Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 09

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milizie fiorentine, che vivamente inseguendoli entrarono nella mal
abbandonata città. Allora il vescovo alla testa de' suoi chierici che
portavano delle croci, e le donne coi capelli disciolti vennero a
gettarsi ai piedi dei vincitori chiedendo grazia. L'ottennero; non fu
sparsa una goccia di sangue, nè saccheggiata una sola casa; ma il
governo venne riformato in vantaggio del partito guelfo: sicchè fu
conservata la libertà, ma i capi della fazione ghibellina furono forzati
di allontanarsi dalla loro patria[156].
[156] _Gio. Villani l. VI, c. 58, p. 193. — Leonardo Aretino l. II._
Prima che terminasse l'anno, l'armata vittoriosa invase il territorio di
Pisa, spargendo in quella città tanto terrore, che que' cittadini
domandarono la pace, ed acconsentirono a svantaggiose condizioni, che
peraltro non furono lungo tempo osservate. Dopo una campagna così
gloriosa rientrò trionfante in settembre del 1254, accolta con trasporto
di gioja da tutti gli abitanti che le si fecero incontro fuori delle
porte.
La città d'Arezzo non aveva presa parte alle guerre della Toscana; i
Guelfi ed i Ghibellini essendovi egualmente potenti, avevano pure egual
parte nel governo; mantenendo la città internamente tranquilla, e sicura
al di fuori col favor de' trattati fatti coi loro vicini, ed in
particolare colla repubblica di Fiorenza. Accadde che del 1255 i
Fiorentini mandarono sotto la condotta del conte Guido Guerra,
gentiluomo guelfo indipendente, cinquecento cavalli agli abitanti
d'Orvieto per soccorrerli contro quelli di Viterbo. Per recarsi ad
Orvieto questa gente doveva attraversare il territorio di Arezzo: quando
passò vicino alla città, gli Aretini guelfi chiesero ajuto al conte
Guido per cacciare dalla città loro i Ghibellini, e, per prezzo
dell'ottenuto soccorso, gli diedero, contro la fede de' trattati, il
possesso della loro fortezza. Nello stesso modo press'a poco la fortezza
di Tebe era stata occupata da un generale spartano[157]; ma il senato di
Lacedemone condannò il generale e ritenne la fortezza: i Fiorentini
all'incontrario, presero tutte le armi e si portarono sotto Arezzo per
ristabilirvi i Ghibellini. Sebbene fossero questi nemici, erano in pace
con Firenze; e perchè il conte Guido mostrava di voler difendere la sua
conquista, ed i Guelfi, ch'eransi valsi dell'opera sua, non sapevano
risolversi a rimandarlo senza ricompensa; i Fiorentini accomodarono gli
abitanti d'Arezzo di dodici mila fiorini, che poi non furono loro più
restituiti[158], affinchè con questa somma potessero gratificare il
conte, rientrare in possesso della fortezza e ristabilire la pace entro
le loro mura[159].
[157] Febida fu quello che si pose in possesso della Cadmea
coll'ajuto della fazione aristocratica, e fu deposto e condannato a
dieci mila dramme di ammenda.
[158] _Gio. Villani l. VI, c. 62, p. 196. — Leonardo Aretino l. II._
[159] Poichè i Fiorentini ebbero persuaso il conte Guido a sortire
d'Arezzo, gli Aretini nominarono loro podestà Tegghiajo Aldobrandi
degli Adimari, uno de' più virtuosi cittadini di Firenze. È questi
uno degli eroi ricercati da Dante e trovato nell'Inferno, cant. 16,
v. 41, nel cerchio in cui si puniva un cotal vizio associato a tante
virtù. Tegghiajo, esposto ad una pioggia di fuoco, cammina senza mai
fermarsi sopra una arena ardente col conte Guido Guerra e Giacomo
Rusticucci; i quali, quantunque si fossero meritati la collera del
cielo, imprimevano ancora un profondo rispetto alla terra. Virgilio,
vedendoli avanzarsi, dice a Dante:
«.... a costor si vuole esser cortese;
E se non fosse il fuoco che saetta
La natura del luogo, i dicerei
Che meglio stesse a te che a lor la fretta.»
Diffatti quando Dante ode i loro nomi, sta irresoluto di cacciarsi
avanti tra le fiamme per abbracciarli e grida:
«Di vostra terra sono, e sempre mai
L'ovra di voi e gli onorati nomi
Con affezion ritrassi ed ascoltai.»
Nello stesso cerchio e per lo stesso genere di incontinenza era da
perpetue fiamme tormentato il maestro di Dante, Brunetto Latini, di
cui abbiamo già parlato. È cosa veramente sorprendente che un così
vergognoso vizio fosse così comune in una repubblica che sotto ogni
altro rapporto era tanto austera e virtuosa; come riesce curioso il
vedere in qual modo quegli uomini ad un tempo repubblicani e
religiosi risguardavano in quel secolo i giudizj del cielo. Quando
li vediamo tributare tanto rispetto a coloro che sono già vittime
dell'eterna vendetta, ci sembra di scorgervi quelle idee di
fatalismo sulle quali i Greci fondarono le loro tragedie. I delitti
di Tegghiajo e di Rusticucci, come quelli di Edipo e d'Oreste
sembravano l'effetto della collera degli Dei: ma sotto il peso di
questa collera gli uomini non lasciano di mostrarsi ancora grandi.
Abbiamo accennato che i Pisani non mantennero a lungo la pace che
avevano forzatamente segnata: ma rotti un'altra volta presso Ponte al
Serchio dall'armata combinata fiorentina e lucchese, furono costretti di
soggiacere alle condizioni che loro erano state prima accordate, e di
consegnare inoltre il forte di Motrone posto in riva al mare presso di
Pietra Santa, con patto che i Fiorentini lo potessero, a voglia loro,
distruggere o conservare. Assai difficile e dispendiosa doveva riuscire
la guardia di questa rocca posta a molta distanza da Fiorenza, di modo
che dopo un segreto consiglio degli anziani, la signoria determinò di
farla spianare. Ma i Pisani che non prevedevano così fatta risoluzione,
temevano all'opposto che i Fiorentini, acquistando uno stabilimento in
riva al mare, non andassero in seguito dilatandosi, e giugnessero ad
avervi un porto. Perchè mandarono un segreto negoziatore a Firenze per
prevenire questo successo. Era allora uno degli anziani Aldobrandino
Ottobuoni, cittadino assai riputato, ma di povere fortune. A costui si
diresse segretamente l'agente pisano, e cercando di persuaderlo che
quanto era per proporgli non era altrimenti contrario al dover suo, nè
agl'interessi della sua patria, gli offrì quattro mila zecchini d'oro, a
condizione che riducesse i suoi colleghi ad ordinare la demolizione di
Motrone. Sebbene tale risoluzione era già stata adottata il giorno
avanti, Aldobrandino licenziò l'agente pisano con disprezzo; e
riflettendo che i Pisani non sarebbonsi presa tanta premura per la
distruzione di Motrone, se non conoscessero estremamente vantaggioso ai
Fiorentini il conservare questa fortezza, si recò al consiglio degli
anziani, e seppe così bene esporre le ragioni che dovevano determinarlo
alla conservazione di Motrone, che la signoria, rivocando il precedente
atto, ordinò che la rocca si conservasse. Aldobrandino ebbe la
generosità di non parlare dell'offerta che gli era stata fatta; e furono
i nemici dello stato che manifestarono la disinteressata sua
condotta[160].
[160] _Gio. Villani l. VI, c. 63, p. 197._


CAPITOLO XIX.
_Pontificato d'Alessandro IV. — Crociata contro Ezelino; sua
disfatta e morte. — Manfredi re di Sicilia: soccorre i
Ghibellini toscani: battaglia di Monte Aperto o dell'Arbia._
1255=1260.

Innocenzo IV con una smisurata ambizione e con intollerabili oltraggi
aveva provocata la fuga, poi la vendetta di Manfredi; ma la morte di
questo papa lasciò lo stato della Chiesa ed il partito guelfo esposti a
sventure proporzionate alle passate prosperità. I cardinali adunati in
Napoli affrettaronsi di dare un altro capo alla Chiesa nella persona del
vescovo d'Ostia, della famiglia dei conti di Signa, la quale aveva dati
nello stesso secolo alla cristianità Innocenzo III e Gregorio IX. Il
vescovo d'Ostia si fece chiamare Alessandro IV. «Egli era, dice Matteo
Paris, buono e religioso, assiduo alle preghiere, costante nella
astinenza, ma troppo accessibile alle parole degli adulatori, ed agli
avidi consigli de' suoi avari cortigiani[161].» Procedette con minore
impeto e vigore, ma ancora con meno talenti, nella guerra contro
Manfredi; e non è ben certo se la sua apparente moderazione debba
attribuirsi a sentimenti più cristiani anzi che ad un carattere più
debole. Abbiamo osservato nel precedente capitolo, che ne' primi due
anni del suo regno perdette quasi tutte le terre conquistate dal suo
predecessore nel regno di Napoli. Nello stesso tempo i suoi generali ed
i legati pontificj trattavano la guerra in Lombardia, ove uno dei primi
atti del regno di Alessandro fu quello di far predicare la crociata
contro il feroce Ezelino. In sul finire del 1255 mandò lettere circolari
a tutti i vescovi, ai signori, alle città libere di Lombardia,
dell'Emilia e della Marca Trivigiana. «Un figlio di perdizione, diceva
egli, un uomo di sangue riprovato dalla fede, Ezelino da Romano, il più
inumano dei figliuoli degli uomini, approfittando dei disordini del
secolo, si è usurpato un tirannico potere sopra gli sventurati abitanti
del vostro paese. Col supplicio dei nobili, col massacro de' plebei,
egli ha spezzati tutti i vincoli dell'umana società, tutte le leggi
della libertà evangelica.... Ma noi pensando alla vostra salute, e
specialmente in ordine alle cose spettanti al Signore, abbiamo rivestito
dell'ufficio di nostro legato presso di voi, il nostro figlio,
l'arcivescovo eletto di Ravenna, affinchè rappresentandoci in codeste
province, riscaldi lo zelo de' fedeli, perseguiti colle armi spirituali
e temporali Ezelino ed i suoi perfidi amici, munisca del simbolo della
croce i fedeli che prenderanno le armi contro di lui, gl'incoraggisca,
loro offrendo per riconoscenza le medesime indulgenze accordate a coloro
che vanno in soccorso di Terra santa. Risvegli questi uomini oppressi
dal sonno della morte, assicuri coloro che vegliano per il bene, svelga
finalmente e disperda, fabbrichi e pianti, disponga ed ordini, colla
prudenza che gli viene da Dio, come conviene alla fede ortodossa,
all'onore della Chiesa, alla salute delle anime ed alla tranquillità
della vostra patria[162].»
[161] _Paris Hist. Angl. an. 1254, p. 771. — Raynald. an. 1254, t.
XIV, § 2, p. 1._
[162] Dato dal Laterano il 13 delle calende di gennajo. _Epist.
Alex. IV, l. II, epis. 7, ap. Raynald. Ann. 1255, § 10, p. 4._
Che nobile soggetto era una guerra predicata in nome di Dio contro il
nemico degli uomini! Diffatti per accrescere nemici contro Ezelino
dovevansi aggiugnere agli umani motivi altri ancora d'un ordine
superiore; imperciocchè Ezelino era tanto superiore di forze e di virtù
militari e politiche a' suoi avversarj, ed aveva in modo consolidata la
sua autorità coi delitti, che niuno argomento era troppo forte per
risvegliare l'entusiasmo de' suoi nemici, niuna ricompensa troppo nobile
per coloro che lo superassero.
Dopo la morte di Federico, Ezelino risguardavasi qual sovrano
indipendente, ed il supplicio di tutti i più distinti personaggi della
Marca segnava l'epoca dell'assoluta indipendenza ch'egli acquistava.
Pareva che volesse rifarsi de' riguardi che aveva troppo lungo tempo
avuti per la pubblica opinione, e voleva tutto il popolo testimonio del
suo furore, quasi insultando la sua sofferenza. Dopo che le sue vittime
erano perite nell'aere infetto delle carceri, o poichè erano spirate in
mezzo ai tormenti atroci della tortura, ne mandava i cadaveri alle
patrie città, facendo loro troncare il capo sulla pubblica piazza.
Spesso i gentiluomini venivano condotti a schiere sulla medesima piazza,
e colà dati in preda al ferro de' suoi sicari, indi fatti in pezzi e
consumati sul rogo. Dall'alto delle case udivansi di giorno e di notte
le lamentevoli voci degl'infelici che perivano nelle torture, e
risonavano entro al cuore di tutti i cittadini[163]. Nè soltanto i
nobili trovavansi esposti alla ferocia d'Ezelino, che ogni sorta di
distinzione gli era egualmente odiosa; e siccome non si curava nè meno
di trovare alcun pretesto che apparentemente adonestasse gli atti di sua
crudeltà, ogni uomo distinto era punito coll'estremo supplicio. I ricchi
negozianti, i legisti illuminati, i prelati, i monaci, i canonici di
specchiata pietà, e perfino coloro che si facevano distinguere per le
grazie della persona, perivano sul palco ed i loro beni erano
confiscati. Soleva Ezelino sforzare i proprietarj a vendergli le loro
case, specialmente quelle ch'erano situate in luoghi forti, o presso
alle porte della città, ma pochi giorni dopo si riprendeva il denaro
colla vita del venditore. Tutti, se fosse stato possibile, avrebbero
cercato di sottrarsi colla fuga a' suoi furori, ma il tiranno faceva
diligentemente guardare i confini de' suoi stati; e se taluno era
sorpreso in atto di uscirne, senza veruna forma di giudizio, e senza nè
meno interrogarlo, gli si amputava una gamba, o veniva privato degli
occhi.
[163] _Monachi Patav. Chron. l. I, p. 687._
Poco mancò peraltro che il coraggio di due gentiluomini liberasse la
terra da questo mostro. I due fratelli Monte ed Araldo di Monselice,
venivano condotti dalle guardie del tiranno a Verona, ove allora
dimorava Ezelino, per esservi giudicati[164]. Giunsero presso al
pubblico palazzo, mentre Ezelino desinava; il quale udendo le loro
grida, montò in tanta collera, che, abbandonata la mensa, scese le scale
senz'armi, gridando: _Vengano alla malora i traditori!_ Monte, appena
vedutolo, si libera dalle mani delle guardie, si avventa contro di lui e
lo rovescia a terra, cadendogli sopra. Mentre tentava di togliere al
tiranno il pugnale che supponeva avesse sotto la veste, ed in pari tempo
gli lacerava il volto coi denti, una guardia gli tagliò colla sciabla
una gamba, ed altre fecero in pezzi il fratello che voleva dargli ajuto.
Monte insensibile alla prima ferita ed agli altri colpi che venivano
sopra di lui scaricati, non abbandonava il tiranno, e faceva inutili
sforzi per soffocarlo. Finalmente perì, ma perì sopra il corpo d'Ezelino
che aveva lacerato coll'unghie e coi denti, il quale tardò lungo tempo a
rimettersi dalle riportate ferite e dal concepito terrore[165].
[164] Ciò accade l'anno 1253.
[165] _Rolandini l. VII, c. 5, p. 274._
In marzo del 1256 il legato pontificio, Filippo, arcivescovo eletto di
Ravenna, si recò a Venezia, ove incominciò a predicare la crociata.
Trovò in questa città molti fuorusciti e specialmente padovani,
salvatisi dalla furia di Ezelino. Il più distinto era Tisone Novello di
Campo Sampiero, giovane appena uscito di fanciullezza, figliuolo di quel
Guglielmo di cui abbiamo descritta la morte, ed ultimo erede d'una
famiglia vittima quasi tutta del tiranno. I fuorusciti padovani per
meglio guadagnarsi l'appoggio della repubblica nominarono loro podestà
Marco Quirini, gentiluomo veneziano; ed il legato seguendo la stessa
politica affidò la carica di maresciallo dell'armata ad un altro
gentiluomo veneziano, Marco Badoero, e scelse Tisone Novello per portare
lo stendardo. Infatti moltissimi Veneziani presero la croce; altri per
naturale sentimento di sdegno verso un così feroce tiranno, di cui in
tanta vicinanza avevano potuto conoscerne i delitti; altri mossi da
gelosia contro un principe che ogni giorno rendevasi più potente, e che
stendeva omai i suoi confini a sole sette in otto miglia dalla loro
capitale. Somministrarono al legato navi da guerra, onde potesse
rimontare la Brenta ed attaccare Padova.
La guerra cominciata nella Marca Trivigiana facevasi con forze eguali.
Il marchese Azzo d'Este veniva risguardato come capo naturale della
parte guelfa. Era stato spogliato da Ezelino di molte terre, ma gli
restavano il Polesino di Rovigo, ove dimorava; e conservava tanta
influenza nella città di Ferrara, ch'egli la governava omai piuttosto
come suo principato che come repubblica. Mantova trovavasi nella stessa
dipendenza verso i conti di san Bonifacio. Al conte Riccardo era
succeduto il figliuolo Luigi, il quale tenevasi, come Mantova, attaccato
al partito della Chiesa, ed implacabile nemico di Ezelino. Per lo stesso
partito stava pure la repubblica di Bologna; e Trento, ribellatosi di
fresco ad Ezelino, ne aveva scacciati i partigiani. D'altra parte
ubbidivano ad Ezelino Verona, Vicenza, Padova, Feltre e Belluno; erasi
inoltre segretamente rappacificato con Alberico suo fratello, che
governava Trivigi, ed aveva contratta alleanza col marchese Oberto
Pelavicino e Buoso di Dovara, capi di parte ghibellina in Lombardia, che
alternativamente o di comune accordo reggevano Cremona col titolo di
podestà, esercitandovi un potere quasi dispotico, ed inoltre stavano per
insignorirsi di Piacenza e di Parma. In Brescia mantenevasi viva tra le
due fazioni la guerra civile; ma il partito ghibellino sembrava più
potente; ed Ezelino lusingavasi che per metter fine alle private liti
de' suoi cittadini, Brescia si porrebbe in sua mano, ond'egli verrebbe
ad aggiugnere così nobile acquisto ai suoi stati.
Ond'essere meglio a portata di approfittare delle corrispondenze che
manteneva in Brescia, e vendicarsi ad un tempo de' Mantovani che
costantemente eransi fatti conoscere suoi nemici, Ezelino alla testa
delle milizie di Padova, Verona e Vicenza, e de' suoi antichi vassalli
di Bassano e di Pedemonte, corse il distretto mantovano, che tutto pose
a fuoco e sangue. Poi accampò le sue genti in riva al lago che circonda
questa città, quasi volesse intraprenderne l'assedio. Aveva d'altra
parte ordinato ad Ansedisio de' Guidotti, suo luogotenente in Padova, di
marciare contro l'armata del Legato e di chiuderle il passaggio,
afforzando la Brenta[166].
[166] _Jacobi Malvecii Chron. Brixian. Diss. VIII, c. 14, p. 923, t.
XIV. — Monachus Patav. Chron. l. II, p. 692. — Roland. de factis in
March. Tarvisana l. VIII, c. 1, p. 283 e segu. — Laurent. de Monacis
Ezerinus III, p. 148 ex l. XIII Hist. Venetæ. — Chron. Veron.
Parisii de Cereta p. 636. — Campi Cremona Fedele l. III, p. 63. —
Pigna Istoria de' principi d'Este l. III, p. 218. — Chron. Estense
t. XV, p. 318. — Ghirardacci Istoria di Bologna l. VI, p. 191._
Ezelino conservava sul trono tutto il valore che gli aveva agevolata la
strada per salirvi; ma d'ordinario i ministri di un tiranno sono più
vili del padrone. Ansedisio non prese le convenienti misure per impedire
la marcia de' crociati: perchè volendo travoltare le acque della Brenta
onde le navi veneziane non potessero rimontare il fiume, aprì un
passaggio ai pedoni che lo attraversarono senza bagnarsi; e mentre il
legato s'impadroniva dei castelli di Concadalbero, di Buvolenta, di
Cansilva, egli teneva inoperosa la sua armata a Pieve di Sacco. Bentosto
abbandonò anche l'armata, e tornò a Padova, ove poco dopo la fece
ritirare. Tante perdite servirono a scoraggiare i soldati, molti de'
quali servivano di mala voglia, ed accrescevano la confidenza
dell'armata nemica, la quale attribuiva così prosperi avvenimenti
all'aperto favore del cielo, poichè non potevano darne lode al prete che
la comandava, il quale aveva date sicure riprove della sua incapacità.
Il lunedì 18 giugno, l'armata de' crociati s'incamminò da Pieve di Sacco
verso Padova, guidata dall'arcivescovo di Ravenna, il quale circondato
da' suoi preti intuonò l'inno:
_Vexilla regis prodeunt;_
_Fulget crucis mysterium..._
ripetuto con entusiasmo da tutta l'armata. Al ponte del Bacchiglione,
discosto solo due miglia da Padova, i crociati posero in fuga alcune
bande d'Ansedisio, per sostenere le quali arrivarono troppo tardi altre
truppe che vennero disperse di mano in mano che uscivano di città; di
modo che, approfittando i Guelfi della confusione de' fuggiaschi,
entrarono assieme nel sobborgo di Padova, e se ne resero padroni.
All'indomani attaccarono in più luoghi le mura e le porte della città. E
mentre in ogni altro luogo i crociati combattevano debolmente, il
legato, circondato di frati, di preti, di soldati, di cavalieri, tentava
di prendere d'assalto la porta di ponte Altinato. I crociati vi si erano
avvicinati coperti da una specie di galleria mobile detta _vinea_, la
quale teneva luogo dell'antica testuggine. Dall'alto delle mura
versandosi olio e pece infiammati per allontanare gli assalitori, la
galleria prese fuoco; di che avvedutisi i crociati, la spinsero contro
la porta che pure era di legno, ed aggiungendovi altre materie
combustibili, la ridussero ben tosto in cenere. Gli assediati che
avevano eccitato il primo incendio, non avendo modo di fermarne i
progressi, uscirono atterriti per l'opposta porta collo spaventato
Ansedisio, mentre l'armata crociata, appena spente le fiamme, entrava
trionfante in città[167].
[167] _Roland. l. VIII, c. 13 e 14. p. 295-298. — Monachi Patavini
Chron. p. 693._
I crociati avendo sottomessa Padova piuttosto per favore del caso, che
per forza di valore o d'ingegno, usarono senza misericordia di una
vittoria senza gloria. Poca gente perdette la vita in città, perchè
pochi osarono difendere le loro proprietà; ma i vincitori saccheggiarono
per sette giorni consecutivi i beni di que' miseri cittadini, così che
quella nobilissima città, dopo avere perdute tante ricchezze e tanto
sangue ne' diciotto anni che fu soggetta ad Ezelino, fu spogliata dei
miseri avanzi dell'antica sua opulenza da coloro che si annunciavano per
suoi liberatori.
A fronte della perdita di tutte le loro fortune i Padovani non
lasciavano però di felicitarsi di un avvenimento che, togliendoli ai
mali della tirannide, li rendeva alla comunione della Chiesa; e
sentirono tutto il prezzo della ricuperata libertà quando videro aprirsi
le prigioni di Ezelino. In quella di santa Sofia, posta nel sobborgo,
furono trovati trecento prigionieri ed altrettanti in quella di
Cittadella che s'arrese pochi giorni dopo[168]. Eranvi nella città altre
sei più piccole prigioni, tutte piene d'infelici. Si vedeva uscirne
uomini agonizzanti, rispettabili matrone, dilicate fanciulle oppresse
dalla miseria sofferta nelle prigioni, e ciò che pose il colmo a tanto
spettacolo, molti fanciulli privati degli occhi e barbaramente mutilati
in più atroci guise.
[168] _Rolandini l. IX, c. 1 e 4. p. 299-302. — Monachus Patavinus,
p. 694._
Ma un nuovo disastro più terribile de' già sofferti, era preparato
all'infelice Padova. Quando Ezelino ebbe avviso della perdita di questa
città, la più potente di quante ne possedeva, trovavasi accampato in
riva al Mincio con un'armata di circa trenta mila uomini, dei quali
undici mila appartenevano alla città ed al distretto di Padova: i quali
conoscendo egli a sè mal affetti, ebbe paura che si ammutinassero;
locchè volendo prevenire, li condusse di notte tempo con una marcia
sforzata a Verona, ove giunsero in sul fare del giorno. Fece entrare
tutti i Padovani disarmati nel ricinto di san Giorgio, e disse loro che,
per placare la sua collera, dovevano essi medesimi consegnare tutti i
soldati venuti da Pieve di Sacco, perchè in questa terra le sue truppe
erano state tradite. Ciascuno, vedendo indicata una vittima,
felicitavasi d'essersi sottratto al pericolo, e trovava dei pretesti per
iscusare la collera del tiranno, e così tutte le genti di Pieve di Sacco
furono chiuse in prigione. Ezelino chiese in appresso quelle di
Cittadella, i cui compatriotti eransi arresi senza combattere, e corsero
la sorte dei primi. Allora domandò tutti gli uomini della campagna
padovana, che furono consegnati dagli abitanti della città; poi chiese i
nobili, che vennero di buon grado sagrificati dai plebei; finalmente
spedì contro questi ultimi i suoi soldati di Pedemonte, e li fece tutti
mettere in catene. Per tal modo tutta un'armata lasciossi imprigionare,
senza speranza di uscir mai dalle carceri, imperciocchè dopo avere
spogliati quegli infelici, gli abbandonava al freddo, alla fame, alla
sete; e siccome non perivano abbastanza sollecitamente, col ferro, col
fuoco, o sopra infame patibolo li faceva tutti perire. Di così bella
armata composta della più bella e più valorosa gente di Padova, appena
se ne salvarono duecento[169][170].
[169] Le particolari circostanze sono prese dal Rolandino _l. IX, c.
7.-8. p. 304-306_: ma il fatto viene attestato da tutti i coetanei.
_Chron. Veron. p. 636. — Mon. Patav. p. 695. — Laurent. de Mon.
Ezerinus III, p. 149. — Ant. Godi Chr. Vic. p. 87. — Chron. Est. p.
230. — Regiurinum Paduæ Chronicatores duo, p. 377, 378._
[170] Il fatto ne' particolari è assai diversamente raccontato, e
gli scrittori allegati erano tutti guelfi. _N. d. T._
(1256) Le armate crociate che a quest'epoca combattevano in Europa, non
erano d'altro composte che della feccia delle nazioni, d'uomini
ignoranti e superstiziosi, spinti in mezzo ai pericoli dalle prediche
de' preti senz'avere acquistato il necessario coraggio per sostenerli a
sangue freddo. Forse quest'uomini condotti da esperti generali sarebbero
col tempo diventati buoni soldati; ma il loro fanatismo opponevasi
naturalmente ad ogni disciplina; e l'esperienza di abili ufficiali
valutavasi assai meno del potere dei preti; onde non si curavano di chi
sapesse ben condurli. La crociata contro Ezelino, una guerra intrapresa
per la causa della libertà e dell'umanità, venne macchiata non solo
dalla superstizione, che pure talvolta può associarsi coi più nobili
sentimenti, ma ancora dalla viltà e dall'anarchia prodotte da quella
medesima superstizione. Ogni corpo d'armata era capitanato da qualche
religioso, ed i Bolognesi avevano alla loro testa quello stesso frate
Giovanni da Vicenza, che vent'anni prima predicava la pace in Lombardia:
generale veramente degno de' suoi ufficiali e soldati! Filippo,
arcivescovo di Ravenna, era un prete ignorante e senza carattere. Egli
avanzossi fino a Longara sulla strada di Vicenza colla sua armata,
occupando i suoi soldati nell'andare in traccia de' migliori vini e di
ciò che poteva trovarsi di più squisito per vivere delicatamente.
Mentre l'armata trovavasi a Longara, si presentò al legato Alberico da
Romano, che venne accolto con tutte le dimostrazioni di cordialità.
Alberico aveva lungo tempo mostrato di seguire il partito della Chiesa,
ma non era senza fondamento il sospetto di taluno, che fosse d'accordo
col fratello, e che i due tiranni si fossero allogati nelle opposte
fazioni per vie meglio assicurare l'ingrandimento della loro famiglia, e
penetrare più agevolmente i disegni de' loro nemici. La venuta
d'Alberico destò la diffidenza ne' gentiluomini dell'armata, ma il
legato non prestò fede ai loro consigli. Pochi dì dopo per altro scoppiò
nel campo una sommossa: i Bolognesi protestavano di non voler più
servire senza paga, e nello stesso tempo pubblicavasi ch'era omai vicina
l'armata d'Ezelino; onde tutto ad un tratto, senz'ordine e senza
apparente cagione, i crociati presero la strada di Padova.
Fortunatamente che il podestà Marco Quirini, penetrando il motivo di
questa subita risoluzione, di cui sospettava l'autore, mandò avanti un
messo con ordine di chiudere le porte all'armata, e di non dar ricetto a
qualunque fuggiasco dal campo di Longara. Poco dopo l'arrivo del messo,
si presentò a Padova, accompagnato da numerosa scorta, Alberico,
chiedendo a tutte le porte d'essere intromesso; ma vedendo rifiutate le
sue istanze, partì alla volta di Treviso, nè più tornò al campo de'
crociati[171].
[171] _Roland, l. IX, c. 10, 11, 12. — Mon. Pat. Chr. p. 695._
Dopo non molti giorni, Ezelino s'avanzò verso Padova per farne
l'assedio, ma trovò che i nemici avevano cavata una larga fossa tre
miglia fuori della città, e munita di ridotti che difendevano
coraggiosamente; perchè avendoli inutilmente attaccati, si ritirò,
licenziando l'armata quantunque potesse tenersi ancora due mesi in
campagna.
(1257) Nel susseguente anno non ebbe luogo verun avvenimento di molta
importanza. Ezelino, spaventato dalla perdita di Padova, cercava, per
rifarsi da questo colpo, di formare nuove alleanze, sia coi Ghibellini
di Lombardia, sia coi due pretendenti alla corona imperlale, Riccardo
conte di Cornovaglia ed Alfonso di Castiglia, che avevano divisi i voti
del collegio elettorale e dei principi di Germania. Dall'altra banda il
legato non aveva nè talenti, nè attività, nè fors'anco mezzi per
trattare vigorosamente la guerra; di modo che passò la buona stagione
senza tentare veruna impresa. I due partiti sembravano principalmente
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