloquio intimo
che i due giovani avevano avuto era stato anche l'ultimo, e il primo
scambio di cortesie successo tra loro aveva contribuito a rallentare
anzichè a stringere le loro relazioni.
Poi sopraggiunse l'inverno coi suoi freddi, le sue nevi, le sue
pioggie, e Carletto e la Gegia non si videro per più mesi che
attraverso i vetri.

XI.
Quando venne la buona stagione e le due finestre tornarono ad essere
aperte, la Gegia notò che Carletto era immensamente deperito. E invero
egli aveva una tosse ostinata.
— L'inverno mi fa sempre male — egli disse alla sua vicina — e non istò
ancora perfettamente.
— Non vuol curarsi.
— Ho preso tanti pasticci, più che altro per far piacere alla mamma....
Ma il meglio sarà ch'io resti in casa un paio di giorni.... Ne ho
chiesto licenza all'avvocato.
La Gegia sentì una trafittura al cuore. Le parve che una voce le
dicesse ch'ella non avrebbe più rivisto Carletto.
— E quali giorni ha scelto per istare a casa? — ella domandò.
— Comincierò domani ch'è domenica; spero così martedì o mercoledì
al più tardi di rimettermi al lavoro.... A ogni modo, senta, se per
mercoledì non vengo allo studio farò di tutto per passare un momento da
lei.
Era, dopo la visita dell'anno addietro, la prima volta ch'egli si
proponeva di venirla a trovare a casa.
— Oh signor Carletto, è troppo buono — ella disse — non vorrei che
queste cattive scale l'affaticassero.
— Non si dia pensiero, le farò adagio.... Se sapesse quante volte la
mamma mi ha detto ch'io ho mancato con lei.
— Con me! — sclamò la ragazza arrossendo. — O come mai?
— Sì; perchè non son venuto di persona a ringraziarla dei fiori.
— Lo sa che non deve far complimenti.... Verrà quando potrà.
Il mercoledì la Gegia passò una giornata agitatissima. Era forse
tornato a brillare un raggio di speranza nel suo povero cuore? Pensava
ella davvero a un ricambio della sua infelice passione? O piuttosto
la sua inquietudine era dovuta soltanto al timore che la malattia di
Carletto fosse più grave di quello ch'egli non credeva o non fingeva
di credere, tantochè egli non fosse in grado d'uscir di casa nè quel
giorno nè il giorno appresso, nè mai forse, mai più?
Se il pensiero che angustiava la sventurata ragazza era questo, ella
non si apponeva certo a torto. Non solo Carletto non comparve nel
mercoledì, ma il giovedì mattina la Gegia vide la serva dell'avvocato
che consegnava a un uomo maturo il vaso d'erbarosa.
Ella ebbe appena la forza di chiedere: — O non viene oggi il signor
Carletto?
La donna, sgarbata secondo il suo costume, scrollò le spalle senza
rispondere, ma l'incognito prese egli la parola. — No sicuro, non viene
oggi e non sa quando verrà.... Per questo ha mandato a prendere il vaso
d'erbarosa.
— Ma che cos'ha?
— Febbre e tosse.... Un affar lungo.
— Ma non mica serio?
— E chi può dir nulla? È attaccato al petto.
E, salutata la Gegia, si allontanò.
Ella, sopraffatta dal dolore, colse appena un frammento di dialogo tra
la fantesca e il messaggero di Carletto.
— Chi è quella ragazza?
— Oh _un bel feudo_!... Ha perdute le gambe.
La Gegia non aveva tempo di sentirsi mortificata da queste parole; il
suo pensiero era corso alla camera ove languiva il solo uomo che per
un istante aveva mostrato di provar per lei qualche cosa di più che
un sentimento di sterile compassione... Oh così avesse potuto volare
ella stessa a soccorrerlo, a vegliarlo! Così avesse potuto morire in
vece sua, morire sotto i suoi occhi, ridonandogli la vita e la sanità!
Che faceva ella nel mondo? A chi era necessaria? Non al padre, non
alla zia; egli invece aveva una vecchia genitrice di cui era il solo
conforto, egli poteva ancora trovare qualcheduno che lo amasse!
La tormentava inoltre l'idea delle strettezze in cui Carletto si
trovava sicuramente. Poveretto! Se la sua malattia era lunga, come
ne avrebbe sopportato le spese? Ed ella ripensò alla moneta donatale
dalla Lotte; a che opera buona l'avrebbe destinata se non a questa di
soccorrere Carletto e la sua mamma?
Il sabato, quando il vecchio Menico venne da lei come il solito, ella
lo supplicò di ascoltarla con pazienza e di prepararsi a darle una
prova del suo affetto per essa. Gli raccontò la storia del napoleone
d'oro, il voto ch'ella aveva fatto d'impiegarlo un dì o l'altro in tal
cosa che le facesse perdonare a sè medesima il modo in cui lo aveva
ricevuto; gli parlò di Carletto, della sua malattia, dei suoi imbarazzi
economici e del bisogno ch'ella sentiva di essergli utile. Finchè era
sano, ella non aveva avuto il coraggio di offrirgli nulla, ma adesso
ch'era infermo, ogni esitanza le sarebbe parsa colpevole, ed era certa
che Carletto non avrebbe rifiutato un aiuto da lei. Perciò, s'era vero
ch'egli le voleva bene, egli stesso, il signor Menico, doveva assumersi
quest'ufficio delicato, doveva andare da Carletto, informarsi della sua
salute, vederlo e fargli accettare quel po' di denaro. No, s'egli stava
in forse di compiacerla, ella non avrebbe più creduto nemmeno a lui,
avrebbe detto, povera disgraziata, che nessuno, nessuno aveva pietà
di lei sulla terra, Menico, ch'era di cuor tenero, finì col cedere
e adempiette così bene all'incarico che la Gegia gli sarebbe saltata
al collo se il saltare fosse stato cosa da lei. Quand'egli le disse
che a parer suo Carletto non istava poi tanto male come si voleva far
credere, quando le soggiunse che il suo napoleone era stato accolto con
lagrime di riconoscenza e aveva risparmiato alla madre del giovine la
necessità d'impegnare un filo d'oro ereditato da suo marito, la Gegia
si sentì quasi felice. È pur vero che noi non possiamo sbarazzarci
affatto dell'amor di noi stessi nemmeno negli slanci più generosi
dell'animo, e la soddisfazione di lenire un dolore altrui ci fa sovente
dimenticare che sarebbe assai meglio che questo non ci fosse.
Di lì ad alcune settimane il signor Menico tornò a visitare l'infermo.
Aveva ancora la tosse e un filo di febbre, ma era pieno di speranze. La
finestra della sua cameretta era spalancata, e il sole veniva a lambire
il suo letticciolo, e le dolci aure di primavera accarezzavano la sua
fronte.
— Che cosa le mandi a dire alla Gegia? — chiese a Carletto la vecchia
madre che gli sedeva vicino e lo guardava teneramente.
— Che sto meglio, e che mi alzerò domani e uscirò presto di casa
giacchè ormai siamo in aprile e non ho più paura.
— Oh sì — soggiungeva la madre. — La primavera è un gran balsamo per te.
— Chi sa, domenica forse — ripigliò il malato appoggiandosi su un
gomito — potrò andare a messa... E chi sa che non mi spinga fino dalla
Gegia...
— Bada — interruppe la vecchia — non troppe cose in una volta.
Ci andrai lunedì dalla Gegia... E bisogna che tu vada anche
dall'avvocato...
— Sicuro; perchè egli mi passa sempre lo stipendio e mi conserva
l'impiego... Insomma, o domenica o lunedì, se dura questo bel tempo la
signora Gegia mi vedrà senza fallo.
Il buon Menico, nel riferire questi discorsi alla ragazza, tentennava
un po' la testa, come a significare ch'egli non credeva a questa
rapida guarigione; ma la Gegia gli diceva che egli era sempre stato
un pessimista ed ella aspettava senza fallo Carletto per lunedì. Non
isperava nulla per sè, non s'illudeva più nel bel sogno d'essere amata:
le bastava rivederlo.

XII.
Senonchè, fino dalla mattina di quel lunedì atteso con tanta impazienza
ella s'accorse che per quel giorno almeno le era forza rinunziare alla
visita del convalescente. La temperatura s'era abbassata da un punto
all'altro; pareva tornato l'inverno. Veniva giù un'acqua fitta, spirava
un vento freddo che soffiando di tratto in tratto più forte faceva
sbatter le imposte e moveva in giri capricciosi il fumo dei camini.
Oppressa da una malinconia tetra, invincibile, la Gegia non trovava il
verso di mettersi al lavoro. Ella stava immobile a sentir lo scroscio
della pioggia, a guardar le goccioline che si formavano dietro i vetri
della sua finestra chiusa e colavano a guisa di lagrime. E pensava a
Carletto che aveva tanto bisogno del sole e a cui forse una giornata
come questa ritardava di qualche settimana la guarigione... Forse egli
era rimasto a letto, forse contemplava anch'egli mestamente il cielo
color della cenere e si ravvolgeva entro le povere coltri per ripararsi
dall'aria umida che penetrava nella sua camera attraverso le imposte
sconnesse.
Assorta nelle sue tristi fantasie, la ragazza non sentì bussare una
prima volta alla porta. Quando si bussò di nuovo:
— Chi è? — ella chiese in sussulto.
— Amici. Non istà qui una signora Gegia?
— Sì — ella rispose e tirò il cordone.
Entrò un ometto di bassa statura con un pastrano che gocciolava da
tutte le parti e sotto il quale pareva ch'egli nascondesse qualche
cosa. La fisonomia non era nuova alla Gegia, ed ella che vedeva così
poca gente, non tardò a riconoscerlo per la persona a cui la serva
dell'avvocato Galeni aveva consegnato il vaso d'erbarosa. Egli veniva
senza dubbio da parte di Carletto, ed è facile immaginarsi come
battesse in quel momento il cuore della povera paralitica.
— Ah! Ho avuto il piacere di vederla un'altra volta — soggiunse il
nuovo arrivato, levandosi il berretto e scuotendolo in modo da spruzzar
d'acqua i mattoni del pavimento. — Sant'Antonio Abate! Che brutto
tempo... Basta; ho un incarico poco allegro per questa signora Gegia...
È lei, non è vero?
— Sono io!... Che c'è mai?
— Un incarico di Carletto.
— Di Carletto! — esclamò la ragazza impallidendo. — E come sta?
— Eh, sta meglio di noi adesso.
— Ma si spieghi... per carità... non mi faccia credere...
— Cara la mia _tosa_, ci vuol pazienza... Il Signore lo ha chiamato a
sè.
— Morto? — gridò la Gegia. — Morto?
— Pur troppo. Stamattina alle 9.
— Oh Dio!
— È morto come un santo...
— Ma non istava meglio?
— Era spedito dal medico da un pezzo, ma son di quei mali!... Ancora
ieri s'è provato ad alzarsi.... Iersera poi si sentiva più debole e
ha voluto confessarsi e comunicarsi.. Io che sono il sacrestano della
parrocchia avevo seguito il prete, e quando Carletto s'accorse ch'ero
là, mi disse: — Girolamo, più tardi, di qui ad un'ora, passate da
me. — Così ho fatto... Il poverino stentava a respirare, ma appena
mi vide mostrò una gran consolazione e mi disse: — Girolamo, dovete
farmi un piacere. — Mille, viscere mie, io gli risposi. — Figuriamoci,
l'ho visto nascere, e suo padre ed io eravamo come due fratelli. —
Ebbene — egli ripigliò dopo aver preso fiato — di facciata al portone
dell'avvocato Galeni ci sta una povera _tosa_ di nome Gegia, ch'io
vedevo ogni giorno dalla finestra dello studio e che ha sempre mostrato
molta premura per me. Quando sarò morto, e ormai sento che non passerò
la giornata di domani, portatele quel vaso d'erbarosa ch'è lì sul
balcone e che siete andato a riprendere poche settimane or sono...
povero Girolamo, tant'era che non vi facessi fare che un viaggio
solo... portateglielo per memoria mia, e salutatela tanto, e ditele
ch'io pregherò il Signore e la Madonna perchè la facciano guarire delle
sue infermità... e che si ricordi qualche volta di me...
— Oh me ne ricorderò sempre, sempre — proruppe la Gegia in mezzo ai
singhiozzi.
L'altro intanto aveva deposto sopra una sedia la pianta d'erbarosa e si
soffiava romorosamente il naso con un fazzoletto blù.
— Si dia pace... non faccia disperazioni... Tanto ha finito di
patire... Se avesse visto com'era ridotto...
— Povero giovine! Povero giovine! Così buono!
— Oh buono sì... E timorato di Dio, sa... Non come tanti... Egli veniva
sempre alle funzioni... Don Agostino, quando lo ha lasciato iersera,
disse a me: — Quello lì va in Paradiso dritto.
— E la sua mamma?
— Oh le mamme, si sa, stentano a rassegnarsi... Ma anch'ella stamattina
mi disse asciugandosi gli occhi: — Vi raccomando di eseguir la
commissione del mio Carletto... E la saluterete anche per me, quella
_tosa_.
— Grazie, grazie... oh come pagherei a potermi muovere e a venirla a
trovare!... Ma è inutile!... E come vivrà adesso?
— C'è una sua sorella maritata con un orefice, e quella si è obbligata
a passarle un tanto... Poi ha ancora quei quattro stracci di suo
marito.
— O senta — replicò la Gegia — io sono una poveretta, ma se la mamma
di Carletto dovesse trovarsi nella miseria, io darei tutto quello che
ho per sollevarla... Glielo dica, sa, per l'amore che portava a quel
giovine... glielo dica... E adesso, scusi, mi dia qui quel vaso.
Ella prese e guardò quella pianta come si prende e guarda un bambino;
poi la depose dolcemente ai suoi piedi, si frugò nelle tasche e
trattone un biglietto da due lire, lo porse al sacrestano.
— Giacchè è tanto buono; faccia dire una messa al nostro defunto anche
per me... Lo hanno già portato in chiesa?
— Oh no, lo porteremo domani... E sia tranquilla che si faranno le cose
per bene... Le ripeto che tutti lo amavano... e ci sarà un funerale da
povera gente... ma decoroso...
Sono trascorsi alcuni anni, e la Gegia passa ancora le giornate
al solito posto. Non sorride mai, non canta più, ha già qualche
cappello bianco e qualche ruga sul fronte. Guarda spesso verso la
finestra dirimpetto e i suoi occhi si bagnano di lagrime. Ella non sa
persuadersi che un dì o l'altro non debba tornare Carletto a quella
finestra e dirle:
— Buon giorno, signora Gegia.


LE CHIACCHIERE DELLA NONNA

«Egli le sì gettò ai piedi esclamando: Vi amo!»
Quando l'Adelina ebbe letta questa frase, ella posò dispettosamente
il giornale sopra la tavola e disse: — Qui termina l'appendice, e
bisognerà aspettare fino a domani. Non potevano stampare una riga di
più e farci sapere che cosa abbia risposto la signora Clotilde?
La nonna sorrise. — Povera signora Clotilde! Ella si trova in una
situazione difficile e vogliono lasciarle un giorno da pensarci su.
La contessa Olimpia (la chiamavano _contessa_, quantunque a rigore
ella non avesse più diritto a portare il suo titolo di famiglia dopo
essersi sposata con un ricco banchiere) era una bella vecchietta sulla
settantina. Occhi vivi e intelligenti, sorriso arguto e benevolo,
persona svelta ancora ed elegante, a malgrado dell'età. Quel giorno
ella aveva in capo una cuffia bianchissima con nastri verdi scuri
e indossava un vestito di seta nera che dava risalto al candore del
carnicino e dei polsini insaldati. Adagiata in una poltrona a molle,
coi gomiti appoggiati ai bracciuoli, con la testa protesa in avanti
come chi ascolta, la contessa Olimpia aveva seguito attentamente la
lettura della nipote.
L'Adelina poteva avere diciannove anni, ed era leggiadrissima di
volto e di forme. Somigliava alla nonna negli occhi bruni, mobili ed
espressivi; ma quegli occhi avevano una qualità che quelli della nonna
non potevano avere, il fuoco della giovinezza.
Nonostante il mezzo secolo e più che le divideva, le due donne
s'intendevano e s'erano sempre intese fino dal giorno in cui l'Adelina,
appena venuta al mondo, dopo aver strillato in braccio della levatrice,
della balia e del babbo, s'era acquetata sulle ginocchia dell'ava.
Nonna e nipote erano la gioventù della casa; i genitori e le sorelle
dell'Adelina appartenevano alla razza di quelle creature linfatiche,
che sono già vecchie a vent'anni e che non corrono mai rischio di
smarrirsi per via, perchè camminano dentro un fosso.
La contessa Olimpia, ava paterna dell'Adelina, aveva conosciuta e
goduta la vita, aveva esercitato intorno a sè il fascino della grazia e
della bellezza. I maligni pretendevano che a rivangar nel suo passato
si potesse trovar qualche momento di oblio; era certo però ch'ella si
conservava una persona simpatica, atta a compatire e a intendere gli
altri, pronta a fare un sacrificio con animo sereno e viso ridente.
Un suo difettuccio era quello d'essere un po' loquace, e questo
difettuccio aveva la disgrazia di combinarsi con uno della nipote,
d'essere un po' curiosa.
Quando dico la nipote, voglio parlare dell'Adelina; chè le altre due
erano floscie e insignificanti come i loro rispettabili genitori, e la
nonna trovava che non c'era sugo a discorrer con esse.
— Eppure — osservò l'Adelina — gli uomini sono molto più arditi nei
romanzi che nella vita reale.
— Uhm! — fece in tuono dubitativo la contessa Olimpia.
— Non sei del mio parere, nonna? Ma scusa, per esempio, a badare ai
libri, ci sarebbe ogni momento qualcheduno che si getta ai piedi di
una donna.... E ho notato che la donna ha tre sistemi diversi....
Ti ricordi della novella del _Monde Illustré_ del mese scorso?
Quel cavaliere s'inginocchia davanti alla marchesa. Ella scuote il
campanello, e dice al servo: _Eclairez Monsieur_. Questo è un sistema
che non si può adottar che di sera.
— Pazzerella che sei. Smetti.
— _Sistema secondo_. _Egli_ le si getta ai piedi secondo il solito,
_ella_ si alza sdegnata: Signore, voi violate le leggi dell'ospitalità;
v'intimo di uscire.... Qui almeno non c'entra la servitù.... È vero che
qualche volta il signore non esce.
La nonna rideva.
— _Sistema terzo_. _Egli_ fu come sopra; _ella_ lo rialza
cortesemente.... Mi pare un sistema da persone educate, ma è anche il
più pericoloso.
— Sai, Adelina, che se la tua mamma ti sentisse....
— Misericordia!... È appunto per questo che parlo quand'ella non c'è.
— Bell'onore che fai alla nonna.
— La nonna è più indulgente.
— Troppo indulgente.
— Non mi hai insegnato tu quella bella sentenza d'una scrittrice
francese: _Tout comprendre c'est tout pardonner?_
— Ho fatto male a insegnartela. Certe cose non devono interpretarsi
alla lettera.
— Sii buona, nonnina.... Dunque tu dici che anche nella vita reale gli
uomini si gettano spesso ai piedi delle donne....
— Io non ho detto nulla....
— Ma l'hai lasciato capire.... È singolare.... A me non è accaduto
mai....
— Oh Adelina.... Non ti vergogni? Sei poco più di una fanciulla.... E
vorresti?
— Tanto per vedere.... Deve fare un certo effetto.... Che effetto fa?
La contessa Olimpia non potè a meno di ridere. — Sai che è una domanda
impertinente?
— Nonna, nonnetta, nonnina bella, se la cosa accade qualche volta, è
impossibile che non sia accaduta anche a te....
— O vediamo un po' la ragione, signora dottoressa.
— Perchè basta guardare il ritratto a olio appeso in salotto per dire:
questa donna, nella sua gioventù, era affascinante. O gli uomini di
quel tempo avevano un gran cattivo gusto, o....
— Zitto, zitto, adulatrice.
— Nonna, nonnetta, nonnina bella, levami questa innocente curiosità;
non s'è gettato nessuno ai tuoi piedi?
— Ma insomma?
— Il nonno, buon anima, che non ho mai conosciuto?
La contessa si strinse nelle spalle. — Lui?... Oh no.... Tuo nonno era
un uomo serio e posato che attendeva ai suoi affari.... Egli chiese la
mia mano ai miei genitori che gliel'accordarono.... Non c'era nessun
bisogno ch'egli mi si inginocchiasse davanti.... Avevo allora sedici
anni.
— Fosti sacrificata, povera nonna.
— No, no.... Mi trattò benissimo....
— Ma aveva molti anni più di te....
— Pur non era vecchio....
— Ma non lo amavi.
— Non si ama mica quando si vuole.... Si viveva in buona armonia,
quantunque ci fosse tra noi una gran diversità di carattere. Egli era
freddo, calmo, positivo; io ero impetuosa, entusiasta, poetica;...
egli avrebbe preferito una vita ritirata, io invece andavo pazza pei
divertimenti, pei teatri, pei balli.... Dopo tutto, se uno di noi
poteva lagnarsi era lui; perchè egli non aveva voluto impormi i suoi
gusti ed io gli avevo imposto i miei.
— Quanto pagherei ad averti vista in quei tempi, la mia nonnetta!
— Non pagheresti nulla, perchè se tu mi avessi vista allora, saresti
adesso all'incirca come me, con settant'anni sulle spalle, le grinze
in viso e i capelli bianchi in testa.... Del resto, consolati, tutti
dicono che mi somigli....
— Dovevi esser più bella, dovevi vestire con un gusto squisito.
— Sì, non vestivo male.... E non ispendevo mica tesori.... Ma, sai,
il buon gusto è una cosa che non s'impara; o lo si ha, o bisogna
rinunziarvi....
— Certo tu eri la regina di tutte le feste....
— La regina è troppo, ma, non lo dissimulo, ero tra le signore più in
voga....
— Lasciamelo dire di nuovo; a costo di non esser più giovine adesso,
avrei voluto vederti quand'eri fra i venti e i trent'anni, avrei
voluto vederti nei balli, circonfusa di veli, splendente di gemme,
vagheggiata da cento adoratori, superbi di raccogliere un tuo guanto,
un fiore caduto dai tuoi capelli, assetati d'una tua parola, d'un tuo
sorriso....
— Eh ragazza mia, vedi che cosa è rimasto di tutto ciò.
— È rimasta una bella nonnetta.... E poi i ricordi non valgon nulla?....
— .... Nessun maggior dolore
Che ricordarsi del tempo felice
Nella miseria....
— Sì, lo dice Dante; ma tu mi hai fatto leggere l'altra settimana una
poesia di De Musset che ha un'opinione contraria:
Un souvenir heureux est peut être sur terre
Plus vrai que le bonheur.
— Lei ha sempre la sua risposta pronta....
— Non è vero, nonnetta mia; che gli uomini ti venivan dietro come tanti
cagnolini?
— Sicuro che mi venivan dietro.... E c'era qualcheduna che ne aveva
una rabbia.... La contessa Aureli specialmente. Era bella, ricca,
più nobile di me che avevo macchiato il mio blasone maritandomi a un
banchiere, e avrebbe voluto tener senza contrasto lo scettro della
moda.... Ma per forza o per amore, doveva dividerlo meco.... Eravamo
rivali, le due illustri rivali.... Il lunedì ella riceveva in casa
sua, il sabato ricevevo io. Naturalmente ella veniva da me, io andavo
da lei, non ci si poteva soffrire, ma si stava sempre insieme, per
sorvegliarci a vicenda.... Se io non c'ero, ella aveva un gran circolo
attorno; al mio arrivo tutti si alzavano e mi si faceva un posto presso
la mia intima amica.... Il circolo si ricomponeva ma si badava a me....
La bellezza dell'Aureli era più regolare della mia, ma io piacevo di
più; ella era più colta di me, ma la sua cultura era mal digerita....
la chiamavano l'_oca dotta_.... io invece avevo fama di essere una
donna di spirito.... in quel tempo.
— Anche adesso, anche adesso.
— La contessa Aureli ambiva di farsi presentare gli uomini ch'erano
in auge per una ragione o per l'altra, i forestieri sopratutto; già
piuttosto che al vero merito ella guardava alla fama.... A ogni modo,
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