Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 05

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prigionieri, e tutti gli altri minacciati dello stesso destino, quando i
soldati di Pavia che militavano nel campo dell'imperatore, lo
supplicarono ad accordar loro la vita de' prigionieri. «Noi siamo
venuti, gli dissero, per far guerra ai Parmigiani, ma colle armi e sul
campo di battaglia, non per far il carnefice.» L'imperatore si lasciò
placare, e da quel punto il suo campo non fu più macchiato da così
odiose esecuzioni[80].
[80] _Chron. Parmense, p. 772._
Non era lontano l'inverno, e tutto annunziava che l'assedio non sarebbe
così presto ridotto a termine; onde Federico che non voleva scostarsi
dalla città ribelle, risolse, per assicurare alla sua armata più
tollerabili quartieri d'inverno, di fabbricare una città, cui diede il
nome di Vittoria, nella quale, poichè si fosse impadronito di Parma,
pensava di trapiantarne gli abitanti. Ne fece porre i fondamenti a
duecento passi da Parma lungo la strada che conduce a Piacenza. La fece
circondare di larghe fosse, dietro alle quali alzavansi bastie di terra
difese da palizzate: le porte avevano ponti levatoj, ed il canale, detto
_naviglio_, che scendeva da Parma fino al Po, fu sviato dal suo corso
per farlo entrare nelle fosse di Vittoria per girare i mulini. In pari
tempo i Saraceni ebbero ordine di trasportare alla nascente città i
materiali delle case distrutte nel territorio parmigiano[81].
[81] _Chron. Parmense, p. 773._
Mentre Federico occupavasi della fondazione di Vittoria, e che Enzo, suo
figliuolo, guardava la linea del Po, le città di Mantova e di Ferrara
allestirono una flottiglia carica di vittovaglie d'ogni sorta; e fattala
rimontare il fiume, mentre l'armata di terra cercava di forzare il ponte
custodito da Enzo, introdussero il loro convoglio per il fiume Parma
nella città.
(1248) Intanto l'imperatore allontanavasi spesse volte dall'armata, per
cacciare col falcone, poichè la cattiva stagione non gli permetteva di
muovere le truppe. La guarnigione di Vittoria erasi, durante l'inverno,
indebolita assai per essersi molti capi ghibellini recati alle loro
case. Avutosi di ciò sentore in città, il 18 febbrajo, i Parmigiani coi
Guelfi sussidiarj progettarono di attaccare improvvisamente la città di
Vittoria, mentre l'imperatore stava cacciando co' suoi falconi; e
l'assaltarono così bruscamente, che se ne resero ben tosto padroni
cacciandone gl'imperiali. Perirono in questo fatto molti Saraceni, quel
Taddeo Suessa che aveva tanto caldamente difesa la causa di Federico
innanzi al concilio di Lione, il marchese Lancia, ed altri assai
distinti personaggi; in tutto circa due mila, periti sul campo di
battaglia, e tre mila fatti prigionieri. Caddero in mano de' vincitori
il carroccio de' Cremonesi, il tesoro della camera imperiale ricco di
molto numerario, di corone, di giojelli, di vasi preziosi. La nuova
città fu incendiata in modo, che non rimase pietra sopra pietra.
Federico di ritorno dalla caccia incontrò i fuggiaschi e fu con loro
strascinato verso Cremona, inseguìto dai vittoriosi Parmigiani fino alle
rive del Taro[82].
[82] L'assedio di Parma viene circostanziatamente descritto nella
Cronica parmigiana _t. IX, p. 770 e seguenti_ — Vedasi inoltre
_Rolandini l. V, c. 21, p. 248. — Chron. Veronense t. VIII, p. 634.
— Monachi Patav. Chron. p. 683. — Chronic. Placent. t. XVI, p. 464.
— Memoriale potestat. Regiens. t. VIII, p. 1115. — Nicolai de Curbio
Vita Innocent. IV, § 26, p. 592. — Ghirardacci Storia di Bologna l.
VI, p. 169._
Non molto dopo questa disfatta Federico ebbe avviso che suo figliuolo
Corrado, cui aveva affidata l'amministrazione della Germania, era stato
più volte battuto da Guglielmo, conte d'Olanda, coronato dal partito
guelfo quale successore del langravio di Turingia, destinandolo alla
dignità imperiale tostochè ne fosse spogliato Federico. L'imperatore,
oppresso da tante calamità, chiese nuovamente la pace, interponendo i
buoni uffici di san Luigi. Questi stava per imbarcarsi con i crociati; e
siccome i Genovesi gli somministravano parte de' vascelli pel passaggio
del mare, Federico, per avvicinarsi a lui, andò fino ad Asti, offerendo
nuovamente la propria persona e le sue truppe per la difesa di Terra
santa, a condizione solamente che gli fosse accordata l'assoluzione; ma
l'inesorabile pontefice non voleva perdere verun frutto della sua
vittoria. Per altro tanta ostinazione non era senza pericolo; essendovi
alcuni, anche tra i signori francesi, che, compassionando le disgrazie
di Federico, disapprovavano la condotta del clero. Quattro grandi
feudatarj, il duca di Borgogna, quello di Bretagna ed i conti
d'_Angoulême_ e di _saint Paul_[83] convennero tra di loro di metter
limiti all'autorità giudiziaria che il clero aveva usurpata, e di
proteggere coloro che venissero colpiti dalla scomunica, qualunque volta
loro sembrasse ingiusta la sentenza degli ecclesiastici. «Non è già
colla predicazione evangelica, dicevano nel loro manifesto, che si fondò
sotto Carlo Magno l'impero de' Franchi, ma colla forza delle armi; oggi
coll'astuzia delle volpi, gli ecclesiastici, un tempo schiavi,
usurparono i diritti de' principi.» Tutta l'arroganza ed il fiele
d'Innocenzo IV sarebbero venuti meno, se questi signori, dando vigorosa
esecuzione al loro progetto, avessero forzato il papa a tornare in
Italia e ad avvicinarsi al pericolo. Ma alcuni degli alleati lasciaronsi
smuovere dalle scomuniche e dalla veemenza con cui Innocenzo eccitò
contro di loro tutto il clero di Francia; altri furono corrotti dai
regali e dai beneficj che Innocenzo seppe opportunamente spargere con
prodigalità tra le loro famiglie.
[83] _Paris. Historia Angliæ ad an. 1247_, p. 628. — _Raynaldi Ann.
Eccles. 1247, § 46, p. 574._
Sebbene Federico sentisse tutto il peso delle sue avversità, e
desiderasse la pace, non ommise di dare non dubbie prove del suo fermo
carattere allorchè stabilì il partito ghibellino nella repubblica di
Fiorenza. Questo partito era da lungo tempo in Toscana preponderante.
Pisa, la più potente città di questa contrada, era affatto ligia
all'imperatore; Siena, fiorente città che contava in allora nell'interno
delle sue mura undici mila ottocento famiglie, quasi fino dalla sua
origine erasi costantemente conservata fedele al partito; le meno
potenti città di Pistoja e di Volterra, e quasi tutti i feudatarj
trovavansi armati per la stessa causa; per ultimo ancora nelle città
considerate guelfe numerosi erano i Ghibellini e non esclusi dalle
cariche pubbliche.
Fiorenza era capo della lega guelfa che comprendeva Lucca, Montalcino,
Monte-Pulciano, Poggibonzi e un limitato numero di gentiluomini. Ma
quantunque Fiorenza facesse vivamente guerra agli abitanti di Siena, il
vicendevole loro odio prodotto da gelosia e da private ingiurie era
affatto indipendente dalla gran lite dell'Impero. Nè i Fiorentini eransi
apertamente dichiarati contro l'imperatore, riconoscendo anzi la
repubblica loro subordinata sempre alla legittima, ma limitata autorità
del monarca. Dopo la morte di Buondelmonti accaduta del 1215, la
repubblica non aveva potuto riconciliare le famiglie nobili che avevano
la maggior parte dell'amministrazione della città: si azzuffavano queste
frequentemente o presso le torri che ogni potente famiglia aveva
fabbricate, o in quattro o cinque delle principali piazze, nelle quali i
nobili d'ogni quartiere avevano erette delle fortificazioni mobili dette
_serragli_, che consistevano in barricate o cavalli di frisa con cui
chiudevasi parte della strada, e servivano a proteggere coloro che
combattevano. Alcune principali famiglie comandavano le barricate
innalzate al di fuori dei loro palazzi, e si affrettavano di chiuderle
quando nasceva qualche tumulto: gli Uberti, per modo d'esempio, i quali
avevano quello spazio oggi occupato dal palazzo vecchio, signoreggiavano
la strada che sbocca da questa banda sulla gran piazza; i Tedaldini
difendevano la porta di san Pietro, i Cattanei la torre del Duomo. Una
disputa qualunque per un affare pubblico o privato, un motto offensivo
incautamente pronunciato, metteva le armi in mano a tutta la nobiltà;
ognuno portavasi al suo luogo, e si combatteva contemporaneamente in sei
o sette parti della città; ma la sera cessava la rissa, e le parti
nemiche ritiravano tranquillamente i loro estinti: il giorno susseguente
era consacrato ai funerali; ed i valorosi Guelfi e Ghibellini
s'incontravano pacificamente, ed adunavansi ancora talvolta per
decretare la gloria dei combattimenti del precedente giorno a quello che
aveva date prove di maggior valore ed intrepidezza. Tutti uniti
sacrificavano egualmente le private loro nimistà alla gloria della
patria; e durante la guerra di Siena, nella quale i Fiorentini ebbero
molti vantaggi, niuno avrebbe potuto sospettare che la loro armata fosse
in parte composta d'ufficiali e soldati ghibellini.
Mentre trovavasi ancora all'assedio di Parma, Federico, per acquistare
maggiore influenza su questa repubblica, nominò suo vicario in Toscana
uno de' suoi figli naturali, Federico, re d'Antiochia, cui diede il
comando di mille seicento cavalli tedeschi. Nello stesso tempo scrisse
alla famiglia degli Uberti, la principale del partito ghibellino, per
muoverla a fare un generoso sforzo in di lui favore, cacciando i loro
antagonisti fuori di Fiorenza[84]. In fatti gli Uberti presero le armi,
ed i Guelfi si affrettarono di porsi in difesa delle loro barricate: ma
i Ghibellini non si curando di difendere i proprj trinceramenti si
unirono tutti alla casa degli Uberti, e rimasero facilmente vittoriosi
dei Guelfi d'un solo quartiere che si erano loro opposti. Marciarono poi
tutti uniti contro un'altra barricata guelfa, e la superarono colla
medesima facilità; ed inseguendo così di posto in posto i loro
avversarj, gli sconfissero dappertutto prima che potessero unirsi,
finchè arrivarono alle barricate dei Guidalotti e dei Bagnesi in faccia
a porta san Pier Scheraggio. Tutti i Guelfi della città sottrattisi alle
precedenti zuffe eransi adunati entro di queste barricate, e per tal
modo i due partiti trovaronsi in questo luogo con tutte le loro forze in
presenza l'uno dell'altro. Ma mentre durava la zuffa, trovando le porte,
secondo l'intelligenza, aperte, entrò in città Federico d'Antiochia,
alla testa di mille seicento cavalieri tedeschi. I Guelfi, dopo essersi
difesi quattro giorni contro i proprj concittadini e contro i Tedeschi
ne' loro trinceramenti, cedettero alla superiorità delle forze nemiche e
sortirono da Fiorenza tutt'insieme la notte della candelora, ritirandosi
o ne' loro poderi del contado, o ne' castelli di Montevarchi e di
Capraja, posti in Val d'Arno, dove si fortificarono di bel nuovo.
[84] La lettera credenziale di Federico d'Antiochia ai Fiorentini è
posta nel _l. III, c. 9, p. 409_ di quelle di Pietro delle Vigne.
I Ghibellini vittoriosi, rimasti padroni della città, atterrando tutte
le fortezze che fin allora avevano reso forte l'opposto partito,
pensarono di togliergli ogni speranza di ricuperare il perduto potere.
Trentasei palazzi colle loro torri furono in pochi giorni distrutti[85],
tra i quali primeggiava la torre de' Tosinghi sulla piazza di _mercato
vecchio_ tutta ornata di colonne di marmo, ed alta centotrenta braccia.
L'architettura militare era in allora il solo oggetto di lusso de'
Fiorentini; onde perirono in questa circostanza molte di quelle cose che
formavano il principale ornamento della città, ed una non piccola parte
della pubblica fortuna. E questo primo esempio dato dai Ghibellini di
far la guerra ai più sontuosi edificj non fu sventuratamente dimenticato
ne' susseguenti tempi dall'opposta fazione.
[85] Ricordano Malespini, _c. 137 e 139, p. 967_; quasi copiato _ad
litteram_ da Giovanni Villani nel _l. VI, c. 33 e 35, p. 179_. —
Mach. St. Fior. — L'Aret. St. Fior.
(1249) Non contenti dell'intero dominio di Fiorenza, i Ghibellini
volevano altresì disporre a loro arbitrio di tutti i castelli de'
Guelfi: onde in marzo del seguente anno assediarono Capraja, ove, dopo
l'esiglio da Fiorenza, eransi ritirate le famiglie de' loro avversarj.
L'istesso imperatore, rientrato in Toscana, si pose a Fucecchio, facendo
stringere Capraja con tanto vigore, che in capo di due mesi gli
assediati, non avendo più viveri, dovettero rendersi a discrezione.
Federico mandò nella Puglia quasi tutti i più distinti personaggi fatti
prigionieri a Capraja, e gli si dà colpa d'averne condannati molti alla
morte, altri alla perdita degli occhi.
Cacciati i Guelfi da Fiorenza, tutta la Toscana rimaneva a disposizione
di Federico: ma i suoi affari non procedevano in Lombardia ed in Romagna
con eguale fortuna; perchè i fuorusciti fiorentini, riparatisi in
Bologna e nelle vicine città, combattevano valorosamente contro il
partito imperiale. Il papa aveva spedito suo legato ai Bolognesi il
cardinale Ottaviano degli Ubaldini, per istimolarli a porre la Romagna
sotto il dominio della santa sede. Il giorno susseguente al suo arrivo,
il cardinale fu ammesso nel consiglio del comune, nel quale dal popolo e
dal prelato si fissò il piano della futura campagna. Era pretore di
Bologna Bonifacio di Cari, di Piacenza, che, uscito ne' primi giorni di
maggio con una bella e poderosa armata e col carroccio del comune, si
fece a guastare la parte del territorio modonese, posta al levante del
fiume Scultenna, ossia Panaro; occupò Nonantola, e spianò i forti di san
Cesario e di Panzano. Di là, passando all'altra estremità del distretto
bolognese, prese molte castella soggette ad Imola, che poi cinse
d'assedio.
Era Imola troppo vicina a Bologna per non soffrire dall'ingrandimento
d'una città rivale, ed aveva più volte fatto infelice esperimento della
inferiorità delle sue forze, onde sentiva di non potersi lungamente
sostenere. Altronde i Bolognesi non volevano toglierle la libertà e
l'indipendenza; ma chiedevano soltanto che si unisse al partito della
Chiesa, promettendole fedeltà. A tali condizioni i due podestà segnarono
tra le repubbliche un trattato di pace il 6 maggio del 1248, che fu
all'istante approvato dai due consigli generale e speciale, dai consoli
de' mercanti, dagli anziani del popolo e dai maestri dei collegi della
repubblica bolognese adunati dal podestà nel campo medesimo[86],
perciocchè la repubblica trovavasi tutta intera nell'esercito; la
sovrana podestà passando alternativamente dal podestà al popolo e dai
cittadini, diventati soldati, al magistrato loro generale.
[86] _Registro nuovo di Bologna, fol. 70 presso Ghirardacci, l. VI,
p. 172._
Dopo questo, l'armata bolognese marciò sopra Faenza, Bagnocavallo,
Forlimpopoli, Forlì e Cervia, le quali, non essendo caldamente attaccate
al partito ghibellino, lo abbandonarono, giurando fedeltà alla Chiesa ed
alla lega di Bologna.
(1249) Nel susseguente anno il cardinale Ubaldini faceva nuove istanze
alla repubblica bolognese perchè trattasse vigorosamente la guerra
contro gl'imperiali ora ridotti in basso stato; non avendo Enzio,
figliuolo naturale di Federico, nominato re di Sardegna e suo vicario in
Lombardia, che poche forze sotto i suoi ordini: di modo che, quantunque
Modena e Reggio fossero le sole città alle quali egli doveva
specialmente aver l'occhio, non aveva potuto impedire che varie loro
castella si dassero alla parte guelfa. I Bolognesi, determinati di
approfittare della presente debolezza degl'imperiali, offrivano al
marchese d'Este la carica di capitano generale dell'esercito alleato e
delle loro milizie; il quale, trovandosi allora infermo, mandava,
rifiutandola, in ajuto de' Bolognesi tre mila cavalli e due mila fanti.
L'armata bolognese era composta di mille cavalli, di ottocento uomini
d'arme e di tre tribù della città, cioè porta Stieri, porta san Procolo
e porta Ravegnana; la quale sortì in bella ordinanza preceduta dal
carroccio, e capitanata dal pretore Filippo Ugoni e dal cardinale
Ottaviano degli Ubaldini. Posti sufficienti presidj ne' più importanti
castelli di Nonantola, Crevalcore e Castelfranco, si avanzò fino al
Panaro contro i Modenesi, i quali, avuto sentore dei movimenti dei loro
nemici, ne avevano dato avviso al re Enzio, che, poste insieme
speditamente le truppe napoletane e tedesche lasciategli dal padre, le
milizie reggiane e cremonesi, gli emigrati di Parma, Piacenza e delle
altre città guelfe, formò un'armata di quindici mila uomini. Erasi
lusingato di trovarsi a fronte dei Bolognesi prima che passassero il
Panaro che scorre tre miglia al di là di Modena; ma giunto a Fossalta,
distante due miglia, seppe che i nemici avevano occupato il ponte di
sant'Ambrogio, e passato il fiume. Le due armate, sebbene si trovassero
in presenza ed in aperta campagna, non osarono, per alcuni giorni, di
venire alle mani essendo pressochè eguali di forze. Di ciò avutone
avviso il senato di Bologna fece marciare due mila uomini della quarta
tribù, detta di san Pietro, ordinando al pretore di venire a giornata
immediatamente. Perciò il 26 di maggio, in sul far del giorno, essendo
la festa di sant'Agostino, i Bolognesi attaccarono i nemici con un
movimento che fecero a sinistra, mostrando di volerli prendere alle
spalle dalla banda degli Appennini. Li ricevette valorosamente Enzio, il
quale aveva divisa la sua gente in due corpi di battaglia, ed in uno di
riserva, collocando in cadauno de' primi due metà de' suoi soldati
tedeschi, ne' quali assai fidava, onde sostenessero gl'Italiani; e
formando la riserva della sola milizia modenese. Dall'altro canto il
pretor bolognese aveva partito il suo esercito in quattro corpi: nel
primo trovavansi i pedoni ausiliarj del marchese d'Este e parte della
sua cavalleria, nel secondo il rimanente de' suoi cavalieri, e due mila
Bolognesi della tribù di san Pietro, ch'erano di fresco arrivati al
campo; componevano il terzo le milizie delle tre altre tribù ed
ottocento cavalli bolognesi; e nella quarta trovavansi le truppe scelte
sotto gl'immediati ordini dello stesso pretore consistenti in novecento
cavalli, mille cittadini e novecento arcieri a piedi. Questa divisione
che dimostra l'intenzione di economizzare le proprie forze, di condurle
successivamente alla battaglia, di sostenere con truppe fresche quelle
che si vedessero piegare in faccia al nemico, è una non dubbia prova de'
progressi che andava facendo l'arte della guerra. La battaglia si
mantenne vigorosa fino a sera, senza che si vedesse alcuno apparente
vantaggio dall'una o dall'altra banda. Enzio, caduto sotto il cavallo
ucciso, fu difeso da' suoi Tedeschi finchè fu rimesso in sella. Non
pertanto a notte già fatta i Ghibellini avevano cominciato a piegare in
modo, che si ruppe l'ordine della battaglia; onde inseguiti dai nemici,
molti perirono sotto i loro colpi, altri smarriti in una campagna,
tagliata da' profondi canali, trovaronsi separati dai loro amici e fatti
prigionieri. Furono di questo numero lo stesso re, Buoso di Dovara che
già cominciava ad essere potente in Cremona, e molti gentiluomini e
cittadini modenesi.
Il pretor bolognese, non volendo esporre a qualche impensato accidente
un prigioniere di tanta importanza qual era Enzio, si pose quasi subito
in cammino per condurlo a Bologna[87]. Allorchè giugneva presso al
castello d'Anzola incontrò le milizie bolognesi, che, prevenute
dell'accaduto, venivangli incontro per onorarne il trionfo colle
trombette ed altri strumenti. Da questa borgata fino alla città tutta la
strada era affollata di gente, curiosa di vedere tra i prigionieri il
principe Enzio, e per essere figliuolo di così potente imperatore, e
perchè re egli stesso. Oltre di ciò, la sua fresca età di venticinque
anni, i biondi dorati capelli che gli scendevano fin sopra i fianchi, la
gigantesca statura, la nobiltà del viso su cui vedevansi vivamente
espressi il suo coraggio e la sua sventura, tutto facevanlo oggetto
della universale ammirazione. Grande fu veramente la sua sventura,
perciocchè il senato di Bologna fece una legge, poi sanzionata dal
popolo, colla quale si vietava per sempre di concedere ad Enzio la
libertà, per grandi che fossero le offerte o le minacce del magnanimo
suo padre. In pari tempo la repubblica provvedeva nobilmente ai bisogni
dell'illustre prigioniere per tutto il tempo del viver suo, e lo
alloggiava in uno de' più magnifici appartamenti del palazzo del
podestà. Per lo spazio di ventidue anni, che tanti ne sopravvisse alla
sua disgrazia, i nobili bolognesi lo visitavano ogni giorno, onde
temperare in qualche modo i suoi mali, ma si mantennero egualmente
inaccessibili alle offerte od alle minacce di Federico[88].
[87] _Caroli Sigonii Histor. Bonon. Oper. omn. Edit. Palat. Mediol.
1733, 6 vol. fol. t. III, l. VI, p. 273-283._ Di qui ha preso il
Ghirardacci quasi tutte le particolarità della battaglia. _Sigonii
de Regno Ital. t. II, l. XVIII, p. 999-1005. — Ghirardacci Storia di
Bologna l. VI, p. 171-178. — Fra Bartolomeo della Pugliola, Cronica
di Bologna t. XVIII, p. 264. — Mathæi de Griffonibus Memoriale
Historicum de rebus Bonon. t. XVIII, p. 113. — Campi Cremona fedele
l. II, p. 57. — Memor. potest. Regiens. t. VIII, p. 1116. —
Ricobaldi Ferrar. Hist. Imper. t. IX, p. 131. — Chron. Fratr.
Francisci Pipini, t. IX, c. 35, p. 657. — Chr. Parm. t. IX, p. 775.
— Annal. Veter. Mutin. t. XI, p. 63. — Chron. Mutin. Johan. de
Bazano t. XV, p. 563. — Chron. Est. t. XV, p. 312. — Stor. de' Prin.
Esten. di Gio. Bat. Pigna l. III, p. 216._
[88] Abbiamo una lettera di Federico ai Bolognesi colla quale
ricordando le vicende della fortuna, chiede loro suo figlio, e li
minaccia in caso di rifiuto di tutto il suo sdegno. _Petri de Vineis
l. II, c. 34, p. 314._
Poi ch'ebbe posto l'illustre suo prigioniero in luogo di sicurezza, il
pretore accordò più settimane di riposo alle truppe; e solo ne' primi
giorni di settembre le condusse nuovamente nel territorio di Modena,
mentre i Parmigiani avevano convenuto di attaccare, dal canto loro, la
città di Reggio, onde queste due città ghibelline non potessero ajutarsi
a vicenda. La repubblica di Modena era di lunga mano più debole della
bolognese; e la sconfitta d'Enzio, e la lontananza di Federico
scoraggiato da tante sventure, facevano apertamente sentire ai Modenesi
che non potevano trovare salvezza che nel proprio coraggio. Si chiusero
perciò entro le proprie mura, mostrandosi lungo tempo insensibili ai
guasti del loro territorio, ed agl'insulti de' Guelfi accampati presso i
loro baluardi, finchè i Bolognesi li forzarono ad uscire dalle porte con
un'ingiuria creduta in allora tanto grave, che tutti gli storici
contemporanei la trovarono meritevole di particolare ricordanza. Essi
gettarono con una catapulta entro la città il cadavere d'un asino cui
avevano posti dei ferri d'argento, il quale andò a cadere appunto in
mezzo alla vasca della più bella fontana della città. Dopo tanta
ingiuria i Modenesi si credettero dal loro onore costretti ad uscire
contro ai nemici: resi dalla collera più valorosi, ruppero le file degli
assedianti, e giunti alla macchina fatale con cui erano stati insultati,
la fecero in pezzi e tornarono trionfanti in città.
Dopo tal fatto che poneva in sicuro il loro onore, si mostrarono meno
difficili ad ascoltare le oneste condizioni di pace che proponevano loro
i Bolognesi. Il trattato fu proposto al pretorio di Modena il 7 dicembre
del 1249, e fu esaminato dai maestri delle arti e dal consiglio
generale; poscia il 19 gennajo 1250 venne discusso in Bologna dai varj
consiglj, dagli anziani del popolo, dai consoli de' mercanti, e da tutti
i collegi, ed avendo ottenuta l'universale approvazione, le due nazioni
giurarono la pace sotto le seguenti condizioni: che il comune di Modena
si obbligava a conservarsi amico ed alleato di quello di Bologna, a
dargli ajuto contro i suoi nemici, nessuno eccettuato, come pure a
soccorrere il legato apostolico; prometteva inoltre di non far nuove
alleanze senza il consentimento del legato e della repubblica di
Bologna; di più richiamava tutti i fuorusciti della fazione degli Aigoni
(così chiamavansi in Modena i Guelfi), e li rimetteva in possesso de'
loro beni. I due partiti dei Grasolfi, o Ghibellini, e degli Aigoni, o
siano Guelfi, furono autorizzati a nominare il proprio podestà; ma gli
ultimi dovettero nominare un Bolognese. Dall'altra parte il comune di
Bologna rendeva a Modena tutte le terre conquistate nella presente
guerra, e si faceva mallevadore della pace tra le opposte fazioni; ed i
prigionieri furono dai due comuni fatti liberi senza pagamento di
taglia. Intanto il legato Ottaviano Ubaldini riconciliò Modena colla
Chiesa, togliendo l'interdetto in cui era incorsa da tanto tempo, e
permettendo la celebrazione dei divini uffici[89].
[89] _Ghirardacci Stor. di Bolog. l. VI, p. 176._ Questa è la guerra
che forma l'argomento del poema eroicomico di Alessandro Tassoni,
_la Secchia rapita_.
Mentre i Guelfi trionfavano nella Romagna e nella Lombardia, la parte
ghibellina otteneva non minori vantaggi nella Marca Trivigiana. Da che
Federico erasi, l'anno 1239, allontanato da Padova, Ezelino, come si
disse nel precedente capitolo, approfittando della ottenuta
indipendenza, faceva morire tutti coloro che credeva suoi nemici; ed
aveva in modo rassodata in tutta la Marca la sua tirannide, che appena
aveva più bisogno di riconoscere l'autorità imperiale. Egli incominciò
dall'attaccare le fortezze d'Agna e di Brenta, occupate dai fuorusciti
padovani, e resosene padrone, aveva fatti perire tutti quegl'individui
delle illustri famiglie dei Carrara e degli Avvocati, ch'eransi colà
riparati per sottrarsi alla sua crudeltà. Era in appresso entrato nel
territorio del suo capital nemico, il marchese d'Este, ed aveva, nel
periodo di dieci anni conquistate una dopo l'altra tutte quelle
fortezze, non escluse quelle di Montagnana e di Este, che pure si
credevano inespugnabili. Nel distretto di Verona erasi reso padrone del
castello di san Bonifacio, antico patrimonio di un'illustre famiglia da
più anni rivale della sua; aveva tolte molte terre alla città di Treviso
in allora governata da suo fratello Alberico da Romano, il quale pareva
che avesse abbracciato il partito guelfo: finalmente aveva a forza
occupate le piccole città di Feltre e di Belluno, che da molto tempo
eransi poste sotto la protezione di Biachin da Camino, gentiluomo
guelfo, che Ezelino spogliò affatto de' suoi dominj.
Ma nel tempo che il signore da Romano andava in tal modo dilatando il
suo dominio, giustificando con ciò il titolo che aveva preso di vicario
imperiale in tutti i paesi posti tra le Alpi trentine e l'Oglio, faceva
scorrere il sangue a torrenti in tutte le città a lui sottomesse, e con
una funesta esperienza insegnava agl'Italiani quale dev'essere un
tiranno che acquista signoria in un paese avvezzo alla libertà[90].
Farebbe orrore un troppo circostanziato racconto di tutti i suoi
delitti; il semplice annovero delle sue vittime non riuscirebbe
interessante che a coloro cui non ne sono sconosciuti i nomi, nomi
illustri solamente entro i confini della Venezia: ci limiteremo quindi a
scegliere in così vasta messe alcuni tratti bastanti a dare un'adequata
idea di quest'uomo crudele.
[90] Senza oppormi in generale al racconto dell'autore non devo
tacere che molte terre della Marca Trivigiana ebbero motivo di
lodarsi del breve dominio d'Ezelino. _N. d. T._
Del 1228 aveva Ezelino fatto prigioniere Guglielmo nipote di Tisone di
Campo san Piero, in allora fanciullo di pochi anni, e lo aveva fatto
educare nella propria corte. Era costui suo nipote; e morti essendo
Tisone e Giacomo di Campo san Piero, pareva che la nimicizia di Ezelino
contro questi due signori dovesse essersi spenta, ed aver ripreso il
debito vigore, i legami del sangue. Accadde tutt'all'opposto, che
Ezelino, l'anno 1240, fece sostenere il giovanetto Guglielmo sotto
pretesto di averlo come ostaggio: onde quattro dei signori suoi più
vicini parenti presentaronsi ad Ezelino come mallevadori di Guglielmo.
Vinto dalle loro preghiere lo rilasciò; ma Guglielmo, troppo giovane per
riflettere in mezzo al turbamento ed al terrore, ch'egli comprometteva i
suoi generosi amici, fuggì al suo castello di Treviglio che fortificò in
modo da non dover paventare un colpo di mano del tiranno. Ezelino fece
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