Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 16

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questo principe l'ufficio di senatore della loro città, che l'opposta
fazione aveva conferito a Manfredi. Pare che il solo motivo che li
movesse a dare questa carica a due monarchi, fosse vanità ed amor della
pompa: invece d'onorare uno de' loro eguali colla loro confidenza, si
credevano al contrario onorati trovando un re che volesse loro
comandare. Sebbene il papa avesse ragione di temere dell'influenza che
un principe potente acquistar potrebbe in Roma, se veniva ad esercitarvi
quella magistratura, aveva permesso però che fosse data a Carlo, perchè
sentiva troppo bene quanto tornerebbe utile a questo principe l'aver
Roma dipendente nella circostanza d'attaccare il regno. Frattanto sotto
comminatoria d'annullare il trattato d'investitura, il papa volle da
Carlo il giuramento di rinunciare alla dignità di senatore tosto che
avesse fatta la conquista delle due Sicilie, o soltanto della maggior
parte di quelle province, avendolo in prevenzione assolto del contrario
giuramento cui i Romani intendevano d'obbligarlo, quello di conservare
finchè vivesse la dignità senatoria[274]. Carlo impaziente d'avvicinarsi
agli stati che doveva conquistare, risolse di venire per mare a Roma,
onde prendervi possesso della dignità di senatore, senz'aspettare
l'armata destinata a combattere Manfredi.
[274] _Rayn. Ann. Eccl. 1264, § 3-8, p. 101. — Stor. Diplom. dei
Senatori di Roma t. I, p. 131._
Clemente IV, successore d'Urbano, aveva raffermata la missione in
Francia del cardinale di santa Cecilia, autorizzandolo, benchè non
l'avesse fatto il suo predecessore, a commutare in una crociata contro
Manfredi i voti di coloro ch'eransi crociati per liberare Terra santa.
Nè i motivi religiosi furono i soli mezzi che s'impiegassero in Francia
per unire una potente armata; anche considerabili leve di gente si
fecero nelle suddite contee d'Angiò e di Provenza. Beatrice prodigava i
tesori della sua ricca eredità per fare dei soldati a suo marito; e
Carlo, ricordando le passate vittorie sugl'infedeli, assicurava i più
ricchi feudi nelle due Sicilie a coloro che l'ajuterebbero a
conquistarle. Finalmente san Luigi che vedeva con piacere il suo caldo
ed inquieto fratello occuparsi fuori del proprio regno, lo provvide per
l'impresa di Napoli d'uomini e di denaro. Con tanti mezzi Carlo adunò
un'armata di cinque mila cavalli, di quindici mila pedoni e di dieci
mila balestrieri[275]. Ne diede il comando a suo genero Roberto di
Bethune, figlio del conte di Fiandra, cui san Luigi diede per
consigliere Giles le Brun, contestabile di Francia; e Guidi Monforte,
quarto figlio del conte di Leicester, che dopo la rotta di suo padre ad
Evesham erasi rifugiato in Francia, si unì con lui. Mentre la contessa
Beatrice disponevasi a scendere in Italia con quest'armata, Carlo, presi
con lui soli mille cavalieri, s'imbarcò a Marsiglia sopra una flotta di
venti galere, che vi aveva fatto allestire, e fece vela per le foci del
Tevere.
[275] _Annales Veteres Mutin. t. XI, p. 67._ Altri scrittori danno a
quest'armata maggior numero di combattenti. La cronaca di Bologna di
F. B. della Pugliola la porta a quaranta mila uomini, _t. XVIII, p.
276_; e la cronaca di Parma, _t. IX, p. 780_, la fa ascendere a
sessanta mila.
L'ammiraglio di Manfredi dopo aver cercato di chiudere la navigazione
del Tebro con palificate, erasi situato colla sua flotta presso le coste
dello stato della chiesa. Una terribile burrasca sopraggiunta mentre
Carlo attraversava il mar di Toscana fu la salvezza di quest'ultimo,
perchè costrinse la flotta combinata di Sicilia e di Pisa a prendere il
largo. Vero è ch'egli stesso non isfuggì alla violenza della tempesta, e
fu gittato con alcune galere verso Porto Pisano, ove poco mancò che non
fosse sorpreso dal conte Guido Novello, luogotenente di Manfredi in
Toscana. Rimessosi in mare, il suo vascello fu spinto dal vento verso la
foce del Tevere, onde entrato in una leggiera nave, rimontò con quella
il fiume, ed andò ad alloggiare quasi solo nel convento di san Paolo
fuori delle mura di Roma. L'inquietudine da cui fu preso, trovandosi
solo, e quasi tra le mani de' suoi nemici, cessò ben presto, perchè lo
sopraggiunsero le truppe che erano con lui montate sulla flotta. Il 24
maggio del 1265 fece alla loro testa il suo ingresso nella capitale del
mondo, in mezzo alle grida de' Romani che lo proclamavano loro
difensore[276].
[276] _Gio. Villani l. VII, c. 4, p. 227. — Storia dei Senatori di
Roma t. I, p. 140._
Passò il rimanente dell'anno prima che l'armata crociata, condotta dalla
contessa Beatrice, giugnesse in soccorso di Carlo, e questi approfittò
del presente ozio per negoziare col papa che risiedeva in Perugia. Le
prime relazioni furono miste di lagnanze e di rimproveri. Carlo avea
preso possesso del palazzo di Laterano per alloggiarvi con i suoi
cavalieri; ma Clemente ben tosto gli scrisse: «Tu hai fatta di tuo solo
capriccio e senza alcuna necessità un'azione che verun principe
religioso non avrebbe fin qui osato di fare, ordinando, in onta alla
decenza, alle tue genti d'entrare nel palazzo di Laterano.... Vogliamo
che tu lo sappia, e che sii persuaso che non sarà giammai per piacerci
che il senatore di Roma, qualunque siano la sua dignità ed i suoi
meriti, abiti l'uno o l'altro de' nostri palazzi della città.... A te
dunque s'appartiene, mio caro figliuolo, d'accomodarti senza dispiacere
al nostro volere. Cerca un'altra stanza per te in una città così
abbondante di palazzi, e non ti far già a credere che ti facciamo
sortire con disonore dalla nostra casa, quand'anzi noi pensiamo di
provvedere all'onor tuo»[277].
[277] _Perugia, addì 14 delle Calende di giugno, ap. Raynald.
Annales Eccles. 1265, § 12, p. 118._
Carlo si sottomise con docilità a questa riprensione, e pochi giorni
dopo il papa commise a quattro cardinali di porre sul capo del conte
d'Angiò, nella basilica di san Giovanni di Laterano, la corona dei regni
di Sicilia al di qua ed al di là del Faro, di consegnargli il gonfalone
della chiesa, di fargli prestare il giuramento d'osservare le condizioni
della sua investitura, della quale ne fu fatta lettura a tutto il
popolo, e di ricevere in nome del pontefice la promessa di vassallaggio
per tutti i paesi che avrebbe conquistati[278].
[278] _Raynaldus, 1263, § 13, p. 119._
Le principali condizioni annesse a questa investitura erano: l'eredità
per i soli discendenti di Carlo in ambo i sessi, ed in loro mancanza il
ritorno della corona alla Chiesa romana; l'incompatibilità della corona
di Sicilia con quella dell'impero, o col dominio della Lombardia o della
Toscana, l'annuo tributo d'un palafreno bianco e di otto[279] mila once
d'oro; il sussidio di trecento cavalieri mantenuti tre mesi ogni anno in
servigio della Chiesa; la cessione di Benevento e del suo territorio al
patrimonio di san Pietro; finalmente il preservamento di tutte le
immunità ecclesiastiche pel clero delle due Sicilie. In prevenzione fu
pronunciata la perdita d'ogni diritto sui due regni contro quel re
discendente di Carlo d'Angiò, che non sarebbe fedele mantenitore di
tutte l'espresse condizioni[280].
[279] 480,000 lire italiane.
[280] _Giannone Stor. Civ. del Regno di Napoli, l. XIX, c. 2, p. 679
e seg._
Intanto l'armata crociata si andava lentamente adunando in Borgogna, di
dove passò in Savoja, ed attraversate le Alpi, pel Monte Ceniso scese in
Piemonte in sul finire dell'estate del 1265[281]. Il marchese di
Monferrato, alleato della fazione guelfa e delle città di Torino e
d'Asti, lasciò libero il passaggio ai Francesi.
[281] _Gio. Villani l. VII, c. 4, p. 227._
Benchè il partito di Manfredi avesse avuta in Lombardia qualche perdita,
conservava però ancora una linea di città ghibelline che sembravano
tagliare ogni comunicazione tra l'Italia superiore e la bassa. Mastino
della Scala, potente cittadino di Verona, erasi coll'appoggio del
partito ghibellino reso padrone della sua patria; Brescia e Cremona
erano dipendenti dal marchese Pelavicino, che pure reggeva le città di
Piacenza e di Pavia. Pare che il marchese Pelavicino si fosse dapprima
posto in vicinanza delle due ultime città colle proprie truppe e con
quelle che gli aveva mandate Manfredi sotto gli ordini del marchese
Lancia; e che perciò l'armata de' crociati lasciasse la strada che
naturalmente dovea tenere da Asti a Parma. Pelavicino rimase nella sua
posizione con circa tre mila cavalli tedeschi e lombardi finchè i
Francesi furono nel Monferrato, e non ritornò verso il Nord a Soncino
che quando li vide entrare nel Milanese. Un'altra meno forte divisione
sotto il comando di Buoso da Dovara custodiva il piano del Nord del Po
ed il passaggio dell'Oglio. I Francesi non sapevano quale strada tenere,
quando Napoleone della Torre loro si fece incontro e li condusse a
traverso del Milanese fino a Palazzuolo sul territorio di Brescia, ove
dovevano passar l'Oglio. Il marchese Obizzo d'Este ed il conte di san
Bonifacio gli si affacciarono dall'opposta banda del fiume; onde Buoso
di Dovara, temendo d'essere avviluppato, non osò, o non fu in istato di
opporsi al passaggio dell'Oglio; e rimase chiuso in Cremona, mentre
l'armata guelfa s'avvicinò a Brescia, prese Montechiaro, sconfisse a
Capriolo l'armata di Pelavicino che gli era corsa incontro; indi per lo
stato di Ferrara entrò ne' paesi occupati dai Guelfi[282].
[282] _Ricord. Malesp. Hist. Fior. c. 178, p. 1000. — Chron. Astense
Gugliel. Venturæ c. 6, t. XI, p. 157. — Benevento da san Giorgio
Hist. Montisferrati t. XXIII, p. 390. — Chron. Parmen. t. IX, p.
780. — Chron. Placent. t. XVI, p. 473. — Manip. Flor. Galvan. Flam.
t. XI, c. 300, p. 693. — Ann. Mediol, c. 36, t. XVI, p. 665. —
Giorgio Giulini Memorie ec. l. LV, t. VIII, p. 211. — Campi Crem.
Fedele l. III, p. 75. — Gio. Bat. Pigna Stor. de' Princ. d'Este l.
III, p. 232. — Ghirardacci Stor. di Bologna l. VII, p. 208. —
Sigonius de Regn. Ital. l. XX, p. 1056._ Si accusò Buoso di Dovara
d'essere stato sedotto dall'oro di Gui di Monforte, e d'avere aperto
ai Francesi il passaggio dell'Oglio. Quest'accusa viene confermata
da Dante che pone Buoso nell'Inferno fra i traditori _C. XXXII, v.
113-117_; accusa per altro non giustificata nè dal carattere di
Buoso, nè dalla posizione delle armate. Per lo contrario pare che
non avesse sufficienti forze per fermare i Francesi.
L'armata francese giunta a Ferrara, invece di trovare opposizione lungo
la strada di Roma, incontrava dovunque nuovi rinforzi di Guelfi; prima i
quattrocento uomini d'armi de' fuorusciti fiorentini, poi i sudditi del
marchese d'Este e del conte di san Bonifazio, indi quattro mila
Bolognesi, strascinati dalle prediche del vescovo di Sulmona, presero la
croce contro Manfredi e si unirono all'armata francese, la quale arrivò
alle porte di Roma gli ultimi giorni dell'anno.
(1266) Carlo non aveva danaro per pagare così numeroso esercito; il papa
rifiutavasi di somministrarne, e forse non lo poteva[283]. Se il conte
d'Angiò differiva fino alla primavera ad avanzarsi contro al nemico, non
avrebbe potuto probabilmente impedire la diserzione della sua armata; si
pose perciò subito in cammino, prendendo la strada di Ferentino, onde
entrare nel regno per Ceperano e Rocca d'Arce.
[283] _Raynaldus Annales § 9, p. 133, ad annum._
Manfredi nulla aveva trascurato di tutto quanto poteva contribuire a
tenergli il popolo affezionato, e per eccitarlo ad una vigorosa difesa
aveva adunato presso Benevento un parlamento de' baroni e de' feudatarj
del suo regno, e gli aveva esortati ad armare tutti i loro vassalli per
la difesa delle proprie famiglie[284]. Aveva inoltre richiamate tutte le
truppe, prima mandate in Toscana ed in Lombardia, e spedito in Germania
per assoldare due mila cavalli. Aveva confidata al conte di Caserta, suo
cognato, la difesa del Garigliano nel luogo in cui presso Ceperano
questo fiume serve di confine a' suoi stati; aveva lasciata a San
Germano una forte guarnigione di Tedeschi e di Saraceni, ed egli
medesimo col grosso dell'armata trovavasi a Benevento. I Francesi
s'avanzavano verso il suo regno per la strada superiore, ossia di
Ferentino. Il conte di Caserta abbandonò vilmente il suo posto,
lasciando senza difesa il passaggio del Garigliano: la fortezza di Rocca
d'Arce, creduta inespugnabile, venne presa d'assalto, e quella di San
Germano cadde in potere del nemico dopo una battaglia nella quale la
maggior parte de' Saraceni fu tagliata a pezzi dai Francesi[285].
[284] _Sabas Malasp. Hist. Sicula l. II, c. 20-22, p. 816._
[285] _Sabas Malasp. Hist. Sicula l. III._
Se i Pugliesi avevano manifestato poco attaccamento al re e poco zelo
per la sua difesa quando le forze sembravano eguali, i primi successi
de' Francesi accrebbero la loro inclinazione alla ribellione, e la viltà
si nascose sotto l'esteriore del malcontento e della sedizione. Aquino e
tutti i castelli della contrada aprirono le porte al vincitore; le gole
delle montagne d'Alife furono abbandonate, ed egli penetrò senza
incontrar resistenza fino nella campagna di Benevento a due miglia da
questa città, presso alla quale Manfredi aveva adunata la sua armata.
Questo principe, che scopriva tra i suoi aperti indizj di tradimento e
di scoraggiamento, tentò di prender tempo ritardando la marcia di Carlo
con proposizioni d'accomodamento; ma a' suoi ambasciatori rispose il
conte in francese: «Andate, e dite al sultano di Nocera che io non
voglio che battaglia; e che questo giorno o io metterò lui all'inferno,
o egli manderà me in paradiso[286].»
[286] _Gio. Villani l. VII, c. 5, p. 129. — Ricordano Malespini Ist.
Fior. c. 179, p. 1001._
Il fiume Calore che scorre innanzi a Benevento divideva le due armate:
forse se Manfredi si fosse approfittato delle sue naturali
fortificazioni per evitare la battaglia, l'armata di Carlo, che già
mancava di vittovaglie, sarebbe stata ridotta a dure necessità, come
l'assicurano alcuni storici contemporanei; ma Manfredi non voleva
rimanere più oltre nell'avvilimento di andare rinculando in faccia ad un
nemico, cui ogni successo procacciava nuovi partigiani, e che fino
allora aveva sempre saputo procurarsi munizioni col saccheggio delle
campagne. Divise dunque la sua cavalleria in tre brigate: la prima di
milleduecento cavalli tedeschi, comandata dal conte Galvano; la seconda
di mille cavalli toscani, lombardi e tedeschi sotto gli ordini del conte
Giordano Lancia; e la terza comandata da lui medesimo era composta di
millequattrocento cavalli pugliesi e saraceni. Quando Carlo vide che
Manfredi disponevasi a combattere, si volse a' suoi cavalieri e disse
loro: «Venuto è il giorno, che tanto abbiamo desiderato;» poi fece
quattro corpi della sua cavalleria, il primo di quattro mila cavalli
francesi comandato da Gui di Monforte e dal maresciallo di Mirepoix; il
secondo diretto da lui medesimo era composto di novecento cavalieri
provenzali, ai quali aveva uniti gli ausiliarj di Roma; il terzo sotto
gli ordini di Roberto di Fiandra e di Giles le Brun, contestabile di
Francia, era formato da settecento cavalieri fiamminghi, brabantesi e
piccardi; finalmente il quarto, capitanato dal conte Guido Guerra, era
quello de' quattrocento emigrati fiorentini[287]. Questi corpi non
formavano tutti assieme che un'armata di tre mila lance, e Giovanni
Villani non ne dà un maggior numero a Carlo d'Angiò, forse per accrescer
gloria al suo eroe, facendolo vincere con minori mezzi. Calcolando però
le truppe che Carlo aveva condotte di Francia, e quelle che aveva
trovate in Italia, la sua armata doveva essere almeno più numerosa del
doppio.
[287] _Gio. Villani l. VII, c. 7, 8, p. 231._
Dall'una e dall'altra parte si cominciò la battaglia coll'infanteria, la
quale sebbene cogli sforzi suoi non potesse decidere della vittoria, non
però combatteva con minore accanimento. Gli arcieri saraceni passarono
il fiume, ed attaccarono con alte grida i Francesi sull'opposta riva.
L'infanteria europea che allora mancava egualmente d'appiombo e di
leggerezza non poteva resistere meglio ai volteggiatori, che alla
cavalleria, ed i Saraceni ne fecero da lontano colle loro frecce
un'orribile carnificina. Per sostenere la sua infanteria si mosse il
primo corpo di cavalleria francese gridando, _montjoie chevaliers_! Il
legato del papa li benedì in nome della Chiesa, assolvendoli da tutti i
loro peccati in ricompensa dei pericoli cui si esponevano pel servigio
di Dio. Gli arcieri saraceni non sostennero l'urto della cavalleria
francese, e ritiraronsi con perdita; ma la prima brigata della
cavalleria tedesca scese allora nel piano di Grandella per incontrare
nemici degni del suo valore[288]. Il suo grido di battaglia era _Souabe
cavalieri!_ In questo secondo incontro l'avvantaggio fu ancora di
Manfredi; ma ossia che i Francesi fossero più vicini al loro campo, o
che più rapide ne fossero le manovre, ricevevano sempre i primi i
rinforzi della seconda, terza e quarta linea, sicchè ogni volta
ristauravansi coll'arrivo di fresche truppe: e già combattevano tutti i
loro quattro corpi di cavalleria, quando non erano ancora venuti alle
mani che due di Manfredi. Si dice che questo principe conoscendo le
truppe guelfe fiorentine che combattevano valorosamente, gridasse
dolente: «Ove sono adesso i miei Ghibellini pei quali io feci tanti
sacrificj!.... Qualunque siasi la fortuna della giornata, questi Guelfi
possono oramai essere sicuri che il vincitore sarà loro amico.»
[288] _Sabas Malas. Hist. Sicula l. III, c. 10, p. 826. — Gio.
Villani l. VII, c. 8, p. 231. — Ricord. Malespini Stor. Fior. c.
180, p. 1002 e seg._ Guglielmo di Nangiaco, _Gesta S. Lud. IX Franc.
Regis_ descrive questa battaglia conformemente agli storici
italiani, e solo rimprovera Carlo di non avere sparso abbastanza
sangue e d'avere risparmiata una parte de' prigionieri. _In Duchesne
Hist. Franc. Script. t. V, p. 375, 378._
Frattanto nel caldo della mischia fu dato ordine ai Francesi di tirare
ai cavalli, ciò che tra i cavalieri era considerato come una viltà; e
per questa manovra i Tedeschi perdettero tutt'ad un tratto il vantaggio
che avevano sopra i Francesi. Manfredi vedendoli piegare esortò la linea
di riserva ch'egli comandava a sostenerli vigorosamente: ma appunto in
questo momento della crisi incominciò la diserzione dei baroni della
Puglia e del Regno: il gran tesoriere, il conte della Cerra, il conte di
Caserta, e la maggior parte de' mille quattrocento cavalli che non
avevano ancora combattuto, e che dando vigorosamente addosso a truppe
affaticate, avrebbergli ottenuta sicura vittoria, abbandonarono vilmente
il loro buon re; il quale, quantunque non si vedesse più intorno che un
piccolo numero di cavalieri preferì una generosa morte ad una vergognosa
esistenza[289]. Mentre allacciavasi il caschetto, un'aquila d'argento
che ne formava il cimiero, cadde sull'arcione del suo cavallo. _Hoc est
signum Dei_, disse a' suoi baroni: «Io avevo attaccato il cimiero colle
mie proprie mani, non è ora il caso che lo distacca.» Non avendo più
questo real segno che lo distingueva dagli altri, gittossi nonpertanto
in mezzo alla pugna, combattendo da bravo cavaliere; ma i suoi essendo
già rotti, non potè impedirne la fuga, e fu ucciso in mezzo a' suoi
nemici da un francese che non lo conosceva[290].
[289] _Gio. Villani l. VII, c. 9, p. 233 e seg._
[290] Questa battaglia si diede il venerdì 26 febbrajo del 1266.
Finchè si mantenne la battaglia, la perdita era stata eguale da ambo le
parti; ma dopo rotti, diventò immensa pei Ghibellini. I fuggitivi furono
inseguiti nella stessa città di Benevento, ove i Francesi entrarono in
sul far della notte. Colà furono presi i principali baroni di Manfredi,
e fra gli altri il conte Giordano Lancia e Pietro degli Uberti, che
Carlo mandò nelle sue prigioni di Provenza, ove li fece crudelmente
morire. Pochi giorni dopo furono dati in mano di Carlo la moglie di
Manfredi, sua sorella ed i suoi figliuoli, che tutti morirono nelle
prigioni[291] del feroce Carlo.
[291] La regina Sibilla moglie di Manfredi era sorella di un despota
della Morea, e figlia d'un Comneno d'Epiro. Ella ebbe da Manfredi un
figlio detto Manfredino, ed una figlia. Furono tutti presi a
Manfredonia mentre s'imbarcavano per passare in Grecia. _Mon. Patav.
l. III, p. 727._
Per tre giorni s'ignorò la sorte di Manfredi, che fu finalmente
riconosciuto da un suo domestico nel campo di battaglia. Il suo cadavere
fu posto sopra un asino e portato innanzi al nuovo re Carlo, che fece
subito venire tutti i baroni prigionieri per meglio assicurarsi che
fosse veramente Manfredi. Tutti lo affermarono spaventati; ma quando si
presentò il conte Giordano Lancia, e gli fu scoperto il volto di
Manfredi, battendosi il volto colle mani, e dirottamente piangendo: «O
mio Signore, gridò, che siamo noi diventati!» I cavalieri francesi
ch'erano presenti furono commossi da questo spettacolo, e chiesero a
Carlo di rendere almeno gli onori funebri al morto re: «Ben volentieri,
rispose, se non fosse morto scomunicato;» e con tale pretesto
rifiutandogli una terra sacra, fece per lui scavare una fossa presso al
ponte di Benevento. Pure ogni soldato dell'armata portò una pietra sopra
quest'umile sepolcro. E per tal modo fu innalzato un monumento alla
memoria di un uomo grande ed alla sensibilità d'un'armata vittoriosa. Ma
l'arcivescovo di Cosenza, quello stesso Pignatelli ch'era stato
incaricato delle negoziazioni coi re di Francia e d'Inghilterra, non
permise che le ossa di Manfredi riposassero sotto questo mucchio di
pietre; e dietro un ordine del papa le fece levare da questo luogo, che
apparteneva alla Chiesa, e gettare al confine del regno e della campagna
di Roma presso al fiume _Verde_[292].
[292] _Dante, Purgatorio cap. III, v. 124 e seg._
Lo stesso giorno della battaglia i Pugliesi si poterono accorgere con
quale giogo avevano cambiata l'autorità del loro principe, e di quale
natura sarebbe il governo de' Francesi. Il saccheggio del campo di
Manfredi, e le spoglie di tanti ricchi baroni trovati sul campo di
battaglia e fatti prigionieri, pareva che dovessero bastare all'avidità
de' soldati; ma quest'avidità andava crescendo a misura che il bottino
si faceva più grande. Benevento, benchè non si fosse opposta al
vincitore, venne abbandonata al saccheggio, e per lo spazio di otto
giorni i suoi abitanti trovaronsi esposti a tutti i mali che possono
aspettarsi dalla libidine, dall'avarizia e della brutale ferocia dei
soldati[293]. Questa sete di sangue che non sembra propria degli uomini,
e che pure talvolta provarono intere nazioni, fu la più ampiamente
soddisfatta. Non solamente gli uomini, le donne, i fanciulli, ma anche i
vecchi furono senza pietà scannati tra le braccia gli uni degli altri; e
Benevento, in fine di questa orribile carnificina, non aveva omai altro
che case deserte e lorde d'umano sangue[294].
[293] Il papa scrisse il 12 aprile 1266 una lettera appassionata a
Carlo, rimproverandogli il saccheggio ed il massacro de' Beneventani
sudditi della santa sede. Questa lettera non riportata da Raynaldo,
e nemmeno nella raccolta degli storici di Francia, o nelle lettere
dei papi relativi alla Sicilia, _t. V, p. 873_, trovasi in _Martene
Thesaur. Anegdot. t. II, Epist. Clem. IV, epist. 262. p. 306_.
[294] _Sabas Malaspina Hist. Sicula l. III, c. 12, p. 828._
Intanto presentavansi in folla a Carlo i baroni del regno e i deputati
delle città per giurargli ubbidienza e fedeltà. Quando si pose in
cammino per andare a Napoli, fu ricevuto in tutte le città quale signore
e legittimo re. Entrò trionfante in Napoli colla regina Beatrice, sua
consorte, dispiegandovi una pompa all'Italia ancora ignota. Adunò un
parlamento de' baroni del regno, che cercò di affezionarsi con affettata
affabilità. A tutti prometteva grazie, o per lo meno il perdono della
passata nimistà; ma al loro ritorno nelle proprie province faceva tenere
loro dietro quella folla di plebaglia francese che formava l'infanteria
della sua armata, la quale non aveva prese le armi, che per
saccheggiare. Carlo distribuiva ai cavalieri le baronie che aveva
confiscate a suo profitto, e divideva tra gli uomini d'un ordine
inferiore tutti gl'impieghi lucrosi. In pochi giorni si videro partire
dalla sua corte, per tutte le parti de' nuovi stati, numerose bande di
giustizieri, d'ammiragli, di comiti, d'ispettori de' porti, di
gabellieri, d'ispettori de' magazzini, di maestri del siclo, di maestri
giurati, di balivi, di giudici e di notai. A tutti gl'impieghi
dell'antica amministrazione aveva aggiunti tutti gl'impieghi
corrispondenti ch'egli conosceva in Francia, di modo che il numero de'
pubblici funzionarj era più che duplicato. Fieri delle nuove loro
dignità, ignorando come il loro padrone la lingua del paese, e
sprezzando i costumi nazionali, questi plebei, diventati potenti,
scorrevano le province e le spogliavano. Ovunque pretendevano di essere
accolti come vincitori, ovunque manifestavano il più alto disprezzo per
la nazione suddita. I loro viaggi consumavano i popoli, e la loro dimora
diventava ancora più ruinosa; perciocchè portavano seco i registri di
tutte le imposte in vigore sotto Manfredi; di tutte quelle che Manfredi
aveva abolite o surrogate ad altre; di tutte quelle che nelle urgenti
circostanze alcuni cattivi re avevano alle volte tentato d'imporre ai
loro popoli. Eransi coll'andare del tempo introdotte molte riserve e
privilegi; molte contribuzioni non costavano al popolo il valore
nominale; Carlo le fece tutte riscuotere a rigore, e riformò come abuso
una tolleranza che altro non era che un beneficio de' passati re. Così
que' medesimi che avevano tradito Manfredi, quelli ch'eransi immaginati
di trovare sotto la protezione della chiesa e d'un re guelfo una pace ed
una prosperità inalterabile, versavano amare lagrime sulla morte del
principe di Svevia, ed accusavansi con profondo dolore d'incostanza,
d'ingratitudine e di viltà[295].
[295] _Sabas Malasp. l. III, c. 16, p. 831._ La testimonianza di
questo scrittore merita piena fede, perchè coetaneo e guelfo, e
creatura di Carlo.
Clemente IV, avvisato delle vessazioni che si commettevano in nome di
Carlo, si credette in dovere di proteggere il popolo contro quel re
ch'egli stesso aveagli dato. «Se il tuo regno, gli scriveva, viene
crudelmente spogliato dai tuoi ministri, tu ne sei incolpato a ragione,
poichè tu hai riempiuti i tuoi ufficj di ladri e di assassini che
commettono ne' tuoi stati azioni di cui Dio non può sostenerne la
vista.... Essi non temono di macchiarsi con ratti, con adulterj, con
ingiuste esazioni, e ladronecci... Come potrei io mai compatire la tua
pretesa povertà! Tu non puoi, o non sai vivere in un regno colle di cui
entrate un uomo eccelso, Federico, già imperatore de' Romani, suppliva a
maggiori spese che le tue, saziava l'avidità della Lombardia, della
Toscana, delle due Marche e della Germania, ed inoltre accumulava
immense ricchezze[296].»
[296] _Martene Thes. Anegd. t. II, epist. 530. Clem. IV, p. 524._
La vittoria di Carlo d'Angiò che portava la desolazione nelle due
Sicilie, cagionava in Toscana e specialmente in Fiorenza sensazioni
affatto diverse. Il conte Guido Novello, capitano della gente d'armi di
Manfredi, comandava in questa città; e perchè aveva sotto i suoi ordini
mille cinquecento cavalli tedeschi o italiani, perchè i Guelfi erano
esiliati, perchè tutte le città toscane, dopo la battaglia di Monte
Aperto, eransi unite alla sua parte, egli poteva ancora conservare la
sua autorità malgrado la caduta e la morte di Manfredi. Ma stava contro
di lui l'opinione del popolo, il quale era affezionato alla parte guelfa
ed esacerbato non solo dalla persecuzione mossa contro i capi di quella
fazione, ma ancora dalla perdita della sua libertà; poichè sotto il
governo del conte Guido eransi a poco a poco abolite in Firenze quasi
tutte le prerogative d'una repubblica. Quando si ebbe notizia della
battaglia della Grandella, il popolo diede manifesti segni della sua
gioja per la morte di Manfredi; gli esiliati si avvicinarono alla città,
cercarono di sorprendere alcune castella e di legare corrispondenza
cogli abitanti della città onde far nascere qualche congiura.
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