Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 13

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e per conseguenza la potenza di un signore, e d'un signore straniero
assai più sproporzionata a quella del popolo. In Lodi cessarono allora
le dispute, nè Martino la tiranneggiò; ma questo piccolo stato fu
ridotto ad essere tra le sue mani un istrumento di cui si valse per
ridurre Milano in servitù.
Frattanto i gentiluomini milanesi, quasi tutti fuorusciti, formavano un
corpo di cinquecento uomini d'armi oltre alcuni cavalleggieri; onde
malgrado l'estrema superiorità del popolo di Milano per ricchezze, per
numero, per potenza, non poteva Martino opporre a quella terribile
cavalleria, che una infanteria plebea incapace di resisterle, poichè
colui che fino dalla fanciullezza non erasi accostumato a vestire la
corazza ed a combattere sotto così pesante soma, non poteva più
accomodarvisi dopo essersi applicato ad un altro genere di vita. Una
lunga e dura scuola era necessaria per esercitare il mestiere del
soldato, onde non credevasi possibile che un plebeo diventasse mai
cavaliere. Martino che aveva combattuto contro Ezelino di concerto col
marchese Pelavicino, credette di poter senza pericolo servirsi della
cavalleria del marchese in ajuto della propria potenza e di quella del
popolo. Perciò a nome della repubblica di Milano conchiuse un trattato
col marchese, in forza del quale ebbe questi il titolo di capitan
generale, e fu preso con un corpo di cavalleria al soldo del popolo che
gli assicurò l'annua pensione di mille libbre d'argento e la piena
autorità in Milano per cinque anni.
Pelavicino, come abbiamo altrove osservato, era uno zelante ghibellino;
e si vuole inoltre che in odio della santa sede avesse abbracciata
l'eresia de' Pauliciani, onde proteggeva i predicatori di que' settarj
in tutte le città da lui dipendenti, non permettendo agl'inquisitori di
dar corso alle sanguinose loro procedure. L'alleanza di Martino della
Torre col Pelavicino fu risguardata dalla santa sede come l'abbandono di
una città e di una famiglia, che fin allora eransi mantenute fedeli ai
Guelfi; e malgrado che Martino non abbandonasse questa fazione, i papi
più non gli perdonarono quest'alleanza cogli eretici, e risolsero di
punirlo, come di fatti lo fecero con una tarda, ma premeditata vendetta,
innalzando, per deprimere la sua casa, la famiglia rivale de' Visconti.
Lo stesso Pelavicini, già da lungo tempo signore di Cremona, aveva pure
ottenuto, dopo la morte di Ezelino, di farsi nominare capitano generale
di Brescia e di Novara: indi coll'ajuto di Martino della Torre
s'impadronì ancora di Piacenza; di modo che quasi tutta la Lombardia
veniva governata da questi due signori.
I fuorusciti milanesi, perseguitati dalle loro forze riunite di città in
città, finalmente del 1261 si chiusero in numero di circa novecento nel
castello di Tabiago, ove furono ben tosto assediati dall'infanteria
milanese e dalla cavalleria del marchese. Tutte le cisterne del castello
furono in breve asciugate per abbeverare i cavalli di tanti
gentiluomini; i quali, mancata l'acqua, essendo periti di sete, i loro
insepolti cadaveri guastarono l'aria: talchè gli emigrati privi de' loro
cavalli, indeboliti dalle malattie e dalle privazioni d'ogni genere,
trovaronsi perfino nell'impotenza di farsi strada a traverso ai loro
nemici. Costretti dopo lunghi sforzi di arrendersi, furono tutti
incatenati e condotti a Milano sulle carrette. In tale occasione Martino
della Torre li salvò dal furore della plebe che chiedeva la loro morte;
ma li fece chiudere nelle prigioni, nelle torri e ne' campanili delle
città, o in vaste gabbie di legno, esposti alla vista del popolo quali
bestie feroci; lasciandoli più anni in tanta miseria.
Ogni cosa riusciva prospera alla famiglia della Torre, il di cui dominio
sopra Milano sembrava da quest'ultima vittoria consolidato. Pure Martino
volle assicurarsi di un altro pegno della sua grandezza. Dopo la morte
di Leone da Perego il capitolo della cattedrale non aveva ancora
nominato il successore. Il capitolo era composto presso a poco dello
stesso numero di nobili e di plebei. Questi, dietro le istanze del
capitano del popolo, proponevano Raimondo della Torre cugino o nipote di
Martino; ma i nobili gelosi della gloria di Martino, si rifiutavano di
aderirvi, e davano i loro suffragi a Francesco da Settala. Questa doppia
elezione dava alla corte pontificia il diritto di appropriarsi la
contrastata elezione. Il papa escluse i due competitori, e nominò l'anno
1263 Ottone Visconti che allora soggiornava in Roma. Era questi un
canonico della cattedrale appartenente ad una delle più nobili famiglie
milanesi. Martino, offeso da tale inaspettata elezione, si appropriò
quasi tutti i beni della mensa episcopale; per lo che l'arcivescovo ed
il papa si unirono ai nobili, e rialzarono le prostrate forze di questo
partito.
La città di Novara aveva probabilmente, come Milano, nominato il
marchese Pelavicino suo capitano solamente per un determinato tempo;
onde rientrata nell'esercizio de' suoi diritti, l'anno 1263 ne affidò la
signoria a Martino della Torre, che quasi nello stesso tempo ebbe avviso
d'un importante vantaggio ottenuto dalle sue truppe sopra i partigiani
dell'arcivescovo ne' contorni del lago Maggiore. Ma furono questi gli
ultimi prosperi avvenimenti di Martino, il quale in sul cominciare di
settembre trovandosi in Lodi da grave infermità oppresso, e sentendosi
morire, chiese ed ottenne dal popolo di Milano, che volesse accordare a
suo fratello Filippo quell'autorità di cui egli era rivestito.
Non sarebbe facile a decidere se l'immatura morte di quasi tutti i
signori della Torre riuscisse utile o dannosa a questa famiglia. Un
successore egualmente destro ed intraprendente, prendendo subito il
luogo del defunto, avvezzava il popolo all'idea dell'eredità del supremo
potere; ed essendovi stati, in meno di vent'anni, cinque capi della
stessa famiglia, succeduti l'uno all'altro, si venne a risguardare
l'ultimo quale rappresentante di un'antica dinastia. Filippo successore
di Martino non gli sopravvisse che due anni, nel quale breve spazio
consolidò l'autorità suprema nella propria casa, estendendola prima
sopra Como, poi Vercelli e Bergamo, che del 1264 lo nominarono
volontariamente loro signore. In tutte queste città, siccome nelle altre
che suo fratello si era prima rese soggette, il popolo non credeva di
rinunciare alla sua libertà: egli non voleva darsi un padrone, ma bensì
un protettore contro i nobili, un capitano delle milizie, un capo della
giustizia. L'esperienza mostrò troppo tardi che queste prerogative
riunite costituivano un sovrano.
Filippo della Torre approfittò di questo accrescimento di potere per
isvincolarsi dall'onerosa alleanza del marchese Pelavicino. Erano
passati i cinque anni convenuti con Milano, ed il suo ajuto più non era
necessario, perchè della Torre aveva finalmente in tante città a lui
subordinate adunati abbastanza gentiluomini per formarne un rispettabile
corpo di cavalleria. Il marchese fu licenziato, ma sebbene gli fossero
strettamente mantenute le condizioni del trattato, concepì un profondo
sdegno a cagione di questo congedo, e cercò di vendicarsi sui mercanti
milanesi della condotta del loro principe[208].
[208] Scrivendo la storia dell'innalzamento della casa della Torre
mi sono unicamente attenuto al conte Giorgio Giulini, che con dotte
indagini illustrò questo tratto di storia. _L. LIV_ e _LV_ delle sue
memorie, _t. VIII, dalla p. 73 alla p. 210_. Non ho per altro
lasciato di leggere _Bernard. Cor. Istor. di Milano, p. II, p.
110-122. — Galvan. Flamma Manip. Flor. c. 285-302. — p. 683-694.
Annales Mediolan. t. XVI, c. 28-37. p. 658-666._
Era effettivamente principe perchè aveva a sè soggetta la Lombardia, la
quale comechè non s'avesse a rimanere lungo tempo sotto il dominio dei
signori della Torre, il carattere repubblicano andava avvezzandosi
all'ubbidienza, ed i Visconti rivali dei Torriani più omai non avevano a
combattere che contro un principe nemico, non contro i cittadini.
La preponderanza della cavalleria nelle battaglie, ed il vantaggio che
ne traeva la nobiltà, fu nell'aperte pianure della Lombardia una delle
immediate cagioni della caduta delle repubbliche. In mezzo alle colline
della Toscana, ove la cavalleria pesante non può stendersi nè agire
liberamente, i nobili non erano così avvantaggiati; lo erano poi meno
nelle repubbliche marittime, la di cui forza consisteva nelle galere, e
dove il popolo, che ne formava gli equipaggi, aveva il sentimento della
sua indipendenza. Dopo averle lungo tempo lasciate da un canto, è ormai
tempo di riprendere il filo della storia delle loro rivoluzioni.
Mentre l'odio eccitato da una nobiltà arrogante precipitava i Lombardi
sotto il giogo del dispotismo, in Venezia ove la nobiltà non era
intimamente persuasa della propria forza, quella stessa nobiltà
s'innoltrava per una via legale e regolare verso lo stabilimento di un
governo aristocratico, che fondava sopra le ruine del potere monarchico
dei dogi. Venezia avendo sempre volto il pensiere ai suoi ricchi
stabilimenti dell'Oriente, ed alle guerre necessarie per la loro
conservazione, non aveva presa parte alle rivoluzioni dell'Italia, nè
conobbe le fazioni guelfe e ghibelline: onde non si ebbe occasione di
parlare delle esteriori relazioni di questa potente repubblica; come le
sue interne riforme operatesi lentamente e per gradi, non richiamarono a
sè i nostri sguardi. Soltanto abbracciando un lungo spazio di tempo si
riconosce lo spirito ond'era animata questa repubblica, e lo sviluppo di
quel sistema che doveva farne la più severa e durevole aristocrazia
dell'universo.
Nelle altre città d'Italia l'esterior forma del governo fu in origine
repubblicana; e quando si prese a riformarne gli abusi, credettesi di
doversi allontanare da tutte le forme che prima esistevano, e convenne
accostarsi naturalmente alle monarchiche. Per lo contrario a Venezia,
antichissima essendo l'istituzione dei dogi, i quali inamovibili
magistrati furono per quattro interi secoli giudici supremi, generali di
tutte le forze dello stato, circondati da un fasto orientale preso dalla
corte di Costantinopoli, più volte autorizzati a trasmettere la propria
dignità ai loro figliuoli, erano, rispetto alle prerogative, eguali ai
re d'Italia. Anche la forma essenziale del governo era affatto
monarchica; e quando se ne scorgevano gl'inconvenienti, ogni limitazione
dei poteri del doge parve una conquista fatta a favore della libertà. La
nazione fece causa comune colla nobiltà, e non si adombrò delle
prerogative che questa si attribuiva.
Di già l'anno 1032, quando Domenico Flabenigo era stato creato doge, il
potere monarchico, in seguito di una sommossa, aveva sofferte alcune
restrizioni[209]. Il popolo aveva dati al doge due consiglieri, senza il
di cui consentimento non poteva prendere veruna determinazione: era
stata proibita l'associazione d'un figlio col padre, e nelle più
importanti occasioni il doge era stato sottomesso all'obbligo di adunare
a sua scelta i principali cittadini per deliberare con loro intorno
agl'interessi dello stato. Coloro ch'egli pregava ad assisterlo, ebbero
il nome di _pregadi_; e questa è l'origine del più antico e più illustre
consiglio della repubblica di Venezia.
[209] _Sandi stor. civile Veneta p. I, v. II, l. III, c. 1. p. 378._
Ma la formazione di un corpo assai più importante, di quel corpo che in
appresso attribuissi la sovranità, e formò da sè solo tutta la
repubblica, fu posteriore di cento quarant'anni a questa prima
limitazione dell'autorità ducale. Dopo la sgraziata spedizione
nell'Arcipelago del doge Vital Micheli, il quale, ingannato dai
negoziati della corte di Bizanzio, espose la sua flotta al contagio, e
perdette il fiore de' soldati, scoppiò in appresso al suo ritorno un
tumulto, nel quale fu ucciso da un plebeo[210]. Un interregno di sei
mesi precedette l'elezione del suo successore, e la nazione veneziana
gettò in quel frattempo i fondamenti di un governo veramente
repubblicano, onde evitare che l'inconsideratezza di un solo uomo non
mettesse in pericolo tutto lo stato.
[210] _Sandi storia civile Veneta p. I. l. III._
Fino a quell'epoca la nazione non aveva avuta in faccia al governo verun
rappresentante; s'adunava essa medesima, e con questi parlamenti o
assemblee generali il doge divideva la sovranità. Ma quanto più la
nazione cresceva di potenza, queste assemblee diventavano più
tumultuose; e restando incomplete per l'assenza di molti cittadini,
giudicavansi più incapaci di sopravvegliare il governo e di difendere
contro i suoi attentati la pubblica libertà. Si credette, secondo il
sistema che fu poi chiamato rappresentativo, che la nazione potrebbe
delegare i suoi poteri ad un minor numero di cittadini che agirebbero in
suo nome ed osserverebbero il governo. Si credette che affidando loro la
comune difesa, li si darebbero pure i proprj interessi e sentimenti, e
per tal modo si fece il primo passo, forse necessario, verso
l'aristocrazia. Senza abolire le generali assemblee del popolo, che
nelle più importanti occasioni si convocarono fino al quattordicesimo
secolo[211], si formò un consiglio annuale di quattrocento ottanta
cittadini, rappresentanti i sei sestieri della nazione e le dodici più
antiche divisioni de' suoi tribunati. A questo consiglio venne affidata
la somma di tutti i poteri non attribuiti al doge, ed in unione al
medesimo la sovranità della repubblica[212].
[211] _Sandi p. I, l. III, p. 413._
[212] _Sandi p. I, l. III, c. 3, p. 401._
Forse la maggiore di tutte le difficoltà in politica è di fare che il
popolo elegga degnamente i suoi rappresentanti. Pochi uomini resi famosi
dalle loro virtù e dai loro talenti possono ottenere un'opinione
universale, il popolo può conoscerli, e procedendo a scegliere tra
questi, prendersi cura della scelta; ma s'egli deve nominare un corpo
numeroso, se deve estrarre dalla folla centinaja d'individui che vi
rimanevano inosservati, trovasi costretto d'agire a caso, senza
cognizione di causa e senza interesse. Quando le elezioni sono
tranquille e facili convien dire che il popolo sia quasi straniero
all'opera che sembra da lui fatta. Abbiamo veduto ne' saggi di
costituzioni fatte a' nostri giorni, le liste de' notabili, degli
elettori, de' pubblici funzionarj partire in apparenza dal popolo con
una regolarità numerica che appagava i matematici inventori di tutti
questi sistemi; ma il popolo non era stato giammai meno rappresentato
che da' suoi mandatarj; imperciocchè i cittadini convinti
dell'inefficacia di tutte le loro funzioni, o non assistevano alle
assemblee, o agivano come a caso e senza prendersene pensiero; e
talvolta non conoscevano pure lo scopo delle operazioni che
facevano[213].
[213] Vedasi un paragrafo assai profondo intorno alla spettanza
della nazione nelle elezioni nell'opera di Necker, _Ultime viste di
politica e di finanza p. 106-137_.
Si può, non v'ha dubbio, provvedere a tanti inconvenienti; ma i mezzi
opportuni poche volte si praticarono, ed alcune delle repubbliche
italiane non li hanno pure conosciuti. Tutte hanno creduto non potersi
accordare le elezioni de' consigli al popolo, e preferirono di
confidarle o ai loro magistrati, oppure ad un ristretto numero di
elettori a ciò creati, oppure anche alla sorte, piuttosto ch'esporsi al
tumulto, all'ignoranza, alla noncuranza della massa del popolo, in una
determinazione ch'esse non credevano fatta per lui.
A Venezia furono dunque destinati dodici tribuni per far ogni anno
l'ultimo giorno di settembre l'elezione del maggior consiglio. Due di
questi tribuni appartenevano ad ognuno de' sestieri o divisioni della
città e della nazione. Ognuno di loro doveva scegliere nel proprio
sestiere quaranta cittadini, e perchè in una repubblica che credeva
contenere i discendenti del fiore della nobiltà romana, si faceva
grandissimo caso de' natali, si volle che la nuova legge proibisse agli
elettori di accordare troppo favore alle famiglie illustri, e fu vietato
di prendere più di quattro membri del gran consiglio nella stessa
famiglia.
È probabile che i due tribuni per ogni sestiere fossero la prima volta
nominati dal popolo del proprio sestiere; e malgrado le loro
contraddizioni, apparisce dalle cronache conservata al popolo tale
partecipazione alle elezioni fino a tutto il dodicesimo secolo. Ma
venendo tutte le altre nomine senza eccezione attribuite al maggior
consiglio, questo fece sue bentosto anche quelle degli elettori che
dovevano rinnovarlo: quindi sotto colore di limitare nelle mani degli
elettori una pericolosa prerogativa, ma in fatto per accrescere la
propria, dichiarò che le nomine de' tribuni non si risguarderebbero che
quali semplici designazioni, e si arrogò il diritto di confermare o
rigettare i nuovi membri che verrebbero presentati dagli elettori, prima
di rassegnar loro i suoi poteri.
L'annuale elezione del consiglio sovrano pareva conservare l'essenza del
governo rappresentativo; ma effettivamente erasi stabilita
l'aristocrazia, e la nazione si era, senz'avvedersene, spogliata della
sovranità. Il maggior consiglio, padrone delle proprie rielezioni,
doveva, malgrado l'apparente sua ammovibilità, essere sempre press'a
poco composto degli stessi individui. Quel rispetto per gl'illustri
natali, che presiedette all'origine di questo corpo, doveva accrescersi
sotto il suo regno; e la rivoluzione che in sul finire del tredicesimo
secolo rese ereditaria la carica di consigliere, era senza dubbio
preparata dall'eredità reale nelle famiglie che quasi sole composero
questo corpo ne' cento trent'anni della sua durazione.
Ma la nobiltà che nel tredicesimo secolo trovavasi già in possesso del
poter sovrano a Venezia, veniva nonpertanto mantenuta nell'eguaglianza e
nell'ubbidienza alle leggi dal timore del doge e dal rispetto del
popolo. I nobili veneziani non avevano allora alcun possedimento in
terra-ferma, verun castello ove rifugiarsi a dispetto della pubblica
autorità, verun vassallo che potessero armare per la propria difesa. Se
fossero stati chiamati a prendere le armi contro il popolo, avrebbero
dovuto combattere a piedi come l'ultimo della plebe nelle anguste
contrade di Venezia impraticabili ai cavalli, o pure stando nelle barche
e nelle galere, i cui marinaj erano tutti uomini liberi e valorosi
quanto i nobili. E perchè niun sentimento della propria forza poteva in
essi risvegliare l'insolenza, non se ne rendevano giammai colpevoli. I
nobili veneziani si mantennero perchè si credettero deboli; i nobili
lombardi si perdettero per essersi conosciuti forti. Dopo l'undecimo
secolo la repubblica di Venezia non fu più lacerata da fazioni civili;
cercò costantemente e di comune accordo gli stessi oggetti, al di fuori
la gloria e la grandezza nazionale, nell'interno la soppressione del
potere arbitrario, il mantenimento dell'eguaglianza tra i nobili, e
della prosperità per tutti i sudditi.
L'amministrazione della giustizia affidata ad un solo uomo nelle
repubbliche lombarde diventò naturalmente arbitraria e violenta. Si
credettero necessarie al mantenimento dell'ordine l'esecuzioni d'un
podestà o capitano rivestito degli attributi dittatoriali; ma per
mantenere l'ordine si sagrificò la libertà. In tempo che tutte le città
d'Italia adottavano la straniera istituzione de' podestà, i Veneziani
spogliavano il doge della pericolosa prerogativa di giudice criminale,
ed affidavano questa delicata incumbenza ad un nuovo senato, la
_quarantia_, che in appresso si chiamò _vecchia_ o _criminale_ per
distinguerla da altri due tribunali composti egualmente di quaranta
individui e destinati ad analoghe funzioni. La vecchia quarantia fu
istituita l'anno 1179 dal maggior consiglio, di cui i giudici erano
membri[214].
[214] _Sandi Storia civile di Venezia l. IV, p. 510, p. I, t. II._
Il doge formò lungo tempo il consiglio de' _pregadi_ con una scelta
libera ed istantanea. Consultava intorno agli affari di stato chi voleva
e quando voleva. La vigilanza del maggior consiglio impediva bensì che
questa scelta arbitraria avesse funeste conseguenze per la nazione; ma
ciò non bastava: pareva in opposizione allo spirito della repubblica il
lasciare ad un uomo la facoltà d'accordare e di togliere titoli d'onore
ed una pubblica confidenza; si ebbe timore che questa prerogativa
potesse dargli una corte, e che l'adulazione guastasse il cuore de'
gentiluomini; non volevasi che verun di loro scendesse sotto al livello
de' suoi eguali, o si facesse a credere d'avere un superiore. Del 1229
il consiglio de' pregadi diventò parte della costituzione dello stato
[215]. Fu composto di sessanta membri nominati ogni anno dal maggior
consiglio, e fissate le sue incumbenze sotto la presidenza del doge.
Ebbe il carico di preparare gli affari che dovevano sottoporsi alla
decisione del maggior consiglio, e soprattutto d'aver cura del commercio
e delle relazioni esteriori dello stato.
[215] _Sandi p. I, v. II, l. IV, c. 11. § 1, p. 581._
Nella stessa epoca i Veneziani ristrinsero i limiti de' dogi.
Approfittarono dell'interregno che precedette l'elezione di Giacomo
Tiepolo, per creare due nuove magistrature unicamente destinate ad
opporsi alle usurpazioni de' dogi. La prima fu quella de' cinque
_correttori della promission ducale_ incaricata di riconoscere in ogni
interregno il giuramento d'inaugurazione che doveva prestare il doge, e
di farvi, di consenso del maggior consiglio, le correzioni ed aggiunte
che trovassero convenienti al mantenimento dell'onore di così sublime
dignità e della libertà di tutti. L'altra magistratura fu quella de'
_tre inquisitori del doge defunto_, la quale esaminava l'amministrazione
del capo dello stato dopo la sua morte, confrontandola col giuramento
che aveva prestato quando entrò in funzione; di ricevere ed esaminare le
lagnanze e le deposizioni de' cittadini contro di lui; e se lo
meritasse, di condannarne la memoria, assoggettando i suoi eredi alla
ammenda. Non pertanto questo giudizio poteva sempre essere portato
innanzi al sovrano consiglio da' procuratori nazionali, chiamati
avogadori del comune[216]. E per tal modo le usurpazioni del capo dello
stato si poterono sempre reprimere senza scosse, e senza che i
magistrati dovessero lottare contro di lui per frenare la sua ambizione.
[216] _Sandi p. I, t. II, l. IV, c. 3, § 1, p. 621._
Pare che il giuramento del doge formasse per lo addietro la gran carta
delle libertà nazionali; ma il potere di questo capo dello stato venendo
gradatamente ristretto dal sovrano consiglio, il suo giuramento si
ridusse ad essere una rinuncia non solo a tutte le antiche prerogative
della sua carica, ma quasi alla personale sua libertà. La raccolta delle
_promesse ducali_ divisa in centoquattro capitoli è probabile che siasi
cominciata verso il 1240, e continuata soltanto fino al cadere dello
stesso secolo. Il doge prometteva d'osservare le leggi della sua patria,
e d'eseguire i decreti di tutti i consigli; prometteva di non tenere
corrispondenza colle potenze estere, di non riceverne gli ambasciatori,
di non aprirne le lettere senza l'assistenza del suo piccolo consiglio;
di non dissigillare nemmeno le lettere che gli fossero dirette da'
sudditi dello stato se non in presenza d'uno de' suoi consiglieri; di
non acquistare veruna proprietà fuori dello stato veneto, e
d'abbandonare quelle che avesse all'atto della sua nomina; di non
prender parte in alcun giudizio nè di fatto, nè di diritto; di non
cercare d'accrescere il suo potere nello stato; di non permettere a
veruno de' suoi parenti d'esercitare dipendentemente da lui alcun
ufficio civile, militare o ecclesiastico negli stati della repubblica o
fuori; finalmente a non permettere che alcuno cittadino piegasse innanzi
a lui le ginocchia, o gli baciasse le mani[217].
[217] _Sandi p. I, t. II, l. IV, c. 4; p. II, § 2, p. 704._
L'anno 1172 la nomina del doge fu trasferita con tutte le altre elezioni
dall'assemblea del popolo al maggior consiglio, che delegava in origine
ventiquattro, e ne' tempi susseguenti quaranta membri, che la sorte
riduceva ad undici. Dopo il 1249 questa elezione diventò assai più
complicata. Trenta membri estratti a sorte in tutto il consiglio si
riducevano a nove con una seconda estrazione. Questi dovevano scegliere
a pluralità di sette suffragi quaranta membri dello stesso consiglio,
che poi la sorte riduceva a dodici. In appresso i dodici ne nominavano
venticinque, che la sorte nuovamente riduceva a nove; i nove ne
nominavano quarantacinque, e questi erano dalla sorte ridotti ad undici,
i quali finalmente nominavano i quarantuno elettori del doge, che
dovevano eleggerlo colla maggiorità di venticinque suffragi[218]. Alcuni
scrittori risguardarono questa complicazione della sorte e dell'elezione
come una mirabile invenzione politica. Sarebbe per altro difficil cosa
il circostanziare i vantaggi proprj di così intralciata combinazione, e
forse que' medesimi che l'inventarono non seppero prevederne verun utile
risultato. Poteva con questo metodo eleggersi un doge di Venezia, perchè
doveva soltanto rappresentare e non agire: ma quando il capo dello stato
deve esercitare le funzioni di giudice, o di amministratore, o di
generale, con questo metodo non si otterrà che per accidente la scelta
del più degno.
[218] _Sandi Stor. Ven. p. I, t. II, l. IV, p. 630._
È cosa naturale che i Veneziani non si prendessero troppa cura delle
cose d'Italia, e che, tranne i pochi soccorsi dati all'armata crociata
contro Ezelino, non ci abbiano data occasione di parlare delle loro
guerre. Le conquiste che fatte avevano grandissime in Levante,
domandavano per conservarle sforzi tanto superiori ai loro mezzi, che
tutta l'attenzione dei capi della repubblica era rivolta a quella sola
parte. Abbiamo veduto nel precedente capitolo che Enrico Dandolo si era
stabilito in Costantinopoli, e che suo figliuolo, contro gli usi dello
stato, aveva avuta la facoltà di esercitare in Venezia le funzioni del
doge come suo luogotenente. Per altro, morto Dandolo[219], più non si
permise al suo successore di allontanarsi dalla capitale; fu incaricato
un altro magistrato, il balìo di Costantinopoli, di governare la
porzione di quella grande città che spettava alla repubblica, e la
colonia veneziana che vi si era stabilita. Questo magistrato prese come
il doge il titolo di signore di un quarto e mezzo dell'impero romano;
titolo che rendevasi ogni giorno più vano, imperciocchè dopo la morte di
Dandolo e di Enrico di Fiandra, i Greci avevano in ogni parte prese le
armi contro i Latini, e cacciatili da quasi tutte le loro conquiste,
chiudendoli, sto per dire, entro le mura di Costantinopoli. Pure quando
il pericolo si fece urgente, i Veneziani, come l'attestano due delle
loro cronache manoscritte, per non lasciar cadere il conquistato impero,
l'anno 1225 consultarono se fosse conveniente di trasportare a
Costantinopoli la sede della repubblica, sicchè, abbandonando le loro
lagune, tutta la nazione andasse a chiudersi in quella superba città, la
quale a stento potevano, stando così lontani, difendere: si racconta che
la proposizione non fu rigettata nel maggior consiglio che per la
maggiorità di due soli voti[220].
[219] L'anno 1205. Vedasi la Cronaca d'_Andrea Dandolo c. 3, p.
XLVII, p. 333 e c. 4_.
[220] Dietro la sola autorità del Sandi, _Stor. Civile p. 620_, cito
le due Cronache ms. Savina e Barbaro, ch'io non ho vedute. Dandolo,
Sanudo e Navagero non accennano questo fatto.
Le isole del mar Egeo, che quasi tutte erano cadute in potere della
repubblica, non esaurivano meno la nazione di gente o di danaro,
quantunque i suoi consigli punto non si occupassero della loro
amministrazione o della loro difesa. Erano queste state date in feudo a
dieci potenti famiglie, molte delle quali vi mantennero la loro signoria
fino al sedicesimo e diciassettesimo secolo. La repubblica sentendosi
troppo debole per sostenere sola tutti i suoi diritti, aveva abbandonate
le isole dell'Arcipelago ai particolari che ne facessero la conquista,
loro permettendo di reggerle colle leggi o _assise_ di Gerusalemme, che
l'impero di Costantinopoli aveva adottate[221]. L'isola di Candia in cui
Venezia più che in Costantinopoli aveva fatto il centro della sua
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