Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 06

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allora imprigionare i quattro signori di Vado, che furono custoditi
nella fortezza di Cornuda, di cui dopo pochi anni fece murare le porte.
Per interi giorni udironsi questi sciagurati che con lamentevoli grida
domandavano pane; e quando furono, dopo morti, aperte le prigioni, si
trovò che le loro ossa erano coperte soltanto da una pelle nera e
diseccata.
Nondimeno Guglielmo da Campo san Piero, dopo essersi conservato
indipendente sei anni, atterrito dai progressi grandissimi che faceva
Ezelino, tentò di riconciliarsi seco lui; gli consegnò le sue fortezze,
e venne a mettersi tra le sue mani dichiarando di volergli essere amico,
siccome nipote. Ma si racconta che, la notte medesima in cui trovavasi
in potere del tiranno, credette di vedere in sogno le ombre de' suoi
zii, i signori di Vado, che chiedendo pane, gli ricordavano la dolorosa
loro morte ch'egli aveva troppo incautamente dimenticata, e gli fecero
sentire, ma troppo tardi, a qual crudele signore si fosse fidato. Non
tardò a farne un crudele esperimento. Del 1249 Ezelino gli ordinò di
ripudiare la consorte, siccome quella che apparteneva ad una famiglia da
lui proscritta; al che rifiutandosi Guglielmo, fu imprigionato, e dopo
un anno condannato a morte, confiscati tutti i suoi averi, e posti in
ferri i suoi parenti senza distinzione di sesso o di età[91].
[91] _Roland. de factis in March. Tarvis. l. II, c. 9, p. 188; l. V,
c. 2, p. 234, c. 16, p. 245; l. VI, c. 12, ec. p. 262._
Due delle vittime d'Ezelino illustrarono gli estremi istanti della loro
esistenza con generosi atti di coraggio. Raineri di Bonello tradotto
avanti al tribunale d'Ezelino fu in presenza di tutto il popolo accusato
da questi d'aver tentato di dar Padova in mano del marchese d'Este.
Raineri rispose denunciando al popolo come apertamente calunniosa ed
infame tale accusa, e dichiarando che il vero motivo del supplicio
imminente era d'aver dichiarato il suo rammarico per avere i Padovani
affidata al tiranno l'autorità sovrana, di che ne facevano così amara
penitenza. Ezelino lo condannò ad essere decapitato sulla pubblica
piazza[92]. Giovanni di Scanarola fu condotto innanzi al podestà di
Verona Enrico d'Ygna, uomo venduto ad Ezelino, e suo degno satellite.
Sebbene il prigioniere si trovasse carico di catene in mezzo alle
guardie, s'avventò improvvisamente sopra il suo giudice, e,
rovesciandolo giù dal tribunale, gli fece tre mortali ferite nel capo
con un coltello che aveva avuto modo di portar nascosto sotto le vesti,
prima che le guardie avessero tempo di tagliar a pezzi lo Scanarola
colle loro alabarde. Da questo fatto ebbe principio, o si rese più
celebre il proverbio italiano: _Quello che vuol morire è padrone della
vita del tiranno_[93].
[92] _Ib. l. V, c. 9, p. 239._
[93] _Roland. l. V, c. 20, p. 248. — Monachus. Patav. in Chron. p.
682._
La maggior parte de' giustiziati, coperti d'una veste nera, perdevano la
testa sulla pubblica piazza. I loro beni erano confiscati, atterrate le
loro case, dichiarati sospetti ed imprigionati i loro parenti ed amici
d'ambo i sessi. Ma non tutte le vittime perivano di morte così dolce:
accusate indifferentemente d'aver cospirato contro il tiranno, non si
allegavano altre testimonianze del loro delitto, che le confessioni
strappate loro di bocca coi tormenti: e molti gentiluomini che
rifiutavansi di confessare i supposti delitti, si fecero perire in mezzo
agli orrori d'una tortura spinta al di là di quanto può soffrire l'umana
natura[94].
[94] _Roland. l. V, c. 9, p. 239._
Tante erano le persone sospette condensate nelle carceri da Ezelino,
ch'egli ordinò di far nuove carceri presso alla chiesa di san Tomaso di
Padova. Uno di que' vili cortigiani che i tiranni sanno trovare in ogni
paese e valersene nell'esecuzione de' loro disegni, chiese, come una
grazia, la direzione della fabbrica delle prigioni, affinchè riuscissero
veramente infernali. «Ma si rallegrino, soggiugne Rolandino, le anime di
quegli sventurati che perirono nel castello (così chiamaronsi quelle
prigioni), poichè colui che tante volte era volontariamente entrato in
quelle segrete, per assicurarsi che un solo raggio di luce non vi
penetrerebbe, colui che aveva posto ogni suo studio nel renderle
tenebrose, insalubri e somiglianti al Tartaro, vi fu egli stesso chiuso
per ordine di Ezelino, e perì miseramente nell'inferno da lui formato,
in preda alla fame, alla sete, agl'insetti immondi, in vano bramando il
ristoro di quell'aere che con tanta cura aveva cercato di escludere da
quel luogo»[95].
[95] _Roland. l. V, c. 10, p. 240._
Doveva credersi che poco considerabile fosse il numero di quegli uomini
vili e feroci di cui abbisogna un tiranno per dare esecuzione alle sue
crudeltà; ma tutt'all'opposto accadde sotto il governo d'Ezelino. Ogni
podestà ch'egli mandava alle città soggette, tutti i governatori de'
castelli, i carcerieri, sembravano quanto Ezelino insensibili e crudeli.
Egli aveva, dopo abbandonato l'assedio di Parma, fissata la sua
residenza in Verona, ed aveva affidato il governo di Padova ad uno de'
suoi nipoti, Ansidisio Guidotti, forse più crudele del suo signore. Un
apologo incautamente raccontato nel pubblico palazzo, ed applicato ad
Ezelino[96], fu un delitto espiato colla morte non solo del suo primo
autore, ma di tutti coloro che si suppose averlo applaudito. Eran essi
dodici, e le loro consorti, i fratelli, i figli, quantunque fanciulli,
furono tutti imprigionati.
[96]
_Accipitrem, milvi pulsurum bella, Columbæ_
_Accipiunt Regem; Rex magis hoste nocet._
_Incipiunt de rege queri, quia sanius esset_
_Milvi bella pati, quam sine marte mori._
Di que' tempi all'incirca tra coloro che perirono sul palco furono assai
compianti que' della famiglia Delesmanini, una delle più ricche e
potenti della fazione ghibellina. Una signora di quella casa aveva di
fresco sposato in seconde nozze un gentiluomo affezionato al conte di
san Bonifacio, e perciò nemico d'Ezelino. Queste nozze fattesi in
Cremona probabilmente senza saputa dei Delesmanini, provocarono in modo
la collera del tiranno, che fece imprigionare tutte le persone di quella
famiglia, ordinando al suo podestà Guidotti di farle perire. Sebbene un
suo fratello avesse sposata una sorella di quegli sciagurati
gentiluomini, senza avere alcun riguardo ai legami del sangue e
dell'amicizia, fu rigoroso esecutore della crudel vendetta del suo
padrone. Volle per altro far esperimento del popolo, temendo che si
ammutinasse; e mandò al supplicio un solo Delesmanino, il più giovane ed
il meno stimato; ma vedendo che i loro vassalli ed amici non facevano
verun movimento, fece strascinare tutti gli altri sulla piazza, ove
furono decapitati. «Universale fu la sorpresa, dice Rolandino, per la
morte dei Delesmanini, perchè la casa da Romano non aveva avuto in tutta
la Marca amici più prossimi, più fedeli, o più zelanti. Tale amicizia
parve che si conservasse tra i contemporanei di questa generazione,
com'erasi mantenuta inviolata tra i loro padri: ma nulla dobbiamo tanto
temere, niuna cosa è foriera di tante calamità, quanto un amico perfido
e sleale, che acquista troppa grandezza e potenza.»[97]
[97] _Roland. l. VI, c. 2, p. 254; e c. 9, p. 261._
Intanto Federico, dopo aver soggiogati i Guelfi di Fiorenza, e rassodata
la sua autorità in tutta la Toscana, dava voce di voler abbandonare
l'Italia settentrionale a sè medesima, onde raddolcire alquanto la
collera del papa, e farsi strada, se era possibile, a qualche
riconciliamento. San Luigi, re di Francia, aveva svernato del 1248-1249
nell'isola di Cipro col potente esercito de' crociati che conduceva in
Egitto. E perchè in primavera incominciava a mancare di vettovaglie,
Federico accordò ai Veneziani, coi quali era in guerra, salvacondotti,
onde potessero recar soccorsi all'armata francese, e spediva egli stesso
a san Luigi un convoglio di vettovaglie, manifestandogli in una lettera
l'ardente suo desiderio di raggiugnere la crociata, ed il rincrescimento
di esserne impedito dalla guerra che gli faceva il papa[98]. Dall'isola
di Cipro san Luigi scrisse di nuovo ad Innocenzo IV per determinarlo a
far la pace col benefattore della cristianità, col principe che aveva di
fresco salvata l'armata de' crociati da una spaventevole carestia[99].
Bianca, regina di Francia, non s'interessava meno vivamente per lo
stesso oggetto; ma Innocenzo fu inflessibile; e la totale disfatta di
san Luigi presso Damietta, la sua prigionia e la morte di Federico,
liberarono il papa da ulteriori istanze.
[98] _Petri de Vineis l. III, epist. 22, 23, 24, p. 431 e seguenti._
[99] _Math. Paris. Hist. Angl. ad ann. 1249, p. 663._
Trovandosi nella Puglia già da un anno, senza aver fatto cose, per
quanto si sappia, di molta importanza, Federico fu sorpreso a
Florentino, borgata di Capitanata, da una dissenteria che lo condusse al
sepolcro il 13 dicembre del 1250, nel cinquantesimo sesto anno dell'età
sua, essendo stato trentun anni imperatore, trentotto re de' Romani,
cinquantadue re delle due Sicilie.
Nel corso di questa Storia abbiamo dovuto formarci un'idea del carattere
di questo principe; ma siccome verun sovrano fu attaccato con maggiore
accanimento, nè difeso così caldamente, riesce quasi impossibile lo
spogliare le sue azioni dalle imputazioni della calunnia, o dal favore
de' suoi zelanti partigiani. Non saprei meglio chiudere ciò che ho fin
qui detto intorno a questo principe, che trascrivendo ciò che ne dissero
due storici della susseguente generazione, uno de' quali Giovanni
Villani, fiorentino, fu uno zelante Guelfo, l'altro Nicolò di Jamsilla,
napoletano, uno de' più caldi Ghibellini.
«Federico, dice Villani, fu un uomo di gran valore e di grande affare,
savio di scrittura e di senno naturale, universale in tutte le cose,
seppe la lingua latina, e la nostra volgare, e tedesco, francesco, greco
e saracinesco: e di tutte virtù copioso, largo e cortese in donare, e
savio in arme; e fu molto temuto. Fu dissoluto in lussuria in più guise,
e tenea molte concubine e mameluchi a guisa de' Saraceni, ed in tutti i
delitti corporali si volle abbandonare, e quasi vita epicurea tenne, non
facendo conto che mai altra vita fosse; e questa fu principale cagione,
perchè egli venne nemico di santa Chiesa e dei chierici ec.»[100].
[100] _Giovanni Villani Istor. l. VI, c. 1, p. 155._
«Federico, scrive Giacomo di Jamsilla, fu uomo di gran cuore, ma la
somma sua sapienza ne temperava la magnanimità; di modo che le sue
azioni non procedevano giammai da impetuosa passione, ma da maturità di
giudizio.... Amò la filosofia, di cui fu studioso, e la propagò ne' suoi
stati. Prima ch'egli regnasse, sarebbesi a stento trovato nelle Sicilie
un letterato; ma egli aprì, nel suo regno, scuole per le scienze e per
le arti liberali, chiamando con isplendidi premj da tutte le parti del
mondo i più rinomati professori. Nè a questi soli accordava liberali
assegnamenti, ma prendeva dal proprio tesoro di che pagare il
mantenimento de' poveri scolari, affinchè niun uomo, di qualunque
condizione si fosse, venisse da povertà costretto a lasciare lo studio
della filosofia. Diede egli medesimo non dubbie prove de' suoi studj
letterarj rivolti principalmente alla storia naturale, avendo scritto un
libro della natura e della cura degli uccelli. Amò la giustizia e la
rispettò talmente, che tutti i suoi sudditi potevano liberamente piatire
contro di lui, senza che il suo rango gli dasse alcun vantaggio presso
ai tribunali, o che qualunque avvocato facesse difficoltà di patrocinare
contro l'imperatore i suoi sudditi. Ma malgrado tanto amore per la
giustizia, non lasciava di temperarne talvolta il rigore colla
clemenza»[101][102].
[101] _Nicolai de Jamsilla, Historia Conradi et Manfredi, in
proemio, t. VIII, p. 495._
[102] È cosa veramente singolare che questo così illustre Italiano,
ed il suo intimo confidente Pietro delle Vigne non abbiano avuto
luogo tra i sessanta uomini più illustri della nostra Italia; anzi
non siasi pur sospettato da chi ne fece la scelta, che potessero
aspirare a tanto onore; tale è la forza che anche in questa nostra
filosofica età conservano le opinioni di parte, che diressero la
penna degli storici nemici degl'imperiali. Ma se si vorrà
sottilmente esaminare ciò che a favore delle scienze e delle lettere
operarono Federico II, e Pietro delle Vigne, si troverà che l'Italia
e l'Europa va loro debitrice del rinnovamento degli studj e di
quello spirito filosofico, che a fronte degli sforzi fatti per
comprimerlo, incominciò, dopo tale epoca, a fermentare tra
gl'Italiani. _N. d. T._


CAPITOLO XVIII.
_Innocenzo IV torna in Italia. — Sue guerre con Corrado e
Manfredi. — Sua morte. — Roma sotto il suo pontificato; il
senatore Brancaleone. — La Toscana: il governo popolare si
stabilisce in Fiorenza._
1251=1255.

Colla morte di Federico II ebbe fine in Italia l'autorità
degl'imperatori, la quale, sebbene ne fossero controversi i limiti, era
però confessata da tutte le repubbliche[103]. Di ciò ne furono
principale cagione i principi di Germania che protrassero ventitre anni
l'elezione del nuovo re de' Romani, e la debolezza di Rodolfo
d'Absburgo, eletto re di Germania dopo la morte di Federico II, e de'
suoi immediati successori Adolfo ed Alberto, i quali non avendo potuto
scendere in Italia a ricevere in Roma la corona dell'Impero, non ebbero
il titolo d'imperatori. Dopo sessant'anni Enrico VI, di Lussemburgo,
entrò in Italia per farvi rivivere i diritti dell'Impero; ma dopo la
subita morte di questo monarca un secondo interregno lasciò i popoli
italiani in piena libertà di rassodare la loro indipendenza e di rompere
tutti i legami che gli univano alla Germania.
[103] La sola repubblica di Venezia, siccome quella che esisteva
avanti che si rinnovasse l'Impero occidentale, non si volle mai
riconoscere dipendente agl'imperatori francesi o tedeschi. _N. d.
T._
La storia degl'imperatori formò dunque fino alla morte di Federico II
una importantissima parte di quella delle repubbliche italiane; onde non
lasciai di tener dietro alla maniera con cui poc'a poco s'andarono
staccando dall'Impero; come crebbero i loro privilegi a danno di quelli
degl'imperatori, de' quali per altro riconobbero sempre l'alto dominio;
come dopo averne eccitata la gelosia loro, seppero resistere alle loro
forze; e per ultimo come facessero causa comune coi papi per balzare dal
trono in nome della religione la più illustre e potente famiglia della
Germania. Riandando questi avvenimenti, abbiamo pure veduto come nel
seno medesimo delle città non pochi cittadini, sdegnati della lega che
vedevano formarsi contro il capo dell'Impero, presero le armi in difesa
de' suoi diritti; e come tutte le repubbliche trovaronsi lacerate da
intestine fazioni, e molte cadute sotto il giogo della tirannia avanti
che conseguir potessero lo scopo che si erano proposto.
Dopo la presente epoca le cose della Germania saranno alquanto più
separate da quelle dell'Italia; e poco dovremo occuparci dell'elezione
degl'imperatori e del governo della Germania: ma non perciò la storia
de' popoli liberi d'Italia potrà scompagnarsi da quella de' loro vicini
e de' loro nemici. Gl'interessi delle nazioni cominciarono ben tosto ad
essere in contrasto in questo paese, ed a contrappesarsi
vicendevolmente, onde siccome non si può scrivere la recente storia d'un
popolo senza abbracciare quella di tutta l'Europa, così la storia delle
repubbliche italiane de' secoli di mezzo comprende quella di quasi tutto
il mezzogiorno. Nelle rivoluzioni del regno di Napoli che decisero dei
destini di quasi tutte le città libere, vedremo i Francesi e gli
Arragonesi in guerra coi Tedeschi e cogli Arabi; ed in un tempo o
nell'altro vedremo presentarsi sulla scena che ci siamo proposti di
rappresentare, quasi tutte le nazioni.
La morte di Federico II equivaleva per il papa ad una grande vittoria,
perchè sembrava che dovesse portare uno straordinario cambiamento allo
stato d'Italia. Ne sentì tutta l'importanza Innocenzo IV, il quale
scriveva in tal modo al clero del regno di Sicilia: «Esultino i cieli,
la terra si riempia d'allegrezza, essendosi, per la morte di costui,
cambiati in freschi zefiri ed in feconde rugiade il fulmine e la
burrasca che Dio teneva sospese sulle vostre teste»[104]. Non tardò
l'accorto pontefice a formare il vasto progetto dell'unione di tutto il
bel regno di Napoli al patrimonio di san Pietro; al quale oggetto
invitava con sue lettere il clero, i nobili, i borghesi del regno, a
prendere le armi contro il loro re, e poco dopo così scriveva alla città
di Napoli. «Coll'assenso de' nostri fratelli i cardinali, abbiamo prese
sotto la protezione della santa sede le vostre persone, i vostri beni e
tutta la città, ordinando che perpetuamente rimanga sotto l'immediata
sua dipendenza, obbligandoci a questo, che la Chiesa non accorderà
giammai la sovranità, o qualsiasi diritto sopra la medesima a veruno
imperatore, re, duca, principe o conte, o ad altra persona»[105].
[104] _Innoc. IV, Epist. l. VIII, ep. I, Ap. Raynald. ad ann. 1251,
§ 3, p. 604._
[105] _Inn. Epist. l. VIII, ep. 148, ib. § 41, p. 612._
Per approfittare di così favorevoli circostanze ed essere più vicino
alle conquiste che meditava di fare, Innocenzo partì da Lione in sul
cominciare di primavera alla volta d'Italia. Venne ricevuto in Genova
dai suoi concittadini con istraordinario giubilo, accresciuto dalla
presenza dei deputati di quasi tutte le città lombarde, colà recatisi
per incontrarlo, ed ottenere che volesse onorare della sua presenza
quelle città: inchiesta avidamente accolta dal pontefice, siccome quella
che maravigliosamente giovava ai suoi progetti[106]. Il partito
ghibellino, scoraggiato dalla morte di Federico e dall'abbandono di
molte città amiche, signoreggiate dai Guelfi, chiedeva pace; e se tal
pace facevasi sotto gli occhi e colla mediazione del pontefice, veniva a
rendersi più certo il trionfo della santa sede. Le città di Savona e di
Albenga ed il marchese del Carreto, che, finchè visse l'imperatore,
ebbero guerra con Genova, avevano già mandati ambasciatori a questa
città, offrendole di governarsi sotto i suoi ordini e di unirsi alla
parte guelfa. Gli stessi Pisani, che in ogni tempo eransi mostrati
caldissimi partigiani della casa di Svevia, avevano spedito un frate
domenicano a Genova per trattare un accomodamento. Vero è che quando i
Genovesi chiesero al domenicano la cessione del castello di Lerici,
posto in riva al mare al confine dei due territorj, questi rispose loro:
«Vi cederemmo piuttosto Cinzica, uno de' quartieri della nostra città»;
ed ebbe così fine ogni trattato.
[106] _Caffari Contin. l. VI, Ann. Genuen. p. 518. — Caval. Flamm.
del Borgo l. V dell'Istoria pisana, § 5, p. 282._
Il viaggio d'Innocenzo in Lombardia fu un continuo trionfo: i Guelfi si
affollavano in sulla strada, e per assicurarlo dagl'insulti de'
Ghibellini avevano formato alcuni corpi di guardie d'onore, che tenevan
luogo di vere armate. Ma le città ghibelline, come Pavia e Lodi, sul di
cui territorio doveva passare il papa, scoraggiate dalla morte del loro
capo, non volevano certamente provocar davvantaggio la collera del
pontefice: che anzi, bramando di far dimenticare le antiche offese, si
dicevano disposte a riconciliarsi colla parte guelfa, e permettevano ai
loro esiliati di rientrare in patria[107]. In fatti la città di Lodi,
tribolata dalle armi dei Milanesi, entrò nella lega; e Pavia fece con
Milano un trattato di pace, ch'ebbe poi corta durata.
[107] _Nicolai de Curbio Vita Innoc. IV, t. III, p. I, § 30, p. 592.
1. — Galvan. Flammæ Manip. Flor. § 285, p. 683. — Corio Stor. di
Milano p. II, p. 109. verso._
Il papa aveva poste le armi in mano ai Lombardi contro l'imperatore; ma
se gli aveva spinti in una pericolosa guerra contro un grande monarca,
gli aveva così potentemente sussidiati colle armi spirituali, che
n'erano usciti vittoriosi. Federico aveva dovuto abbandonare l'assedio
di Brescia e di Parma; non aveva osato d'intraprendere quelli di altre
più potenti città, quali sono Milano, Genova e Bologna; ed un anno prima
di morire, erasi allontanato da un paese, per opprimere il quale
sentivasi troppo debole. Mossi da queste considerazioni i Milanesi
mostrarono al pontefice il più vivo attaccamento, recandosi, per così
dire, la città in corpo ad incontrarlo, onde duecento mila persone
fiancheggiavano tutta la strada a dieci miglia dalle mura. Inventarono
per onorarlo un nuovo ordigno, sotto il quale fece il suo solenne
ingresso in Milano: era questo coperto di un drappo di seta e portato
dai più ragguardevoli gentiluomini; ordigno adoperato poi nelle
cerimonie religiose, e detto _baldacchino_. I Milanesi intrattennero il
papa più di due mesi nella loro città, e gli accordarono l'autorità di
nominare in quell'anno il podestà, ricevendo essi, in compenso degli
onori grandissimi con cui lo colmarono, indulgenze e grazie spirituali.
Benchè gloriosa, lunga fu però la guerra che i Milanesi sostennero per
favorire Innocenzo, e cotal guerra aveva esaurite le pubbliche entrate;
onde nel precedente anno avevano dovuto ordinare, a favore del comune,
un ritardo di otto mesi a pagare i suoi debiti, ed accrescere le gabelle
onde poter soddisfare ai nuovi impegni. In pari tempo accordavano a
tutti i privati debitori quelle facilità medesime che si arrogava la
repubblica[108]; col quale apparente atto di giustizia si venivano ad
accrescere i disordini e le perdite causate alla società da questa
specie di fallimento. Nè bastando queste gravezze, finalmente i Milanesi
risolsero di chiamare un magistrato straniero, cui accordarono un
illimitato potere di stabilire, ove e come lo trovasse più opportuno,
dogane, gabelle, pedaggi. Sebbene quest'odiosa scienza non fosse in
allora così ben conosciuta come nella presente età, il nuovo magistrato
Beno de' Gozzadini di Bologna fece quanto seppe per accrescere colle
concussioni i profitti del comune. Ne' primi quattro anni il popolo si
sottomise, senza lagnarsi, alle arbitrarie gravezze di Gozzadino; e
nell'ultimo anno fu innalzato alla suprema carica di podestà onde
incontrasse minori ostacoli, e più sollecitamente pagasse il pubblico
debito. Ma le sue concussioni stancarono finalmente la pazienza del
popolo; il quale, ammutinatosi, mise a morte l'infelice podestà, siccome
autore d'insoffribili gravezze. Ed è cosa notabile che, morto il
Gozzadino, il popolo non essendo sollevato dalla maggior parte delle
gabelle che questi aveva inventate per sovvenire ai bisogni dello stato,
gli storici milanesi, prendendo parte alle prevenzioni del popolo, hanno
continuato a maledire la memoria di questo finanziere[109]. Il papa
erasi appena partito da Milano, che scordando tutto quanto aveva per lui
sofferto, e la splendida accoglienza fattagli, scrisse da Brescia a
quell'arcivescovo per eccitarlo a sostenere vigorosamente le libertà
ecclesiastiche contro il podestà ed i consigli, che alcuna volta non le
rigettavano. Lagnavasi in particolare che si obbligassero alcuni monaci,
detti _umiliati_, ad esercitare alcune pubbliche incumbenze alle porte
ed alle dogane, siccome coloro che con maggiore economia e fedeltà
riscuotevano le gabelle. Ordinava all'arcivescovo d'impiegare contro la
repubblica le censure ecclesiastiche, e tutto il rigore degli spirituali
castighi per rintuzzare gli abusi che si fossero introdotti nel governo.
Tanta ingratitudine del pontefice offese i Milanesi se non abbandonarono
affatto il partito guelfo, cessarono almeno di esserne i più caldi
partigiani: imperciocchè nominarono loro capitano generale il marchese
Lancia di Monferrato, zio di Manfredi, reggente di Sicilia e zelante
ghibellino; e gli affidarono dal 1253 al 1256 il governo degli affari
della guerra e della giustizia, a condizione che mantenesse al soldo
della repubblica mille cavalli forastieri. Il marchese Lancia non venne
però a stare in Milano, ma vi mandò ogni anno in qualità di suo
luogotenente un podestà da lui nominato.
[108] _Giorgio Giulini, Memorie della campagna di Milano, t. VIII,
l. LIII, p. 52._
[109] _Conte Giulini, Memorie l. LIV, p. 113. — Galvan. Fl. Manip.
Flor. § 288, p. 685. — Corio Istor. di Mil. p. 112 — Annal. Anon.
Mediol. t. XVI, c. 24 e 26, p. 657._
Sebbene avessero scelto per loro giudice e generale un Ghibellino, non
sembra che a tale epoca i Milanesi avessero affatto abbandonata la parte
guelfa; e la guerra che coll'ajuto del marchese Lancia fecero ai
cittadini di Pavia, dovrebb'essere una contraria prova. Non può dirsi lo
stesso degli abitanti di Piacenza, i quali avanti che morisse Federico,
a motivo dell'odio che nudrivano contro i Parmigiani, staccaronsi del
partito che questi avevano di fresco abbracciato, si collegarono con
Cremona, col marchese Pelavicino e con tutti i Ghibellini, e
ricominciarono la guerra che nel principio del secolo avevano intrapresa
contro Parma. Ad eccezione di questa sola guerra, le parti e le
alleanze, tutto aveva cambiato aspetto: pareva che ogni armata fosse
passata nel campo nemico per rinnovare la pugna.
Due passioni l'una dall'altra affatto indipendenti dividevano in due
opposte fazioni gli abitanti di tutte le città d'Italia. Da una banda la
gelosia e la reciproca diffidenza de' plebei e de' nobili teneva viva la
discordia in seno ad ogni repubblica; dall'altra i partigiani
dell'Impero e quelli della Chiesa dividevano l'Italia in due parti che
si facevano un'accanita guerra. Tra le fazioni politiche nate in seno di
ogni città, e le fazioni religiose che regnavano in tutto l'Impero, non
eravi veruna stabile alleanza: nè i papi eransi dichiarati protettori
della plebe, nè gl'imperatori della nobiltà. A Milano i gentiluomini
erano Ghibellini, Guelfi i popolari: a Piacenza era tutto il contrario.
La scelta di ogni famiglia tra queste due grandi fazioni non era figlia
di personali considerazioni e di viste d'interesse; ma era stata
determinata dalla propria inclinazione verso il capo della religione o
verso il capo dello stato: puri n'erano i motivi, sincero
l'attaccamento. Dal canto loro il papa e l'imperatore eransi procurati
partigiani in quelle città nelle quali più vicini interessi avevano già
accesa la discordia, prendendo a favoreggiare il partito più debole, a
lusingarne le passioni, tenendo in ogni luogo un diverso linguaggio
secondo credevan più conveniente a sedurre la classe degli uomini con
cui trattavano. Coloro che per interno sentimento erano Guelfi o
Ghibellini, non abbandonavano le proprie affezioni; coloro la di cui
alleanza era stata per interesse cercata dal papa o dall'imperatore,
potevano cangiare colla politica. Generalmente parlando, non potrebbesi
in verun modo spiegare la lunghissima durata in tutta l'Italia delle
fazioni guelfe o ghibelline, i prodigiosi sagrificj che tutti i più
virtuosi cittadini facevano allo spirito di partito, l'eguaglianza delle
forze e le frequenti alternative di vittorie e di sconfitte, volendole
originate da solo personale interesse. L'egoismo non suole ispirare
energia, e colui che non calcola che i suoi avvantaggi, li troverà
sempre nel riposo. Più nobili cagioni armavano i cittadini d'ambo i
partiti; due virtuosi sentimenti, lo spirito religioso e lo spirito di
giustizia, erano stati dalla discordia posti in guerra fra le due
podestà religiosa e politica.
Non può negarsi che i papi non usassero una troppo aperta ingiustizia
contro gl'imperatori, invadendo i loro più sacri diritti, eccitando il
tradimento in seno alle loro famiglie, calunniandone il nome, e
privandoli per fino colle inique sentenze della loro corona. Il rango,
la potenza, le virtù de' personaggi, oggetto di tanta ingiustizia, ne
rendevano le sventure più illustri, e queste lasciavano nell'anima de'
popoli una profonda indelebile traccia: imperciocchè sebbene siano degni
di commiserazione tutti gli sventurati, quella che sentiamo pei sovrani
veste un carattere ancora più nobile, innalzandoci in qualche modo al
grado di coloro che ci spinge a soccorrere: noi la chiamiamo col nome di
_lealtà_, ed andiamo superbi dell'entusiasmo onde ci investe.
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