Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 21

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il trattato e diede cauzione per una determinata somma. Finalmente il
giorno 4 agosto del 1279 essendo stati conchiusi tutti questi trattati,
le due fazioni de' Geremei e de' Lambertazzi si adunarono sulla piazza
di Bologna, tutt'all'intorno ornata di ricchi tappeti sparsi di
ghirlande di fiori e di festoni di verzure. Stava presso la porta dei
palazzo una cattedra magnifica coperta di broccato, nella quale andò a
sedere il cardinal legato, accompagnato dagli arcivescovi di Bari e di
Ravenna, dai vescovi di Bologna e d'Imola e dall'abate di Galliati,
tutti pontificalmente vestiti. Il legato con un eloquente discorso
predicò la pace ai cittadini adunati, fece in appresso leggere le
lettere del papa ed il sottoscritto compromesso; e infine fece che si
avanzassero cinquanta de' più riputati cittadini d'ogni fazione, e fece
loro giurare sul santo vangelo, in nome di tutti i loro concittadini, di
vivere continuamente in buona pace ed amicizia gli uni cogli altri. I
procuratori ed i sindaci delle due fazioni si abbracciarono, e
quest'augusta cerimonia si terminò con feste rallegrate dalla gioja
universale[369].
[369] Il Ghirardacci, _Stor. di Bolog. l. VIII, p. 248_, nomina 138
famiglie ghibelline e 129 guelfe che segnarono il trattato. _Cron.
Miscel. di Bologna t. XVIII, p. 288, 289. — Mathæus de Griffon. Memor.
Hist. t. XVIII, p. 126. — Chron. F. Francisci Pipini l. IV, c. 10. t.
IX, p. 718. — Ann. Foroliviens. t. XXII, p. 146. — Annales Cœsenat.
t. XIV, p. 1104._
Prima che avesse fine il pacificamento di Bologna, il cardinale Latino
erasi allontanato da quella città per pacificare anche le città della
Toscana. Giunse a Firenze il giorno 8 d'ottobre del 1278, accompagnato
da trecento cavalieri, sudditi della chiesa. Vennero ad incontrarlo i
magistrati, il clero ed il popolo, preceduti dal carroccio. Firenze non
abbisognava meno di Bologna d'un paciere; perchè non solamente
trovavansi esiliati i Ghibellini, ma si era pure manifestata nel partito
guelfo una nuova divisione. La casa degli Adimari erasi inimicata con
quelle dei Donati, dei Tosinghi e dei Pazzi; e queste numerose e potenti
famiglie avevano ridotto il popolo a prendere parte alla loro lite. Il
cardinale legato impiegò quattro mesi a soffocare queste private
nimistà, ad assicurare la riconciliazione delle famiglie coi matrimoni,
a punire colla scomunica coloro che rifiutavansi di pacificarsi, i quali
poi erano dalla repubblica esiliati. Dopo le quali pratiche, in febbrajo
del 1279 adunò il popolo in parlamento sulla piazza di santa Maria
Novella, ch'era stata per tale circostanza ornata di fiori; esortò i
Fiorentini alla pace, della quale pronunciò le condizioni: il ritorno
de' Ghibellini in patria, la restituzione dei loro beni, la
partecipazione agli ufficj pubblici; impegnò centocinquanta de' più
ragguardevoli cittadini d'ambo le parti a darsi in presenza del popolo
il bacio di pace; fece bruciare tutte le sentenze ch'erano state
pronunciate; e non abbandonò Firenze finchè non ebbe ristabilita la
tranquilità e la concordia[370].
[370] _Gio. Villani l. VII, c. 55, p. 272. — Ricordano Malaspini
Ist. Fior. c. 205, p. 1023._
Anche a Siena si fece la pace per le persuasioni dello stesso cardinale
a condizioni press'a poco eguali; e furono richiamati i Ghibellini
esiliati[371]. Pacificate la Marca d'Ancona, la Romagna e la Toscana,
altro non rimaneva al compimento della missione del cardinal Latino che
di riconciliare anche in Lombardia i Guelfi ed i Ghibellini. Il re Carlo
che, avanti il pontificato di Nicolò, era stato l'arbitro d'Italia,
vedevasi ora ridotto al solo governo delle Sicilie; rotti erano tutti i
suoi progetti, i suoi nemici tornati al possedimento de' loro beni e del
governo della loro patria, quando il papa, sorpreso dalla gocciola,
improvvisamente morì a Suriano[372].
[371] _Malavolti Stor. di Siena p. II. l. III, p. 45._
[372] Morì il 19 agosto del 1280.
Carlo non aveva fatto conoscere quanto fosse irritato per la condotta
del papa; ma mentre dissimulava le sue ingiurie, andava assicurandosi
della seguente elezione, onde non fosse dato alla chiesa per capo un suo
nemico. Quand'ebbe avviso della morte di Nicolò, recossi subito a
Viterbo ove trovavansi adunati i cardinali; e siccome Giovanni XXI nel
suo breve pontificato aveva sospesa la costituzione di Gregorio X, in
virtù della quale i cardinali dovevano essere chiusi in conclave, Carlo
seppe ben tosto in quali partiti era diviso il sacro collegio. Aveva
contro di lui tutti i cardinali italiani, e particolarmente i parenti
dell'ultimo papa. Per giugnere a' suoi fini fece nascere in Viterbo una
sedizione, durante la quale fece rapire i due cardinali Orsini e il
cardinale Latino e li sostenne in una specie di prigione, mentre
strigneva gli altri a nominare il papa[373]. Dopo un interregno di sei
mesi i cardinali italiani che restavano in conclave, spaventati dalla
sorte dei loro colleghi, il 22 febbrajo del 1281 unirono i loro suffragi
a quelli de' cardinali francesi e nominarono papa Simone, cardinale di
santa Cecilia, in addietro canonico di Tours. Carlo non poteva scegliere
un uomo che gli fosse più attaccato, che più ciecamente favoreggiasse i
suoi progetti, o più bassamente servisse alle sue passioni in onta delle
leggi della chiesa e dell'interesse della Cristianità.
[373] _Rayn. an. 1281, § 1 e 2, p. 324. — Ptolom. Lucensis Hist.
Eccles. l. XXIV, c. 1 e 2, t. XI, p. 1185. — Ricord. Malaspini c.
207, p. 1025. — Gio. Villani l. VII, c. 57, p. 275._
Al re di Sicilia non poteva riuscire utile il riconciliamento delle due
fazioni in Italia: per lo contrario la sua ambizione non potev'essere
soddisfatta che dal trionfo de' Guelfi e dalla ruina de' Ghibellini. Il
nuovo papa, che fecesi chiamare Martino IV, spogliò del comando della
Romagna il conte Bertoldo Orsino, e diede questo contado ad un ufficiale
di Carlo, detto Giovanni d'Appia, cui ordinò di attaccare i Ghibellini
ed i Lambertazzi cacciati nuovamente da Bologna; di perseguitare Guido
di Monte Feltro loro generale, e d'assediare Forlì ove tutti eransi
ritirati[374]. Invano questi, già traditi a Faenza da Tibaldello
Zambrasi, che approfittò del sonno de' suoi ospiti per darli colla sua
patria in mano de' Guelfi[375], spedirono ambasciatori al papa per
rappresentargli ch'erano esiliati e proscritti in ogni luogo.
Proponevano di ritirarsi ancora da Forlì, purchè il papa loro assegnasse
un luogo in cui potessero vivere. Martino non si degnò di rispondere, ed
invece li colpì con nuove scomuniche, ordinando in tutta la cristianità
il sequestro dei beni degli abitanti di Forlì a profitto della santa
sede.
[374] _Bolla presso Rayn. an. 1281, § 12, p. 326. — Ann. Foroliv. t.
XXII, p. 146-153._
[375] Tibaldello Zambrasi posto da Dante all'inferno fra i
traditori, _Canto XXXII; ver. 122_, erasi mortalmente inimicato coi
Lambertazzi per cagione d'un majale che gli fu tolto. Si fece per
più mesi creder pazzo, e risvegliava improvvisamente i suoi
concittadini gridando alle armi, o facendo suonare per le strade
istrumenti di bronzo. Quando gli ebbe avvezzati a non allarmarsi per
verun rumore, introdusse in città i Bolognesi loro nemici.
_Ghirardacci l. VIII, p. 256._
Martino erasi fatto nominare senatore di Roma; ma invece di conservare
per sè una dignità conferitagli dal popolo, la trasmise subito al re
Carlo, in onta alle costituzioni di Nicolò III, che escludevano i re ed
i principi potenti dalla dignità senatoriale. Nello stesso tempo
distribuì le truppe francesi non solo in tutta la Romagna, ma nella
Marca d'Ancona, nella Campania, nel ducato di Spoleti e nel patrimonio
di san Pietro, dando a tutte le città governatori e comandanti, che
sceglieva tra gli ufficiali, o nella stessa famiglia del re siciliano.
Carlo, per non perdere di vista questo pontefice che vivea sotto la sua
tutela, dimorava sempre con lui in Viterbo[376].
[376] _Raynald. Ann. § 14, p. 326._
Finalmente il re di Sicilia volgeva gli ambiziosi suoi pensieri alla
Grecia, che meditava di togliere a Paleologo per darla a suo genero
Filippo, figliuolo dell'ultimo imperatore de' Latini; e Martino IV cercò
d'adonestare questa nuova guerra con motivi di religione. Scomunicò
Michele Paleologo per essere ricaduto nello scisma, o eresia de'
Greci[377], accomunando la stessa pena a tutti coloro che contraessero
con lui alleanza, o gli prestassero ajuto, mentre l'infelice Paleologo,
per aver voluto rappacificarsi colla chiesa d'Occidente, erasi provocato
l'anatema del suo clero e di tutti i suoi sudditi. La ribellione era
scoppiata ne' suoi stati, e Carlo non aveva avuto vergogna di soccorrere
gli scismatici, che non eransi ribellati contro il loro sovrano che per
avere egli cercato di riconciliarli col papa[378].
[377] _Ib. § 25. p. 329._
[378] _Pachymerus l. V, c. 22, 23, p. 222 e seg. e l. VI, c. 30, p.
282. — Script. Byzant. t. XII, Venet. Dufresne Ducange Hist. de
Constantinople l. VI, c. 8, p. 95._
Intanto Carlo annunciava qual nuova crociata la spedizione che stava
preparando contro Costantinopoli. Egli aveva formato un numeroso corpo
di cavalleria, chiesti soccorsi a tutti i suoi alleati, armati vascelli,
e di già spedito, dall'altra banda dell'Adriatico a Canina, presso
Durazzo, un corpo di tre mila uomini sotto il comando di Rousseau de'
Soli[379], cui in breve sarebbesi unito egli medesimo per occupare il
Levante. Ma l'insaziabile sua avidità, la sua ambizione, la sua crudeltà
avevano finalmente stancata la fortuna e la pazienza de' suoi sudditi.
Un privato nemico, uomo d'un carattere generoso e profondo, un uomo
animato dalla gratitudine e dall'amore verso i suoi antichi sovrani, dal
desiderio di vendicarli; dall'odio della tirannide; un uomo solo colle
sue forze individuali intraprese ad abbattere l'usurpatore che opprimeva
il suo paese, e riuscì a preparare e condurre a termine questa grande
vendetta nazionale.
[379] _Pachymerus l. VI, c. 32, p. 284. — Niceph. Gregoras Hist. l.
V, c. 6, p. 74 e seg. — Byzant. t. XX. — Notæ L. Botvin ad Niceph.
Greg. p. 28._ intorno al nome di Rousseau de' Soli molto sfigurato
dai Greci.
Giovanni di Procida, nobile salernitano, era padrone di quell'isola di
Procida, posta nel golfo di Napoli, che viene oggi visitata dal curioso
forestiere per vedervi conservate le costumanze e l'abito de' Greci. Era
inoltre signore di Tramonte, Cajano e Pistilione[380]. I suoi natali non
gli avevano però impedito di studiare la medicina, che allora veniva
coltivata dai principali signori. Era egli stato il medico e ad un tempo
il confidente e l'amico di Federico II e di Manfredi[381], ed aveva
prese le armi per Corradino, quando questo giovane principe era entrato
nel regno. Dopo la vittoria di Carlo, tutti i suoi beni essendo stati
confiscati, erasi egli ritirato presso Costanza, figliuola di Manfredi,
e regina d'Arragona, ultima erede della famiglia di Svevia, la quale
avealo accolto come un suddito fedele ed uno zelante amico. Il re Pietro
d'Arragona, per indennizzarlo di quanto aveva perduto, lo nominò barone
del regno di Valenza, signore di Luzzo, Benizzano e Palma[382].
[380] _Ducange Hist. de Costantin. l. VI, c. 9, p. 95._
[381] Tutini _degli Ammiragli p. 66._ citato da Giannone _l. XX, c.
5, p. 56_ dice di aver veduto ne' reali archivi uno scritto con cui
Gualtiero Caraccioli domandava al re Carlo II il permesso d'andare
in Sicilia a trovare Giovanni di Procida, assai vecchio, per farsi
guarire da una malattia.
[382] Pietro III detto il grande, era stato coronato re d'Arragona
negli stati di Saragozza del 1276. _Hier Blancæ Rer. Arag. Comment.
p. 659, t. III, Hisp. illust._ — I feudi dati a Procida sono
indicati da Mariana, _Hist. de las Españas l. XIV, c. 6. — Hisp.
Illust. t. II, p. 621._
Ma nè feudi, nè ricchezze potevano fare scordare a Procida la tragica
morte di Manfredi e di Corradino, la sventura della sua patria e
l'oppressione de' suoi concittadini. Dalle corrispondenze ch'erasi egli
conservate nelle due Sicilie, riceveva continui avvisi delle vessazioni
de' Francesi, delle loro ingiustizie, delle loro crudeltà, ed in
particolare dell'affettato disprezzo che mostravano d'una nazione,
ch'essi per altro non avevano conquistata, ma che si era da sè medesima
data nelle loro mani per la tradita speranza d'un miglior governo.
Giovanni di Procida informava il re e la regina d'Arragona delle
lagnanze de' Siciliani, i quali, trovandosi più lontani da Carlo, erano
abbandonati a' suoi vicarj, e più crudelmente vessati dei Pugliesi.
Faceva sentire alla regina, ch'ella era la sola legittima erede della
casa di Svevia e del regno delle due Sicilie; che Corradino, morendo,
l'aveva in un modo solenne chiamata a raccogliere la sua eredità ed a
vendicare il suo supplicio; che non si trattava soltanto d'un diritto,
ma ch'era per lei un dovere d'accettare il governo d'un paese che gli
veniva trasmesso dalle leggi delle due nazioni e dai voti dei popoli: e
perchè Pietro e Costanza non erano sconsigliati dalla guerra di Sicilia,
che per credersi troppo deboli da attaccar soli un re che aveva fama
d'essere allora il più potente di tutta la Cristianità, Procida vendette
tutti i beni che aveva ricevuti dalla loro liberalità, onde impiegarne
il prezzo ne' suoi viaggi diretti a suscitare nemici a Carlo in tutto il
mondo allora conosciuto[383].
[383] _Gian. Stor. Civ. l. XX, c. 5, t. III, p. 55. seguendo il
Costanzo Storia di Napoli l. II._
Nel 1279 passò prima in Sicilia per conoscere personalmente lo stato de'
sudditi di Carlo. Trovò che non doveva sperar molto dalle province di
terra ferma al di qua del Faro[384], perchè sopra le rovine de'
partigiani della casa Sveva molti baroni francesi eransi stabiliti così
sodamente quanto potevano esserlo i loro predecessori. Comprese che la
vicinanza della corte, i frequenti passaggi delle armate, l'occhio
vigilante del padrone che scorreva frequentemente queste province, vi
comprimerebbero la ribellione nel suo nascere.
[384] _Gio. Villani l. VII, c. 56, p. 273. — Ricordano Malaspini c.
206, p. 1024._
Diverso affatto era lo stato della Sicilia, la quale siccome si era
tutta intera dichiarata a favore di Corradino, così i Francesi avevano
voluto punire tutta intera. I baroni erano stati spogliati ed oppressi,
ma i Francesi non aveano potuto nè tutti imprigionarli, nè tutti
scacciarli dall'isola; ed agli antichi oltraggi se ne aggiungevano ogni
giorno di nuovi, che per altro non li privavano affatto dei mezzi di
vendicarsi. I Francesi abitavano le città e le coste, ma appena osavano
di penetrare alcuna volta tra le montagne dell'interno dell'isola, ove
tanto i signori che i contadini avevano conservata tutta la loro
indipendenza. Tre grandi ufficiali di Carlo governavano l'isola.
Eriberto d'Orleans, vicario reale; Giovanni di san Remi, giustiziere di
Palermo; e Tomaso de Busant, giustiziere di Val di Noto[385]. La venale
loro parzialità, l'avarizia, la crudeltà li facevano degni successori di
Guglielmo detto lo Stendardo, il carnefice de' Siciliani[386]. Anche la
pubblicazione della crociata contro i Greci irritava maggiormente questi
popoli. «Di già, dice Neocastro, avea Carlo spiegate contro i nostri
amici della Grecia la croce dell'assassinio, imperciocchè suole appunto
sotto questa sacra bandiera spargere il sangue degl'innocenti. I suoi
sforzi per istrascinare il popolo siciliano in questa guerra formavano
la disgrazia e la desolazione della nostra patria»[387]. Col pretesto di
questa crociata, Carlo esigeva da' suoi sudditi insopportabili
sovvenzioni di guerra, imposte inaudite. Nello stesso tempo «disponeva
arbitrariamente delle ricche o nobili eredi, che dava ai suoi partigiani
in matrimonio come compenso dei loro servigi; mentre condannava alla
morte, senza che pur fossero accusati d'alcun delitto, o faceva languire
entro infernali prigioni, o condannava alla deportazione ed a lungo
esilio gli uomini che gli erano sospetti. Molti signori, che la
religione, l'età, o la dignità loro facevano venerabili, venivano
assoggettati ad insultanti trattamenti come i più vili del popolo; e per
colmo d'oltraggio, oltraggio che in ogni luogo precipitò i tiranni, le
donne erano esposte alla brutalità dei soldati»[388]. Infatti tale
offesa sorpassa tutte le altre: non è la galanteria, che potrebbe
eccitare il furore della nazione la più gelosa, bensì l'insolenza del
forte esercitata contro il debole; l'impudenza della dissolutezza, che
disprezza la protezione che gli sposi ed i fratelli debbono alle loro
spose o sorelle.
[385] _Barthol. de Neocastro Hist. Sic. c. 14, t. XIII, p. 1027._
[386] Vedasi il fine del capit. 21, ed il massacro d'Augusta.
[387] _Barth. de Neocastro, c. 12, p. 1026._
[388] _Nicolai Specialis Rer. Sicul. l. I, c. 2, t. X, p. 924._
Giovanni di Procida parlò di vendetta ai Siciliani profondamente
ulcerati; fece loro comprendere che si avvicinava il tempo
d'esercitarla; ma in pari tempo gli esortò a prepararla lentamente per
renderla più sicura, e loro promise i soccorsi di Pietro d'Arragona loro
legittimo sovrano, e di Michele Paleologo nemico de' loro nemici.
Andò infatti a Costantinopoli, ed informò il Greco imperatore de'
formidabili apparecchi che si preparavano contro di lui[389]. Carlo
faceva equipaggiare ne' porti delle due Sicilie cento galee leggeri,
venti grossi vascelli, trecento navi da trasporto e duecento palandre
per trasportare i cavalli. Quaranta conti avevano promesso d'unirsi alla
crociata, e dieci mila cavalli si allestivano sotto i suoi ordini. Nello
stesso tempo negoziava col doge Giovanni Dandolo, segnava un trattato,
in forza del quale la repubblica di Venezia obbligavasi a prendere parte
alla crociata, mandando lo stesso doge con quaranta galere armate in
guerra[390]. Queste forze sembravano sufficienti per distruggere
l'impero greco, e Paleologo aveva più volte esperimentato l'impetuoso
valore dei Latini, e la viltà delle sue truppe. Procida facendogli
conoscere il pericolo che gli sovrastava, gli offrì nello stesso tempo
di eccitare negli stati del suo nemico una ribellione che non gli
permettesse di pensare per molto tempo a guerre straniere. Gli offriva
inoltre di mettere Carlo in guerra con una nazione non meno valorosa
della Francese, una nazione la di cui formidabile infanteria non
lascerebbesi spaventare o rovesciare dall'urto degli uomini d'armi. La
sola cosa ch'egli chiedeva a Paleologo era del denaro per supplire alle
spese della spedizione degli Arragonesi, e per comperare armi ai
Siciliani ribellati.
[389] _Gio. Villani l. VII, c. 56, p. 273. — Ricord. Malaspini c.
206, p. 1024. — Ann. Genuens. l. X, p. 575._
[390] Questo trattato fu sottoscritto il giorno 3 luglio del 1281.
Fu pubblicato nella raccolta de' diplomi in appendice alla storia
del Ducange. _Ed. Ven. p. 15._
(1280) Nicolò III governava ancora la Chiesa, e Paleologo che con tanti
sagrificj erasi riconciliato colla santa sede, non voleva perdere la sua
protezione. Accordò un primo soccorso di danaro a Procida, esigendo che
non si facesse la ribellione di Sicilia senza l'assenso del papa[391].
Giovanni, che viaggiava sotto mentito abito di monaco francescano, tornò
a Malta con un segretario dell'imperatore greco. Colà si recarono tre
de' più principali baroni siciliani, e confermarono al segretario
dell'imperatore le promesse di Procida, incaricandolo di far conoscere
al papa ed al re d'Arragona la qualità del giogo ch'essi portavano e
l'impazienza loro di liberarsene.
[391] Gli storici greci non fanno parola di questa spedizione. Il
Ducange peraltro cita Niceforo Gregora _l. V, c. 12_, ma per uno
strano abbaglio perchè il V libro non ha che sette capitoli. —
_Ducange Hist. de Costant. l. VI, c. 12, p. 97._
Procida passò a Roma coll'inviato dell'imperatore, ed ottennero da
Nicolò III una segreta udienza nel castello di Suriano. Colà si pretende
che Procida si valesse dell'oro de' Greci presso il conte Bertoldo
Orsino e presso lo stesso papa[392]; ma soprattutto ricordò all'ultimo,
che Carlo aveva sdegnato d'imparentarsi colla sua famiglia, ed aveva
rifiutata l'offerta con un insultante motto[393]; che lo stesso Carlo
erasi costantemente opposto a' suoi progetti; che sforzavasi di
riaccendere le guerre civili, che il papa cercava di spegnere; per
ultimo, ch'egli erasi eretto in arbitro dell'Italia, e teneva quasi la
Chiesa in servitù. Per abbassare la potenza de' Francesi altro Procida
non domandava al papa che il suo assenso in iscritto a favore di
Costanza d'Arragona per far valere i suoi diritti sulla Sicilia[394].
L'ottenne, e munito di lettere pontificie dirette al re di Arragona, si
pose in viaggio per la Spagna.
[392] Dante pose papa Nicolò nell'inferno perchè colpevole di
quest'atto simoniaco, _c. XIX, v. 98_. Pare peraltro che niun
commentatore abbia avvertito che il poeta gli rimproverasse questa
transazione.
[393] _Gio. Villani l. VII, c. 53, p. 270._
[394] _F. Francisci Pipini Chron. l. III, c. 12, t. IX, p. 687._
Ma non era appena giunto alla corte di Barcellona, che l'inaspettata
morte di Nicolò III poco mancò che non rovesciasse tutti i suoi
progetti. Pietro d'Arragona pareva già scoraggiato; ed era a temersi che
i Siciliani si disanimassero vedendo il capo della Chiesa dichiararsi
contro di loro, invece d'appoggiarli. Procida risolse di tornare a
Costantinopoli onde affrettare i sussidj attesi dal re Pietro; e volle
che gli ambasciatori di questo re indagassero le disposizioni del nuovo
pontefice, e che i Siciliani dal canto loro implorassero la sua
protezione, sperando che non solo non gli ajuterebbe, ma gli avrebbe al
contrario esacerbati con una manifesta parzialità pei Francesi.
(1281) L'ambasciatore del re d'Arragona aveva per missione ostensibile,
presso Martino IV, di felicitarlo intorno alla sua elezione e di
domandargli la canonizzazione di frate Raimondo di Pinnaforte, monaco
catalano, ch'era morto nel principio del 1275, dopo avere, si diceva,
risuscitati almeno quaranta morti, ed attraversato il mar Baleare sopra
il suo mantello che gli teneva luogo di nave[395]. Le raccomandazioni
dell'Arragonese non furono vantaggiose alla causa del beato; furono anzi
cagione che la sua canonizzazione si protraesse fino all'anno 1601.
Quando poi l'ambasciatore arragonese volle ricordare al papa i diritti
di Costanza alla corona delle due Sicilie, Martino gli rispose adirato:
«Dite al vostro padrone che, prima di chiedere grazie alla santa sede,
pensi a pagarle con tutti gli arretrati l'annuo tributo, che suo avo
promise alla Chiesa allorchè se ne dichiarò vassallo e feudatario[396].»
[395] _Indices rerum ab Aragon. Regibus gestarum Hisp. ill. t. III,
p. 116_: quest'opera è un compendio dello Zurita, della quale io non
ho più per le mani il testo spagnuolo. — _Raynald. ad an. 1275, §
13, p. 237, ex Leandro et Zurita._
[396] _Giannone l. XX, c. 5, t. III, p. 60, ex Costanzo l. II. —
Mariana Hist. de las Españas l. XIV, c. 6. — Hisp. illust. t. II, p.
621._
Gli ambasciatori de' Siciliani furono ancora più mal ricevuti: era stato
scelto per questa missione Bartolomeo, vescovo di Pacto, ed un religioso
domenicano. Martino non volle ascoltarli che in pieno concistoro; e
quando furono ammessi, osservarono con maraviglia, che sedeva tra i loro
uditori anche il re Carlo. Pure il prelato, senza punto sbigottirsi,
prese per testo le seguenti parole della Scrittura: «Figlio di Davide,
abbi pietà di me, perchè la mia figliuola è crudelmente tormentata da un
demonio.» Espose in seguito la tirannia e le soverchierie dei ministri
di Carlo, e voltosi al re con nobile sicurezza, lo richiese di porvi
rimedio. Quand'ebbe terminato il discorso, fu congedato senza risposta;
ma sortendo dall'udienza le guardie di Carlo presero i due ambasciatori
e li chiusero in carcere[397]. Vero è che il prelato potè a forza di
danaro corrompere i custodi e fuggire; ma l'altro penò più anni in una
crudele prigione. Il vescovo, tornato in Sicilia, manifestò francamente
a Messina l'esito della sua legazione. Altri Siciliani, arrivati da
Napoli, soggiunsero, che Carlo preparavasi a spedire nell'isola l'armata
assoldata contro i Greci, disposto a punire le sediziose disposizioni
de' Siciliani col ferro e col fuoco.
[397] _Nicolai Specialis rerum Sicul. l. I, c. 3, p. 924, t. X._
Frattanto Giovanni di Procida aveva nel 1281 fatto un secondo viaggio a
Costantinopoli, e ne aveva riportate venticinque mila once d'oro, che
diede al re Pietro, colla promessa di più ragguardevole sussidio, che
gli verrebbe pagato tosto che la sua armata sarebbesi posta in
movimento[398]. Pietro non frappose ulteriori dimore, e, dando voce
d'andare ad attaccare i Saraceni dell'Affrica, adunò un'armata di dieci
mila uomini a piedi, con soli trecento cinquanta cavalli, e fece
equipaggiare pel trasporto diecinove galere, quattro grandi vascelli ed
otto palandre[399].
[398] _Gio. Villani l. VII, c. 59. p. 276._
[399] _Annales Genuens. Caffari Contin. l. X, p. 576._
Tutti i trattati di Giovanni di Procida erano rimasti affatto ignoti; ma
perchè si conoscevano le pretese sulla Sicilia della regina Costanza, il
re di Francia e quello di Napoli concepirono qualche sospetto intorno
all'armamento del monarca arragonese. Filippo l'ardito, ch'era suo
cognato, gli fece domandare ove volesse portare le sue armi; ed egli
rispose che voleva attaccare i nemici della fede siccome avevano
praticato i suoi antenati, e che pregava Filippo di voler concorrere a
così santa impresa, mandandogli 40,000 lire tornesi di cui aveva
grandissimo bisogno. Filippo lo fece; ma non avendo deposto ogni
sospetto, consigliava il papa e Carlo a chiedere a Pietro nuovi
schiarimenti. Martino mandò all'Arragonese un Domenicano per
interrogarlo a nome della Chiesa intorno al segreto della sua
spedizione, promettendo i soccorsi della santa sede, se effettivamente
armava contro i nemici della fede; e vietandogli di procedere più oltre
se pensava di attaccare un principe cristiano. Pietro si accontentò di
rispondergli che se una delle sue mani manifestasse all'altra il suo
segreto, la troncarebbe all'istante[400]. Allorchè Martino comunicò tale
risposta a Carlo: «Io ve lo aveva ben detto, soggiunse il re di Sicilia,
che l'Arragonese era un miserabile;» non pertanto egli non prese veruna
precauzione. Gli apparecchi di Pietro si prolungarono fino al
cominciamento del 1282 che egli spiegò le vele alla volta dell'Affrica.
A quest'epoca era già scoppiata la congiura in Sicilia, ma Pietro non
poteva saperlo, e stette aspettando l'andamento delle cose nelle
vicinanze d'Ippona, facendo freddamente la guerra ai Mori.
[400] _Gio. Villani l. VII, c. 59. p. 277._
Giovanni di Procida non aveva aspettato che la flotta arragonese fosse
apparecchiata per passare in Sicilia e scorrere quell'isola sotto
diversi travestimenti. Col danaro de' Greci somministrava armi a
chiunque non ne aveva; alimentava, riscaldava il loro spirito colla
speranza di una pronta liberazione, e soprattutto comunicava ai suoi
compatriotti quel profondo implacabile odio contro i Francesi, ch'era la
molla di tutte le sue azioni. Egli non formava congiure, ma eccitava le
passioni del popolo onde fosse apparecchiato ad ogni avvenimento ed al
risentimento dei primi oltraggi, troppo sicuro che non mancherebbe poi
qualche eccitamento al comune odio. Chiedeva soprattutto ai nobili ed ai
militari che avevano lungo tempo soggiornato nell'interno dell'isola, di
passare a Palermo e di frammischiarsi ancora ai loro concittadini,
ond'essere a portata di dirigere i movimenti popolari tosto che
scoppierebbero[401].
[401] _Gio. Villani l. VII, c. 60. p. 277._ — _ Jacchetto Malespini
contin. Ricordani, c. 209. p. 1029._
All'indomani della Pasqua, lunedì 30 marzo 1282, i Palermitani, com'era
loro costume, si posero in via per andare ai vesperi alla chiesa di
Monreale, tre miglia lontana dalla città. Era il passeggio ordinario de'
giorni di festa, e tutto il cammino trovavasi coperto di uomini e di
donne. I Francesi stabiliti in Palermo, e lo stesso vicario reale
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