Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 20

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altrettanto: ed uno de' fratelli ferì nel cuore l'infelice Bonifacio con
uno di que' pugnali avvelenati di cui i Saraceni ne avevano introdotto
l'uso, e di cui in questa epoca il vecchio della montagna soleva armare
i suoi terribili assassini. I Lambertazzi nascosero sotto alcuni rottami
in un cortile abbandonato il cadavere dello sventurato giovane; ma
appena ritiratisi, Imelda seguendo le tracce del sangue sparso, scoprì
il corpo dell'amante. La sola cura che desse qualche speranza di guarire
le ferite avvelenate era quella di succhiare la piaga ancora sanguinosa.
In tal modo tre anni prima Edoardo d'Inghilterra era stato salvato
dall'amore della tenera Eleonora. Un avanzo di vita pareva ancora
animare il corpo di Bonifacio: Imelda diede cominciamento al suo triste
ministero, e dalla ferita del suo amante succhiò un sangue avvelenato,
che portò nel suo seno i semi d'una subita morte. Quando sopraggiunsero
le sue donne giaceva di già senza vita a lato al cadavere del troppo
amato giovane[354].
[354] _Ghirardacci Istoria di Bologna l. VII, p. 224._
Dopo tale avvenimento l'odio de' Lambertazzi e dei Geremei più non potè
essere contenuto dalle leggi: s'allearono coi popoli prima nemici della
loro patria; i Geremei coi Modonesi, i Lambertazzi cogli abitanti di
Faenza e di Forlì; e volendo pure far adottare dalla loro patria le loro
nimicizie, o le loro alleanze, i Geremei condussero sulla pubblica
piazza il carroccio, in segno d'una vicina spedizione contro le città di
Romagna, ed i Lambertazzi gli attaccarono. Per lo spazio di quaranta
giorni le due fazioni s'azzuffarono continuamente sulla piazza
principale o intorno ai palazzi fortificati dei capi delle fazioni
nemiche. Finalmente, dopo avere versato molto sangue, i Geremei
s'impadronirono di tutte le fortezze dei Lambertazzi, i quali furono
costretti di sortire di città coi loro amici e con tutto il partito
ghibellino. Giammai in alcuna guerra civile fu spinto più lontano
l'abuso della vittoria: dodici mila cittadini furono colpiti da una
sentenza d'esilio, confiscati i loro beni; e le loro case, dopo essere
state abbandonate al saccheggio, furono atterrate[355].
[355] _F. Francisci Pipini Chron. l. IV, c. 7 e 8, t. IX, p. 716. —
Cherub. Ghirardacci Stor. di Bologna l. VII, p. 226. — Mathæi de
Griff. Memor. Hist. t. XVIII, p. 123. — Cronica di Bologna di F.
Bartol. della Pugliola t. XVIII, p. 285._
Frattanto i Lambertazzi si afforzarono, del 1275, nelle città di Romagna
ove eransi rifugiati, e specialmente a Forlì ed a Faenza. I Ghibellini,
perseguitati presso che in tutta l'Italia, si unirono intorno ai
Lambertazzi; il conte di Montefeltro si pose alla loro testa, ed
acquistò quella riputazione di grande capitano di cui godè in seguito
presso tutte le città d'Italia. Due volte nel 1275 ruppe i Geremei ed i
Guelfi presso il ponte di san Procolo, e fece due volte tremar Bologna,
che fu in procinto di venire in mano de' Ghibellini. Onde, per
assicurarsi dalle loro intraprese, chiese soccorso al re Carlo, il quale
l'anno 1276 le mandò per governatore Riccardo di Beauvoir, signore di
Durford, con alcune compagnie d'uomini d'armi.
La Toscana parve tutt'intera riunita alla parte guelfa; la repubblica di
Siena erasi affatto abbandonata al governo di questa fazione; e quella
di Pisa, datasi a Carlo, aveva ottenuta l'assoluzione della chiesa: ma
durante il viaggio del papa in Francia, si riaccese la guerra tra questa
città ed i Guelfi; ed in pari tempo scoppiò nella repubblica di Pisa
quella intestina discordia che dodici anni più tardi condusse a crudel
morte il troppo famoso conte Ugolino co' suoi figliuoli.
Nel tredicesimo capitolo abbiamo indicata l'origine delle fazioni che
sotto nome de' Conti e de' Visconti lacerarono la città di Pisa. Abbiamo
detto che i Visconti, signori d'una parte della Sardegna, e soprattutto
di Gallura, avevano fatto omaggio del loro principato al papa per
rendersi indipendenti della repubblica, ed avevano poi chiesta la
protezione della chiesa contro la loro patria e contro il re Enzo,
figliuolo di Federico II. Abbiamo altresì detto che i conti della
Gherardesca e di Donoratico, caldi partigiani dell'imperatore, avevano
riclamato più fortemente degli altri contro l'affettata indipendenza de'
loro rivali; indipendenza che qualificavano di ribellione contro la
repubblica. Dopo quest'epoca, i Visconti conservaronsi attaccati alla
Chiesa; e perchè il contrario partito dominava in Pisa, per l'ordinario
risedevano nella loro giudicatura o principato di Gallura. All'opposto i
Gherardeschi avevano in ogni occasione dato prove del loro attaccamento
al partito ghibellino, servendo sotto Manfredi; e due di loro seguendo
Corradino nella sventurata sua spedizione, gli erano stati fedeli
compagni nella prospera come nell'avversa sorte, finchè presi in Astura
con lui e col duca d'Austria, perirono insieme sullo stesso palco. Però
un altro dei conti Gherardeschi, Ugolino, diventato capo della sua
famiglia per la morte de' due precedenti, sembrava meno disposto ad
assecondare l'attaccamento disinteressato de' suoi padri al proprio
partito, o i doveri d'una vendetta di famiglia, che gl'interessi della
sua ambizione. Aveva perciò data sua sorella per consorte a Giovanni
Visconti giudice o sovrano di Gallura, formando in tal modo un legame di
cognazione tra i capi delle opposte parti. Non già che con ciò
apertamente rinunciasse al partito ghibellino; ma solo sforzavasi colle
sue pratiche d'assodare presso le due opposte fazioni il suo potere, e
farsi strada alla tirannide.
Dal canto suo Giovanni di Gallura era tornato a Pisa quando questa città
si riconciliò colla Chiesa, ma vi aveva portati i costumi e le abitudini
di un capo d'una semibarbara tribù della Sardegna. Era sempre circondato
di soldati e di clienti, e perchè non era stato a costoro permesso di
vivere entro le mura della città, egli gli aveva sparsi ne' castelli di
confine, e specialmente a Calci, ove un'antica disputa tra i borghesi
faceva accogliere da un partito queste bande indisciplinate.
I migliori cittadini di Pisa, e più di tutti gli antichi capi del
partito ghibellino, i Gualandi, Sismondi e Lanfranchi, erano egualmente
inquieti e della rivalità del conte Ugolino col giudice di Gallura, come
della loro alleanza. Per altro non volendo rompere la pace di Toscana, o
dar motivi di scontento al re Carlo ed ai Fiorentini, credettero che la
repubblica dovesse mostrarsi assolutamente imparziale ne' suoi giudicj,
ed allontanare ad un tempo que' turbolenti cittadini che sprezzavano le
leggi, qualunque fosse il partito cui erano addetti. Il 24 giugno 1274
il giudice di Gallura fu esiliato co' suoi principali compagni d'armi,
ed il conte Ugolino fu tenuto prigione nel palazzo del popolo[356]. Il
primo andò a dirittura a Firenze, e fingendo che i Pisani non lo
perseguitassero che in odio del partito guelfo, ottenne d'essere
accettato nell'alleanza de' Guelfi toscani. Allora colle milizie
fiorentine e lucchesi venne ad assediare il castello di Montopoli, di
cui s'impadronì nel mese d'ottobre. Ma, mentre continuava ad offendere
la sua patria, morì a san Miniato in maggio del susseguente anno,
lasciando un figliuolo chiamato pure Giovanni, che per distinguerlo dal
padre fu poi detto Nino di Gallura. Questo giovane, nipote per parte
della madre del conte Ugolino, fu in avvenire tra i Pisani il capo del
partito guelfo.
[356] _Guido de Corvaria Frag. Hist. Pisanæ t. XXIV, p. 682._ — Non
volevasi allora esiliare il conte Ugolino perchè tutte le città
toscane essendo governate dai Guelfi, sarebbe stato un darlo in
potere de' suoi nemici.
Questa parentela rese il conte ancora più sospetto ai Ghibellini che
governavano Pisa, onde fu esiliato in luglio del 1275. Passò subito a
Lucca, e si unì ai Guelfi, come aveva fatto il giudice di Gallura[357].
Frattanto Pisa, snervata dall'abbandono dei capi delle due fazioni,
trovavasi troppo debole per tener fronte all'intera Toscana contro di
lei congiurata, a' suoi proprj emigrati ed alle truppe del re Carlo. I
Pisani furono la prima volta battuti ad Asciano, ove perdettero molta
gente; poi l'anno susseguente a Fosso Arnonico; onde si videro costretti
a ricevere di nuovo in città tutti gli esiliati, loro accordando la
principal parte del governo. Ma Ugolino che non solo erasi alleato coi
nemici della sua patria, ma ancora con quelli della sua fazione e della
sua famiglia, non potè mai più purgarsi da questa taccia agli occhi de'
suoi concittadini. Lo stesso anno (1276) in cui fu richiamato, Ruggero
degli Ubaldini, uscito da una famiglia di Muggello, ch'era sempre stata
ghibellina, venne promosso all'arcivescovado di Pisa[358]. Egli era
quello che del 1288 doveva fare crudelmente pagare al conte Ugolino la
pena de' suoi tradimenti.
[357] _Guido de Corvaria Fragm. Hist. Pis. p. 684. — Gio. Villani l.
VII, c. 46, p. 265._
[358] _Guido di Corvaria Fragm. p. 686._
Intanto, dopo la morte di Gregorio X, tre papi governarono la Chiesa
nello spazio di dodici mesi: Innocenzo V, Adriano V e Giovanni XXI. La
breve ed incerta loro amministrazione non lasciò tracce degne
dell'istoria; ma durante il loro regno nel Nord dell'Italia una
rivoluzione abbattè la famiglia della Torre in Milano, sostituendovi
quella de' Visconti che ben tosto soggiogò tutta la Lombardia.
Il capo della famiglia della Torre era stato già da più anni creato
anziano perpetuo del popolo milanese; ed in tale qualità esercitava
sopra Milano e sulle vicine città una quasi assoluta autorità. Fino dal
1265 Napoleone della Torre era stato rivestito di tale dignità, ed egli
aveva divise tra i suoi fratelli ed i più prossimi parenti le principali
cariche dello stato. A Raimondo della Torre, altro de' suoi fratelli,
Gregorio X aveva accordato il patriarcato d'Aquilea, che allora
risguardavasi come il più ricco beneficio d'Italia: e tale era la
potenza di questa casa, che, oltre le truppe del comune di Milano,
poteva colle proprie sue forze mettere in piedi millecinquecento
cavalieri[359]. I della Torre tenevano in esilio Ottone Visconti, eletto
arcivescovo di Milano, che erasi posto alla testa de' nobili e de'
Ghibellini esiliati; le perpetue loro guerre con questi fuorusciti
avevano esauriti i loro tesori, che avevano poi cercato di rifare con
gravissime imposizioni, le di cui esazioni avevano indisposto quel
popolo, dai della Torre in altri tempi protetto contro i nobili. Pure
finchè durò il pontificato di Gregorio X, siccome questo pontefice non
voleva che alcuna rivoluzione ritardasse la crociata da lui meditata,
non aveva mai dato verun appoggio all'arcivescovo Ottone per metterlo in
possesso d'una sede, cui era stato canonicamente eletto; e questo
arcivescovo, sostenendo solo la guerra alla testa de' gentiluomini
piuttosto come un condottiere che come un prelato, era stato chiamato
per una continuata serie di romanzesche avventure a dar prove ad un
tempo di pazienza e di coraggio.
[359] _Gio. Villani l. VII. c. 51, p. 268._
Nell'anno 1276 che tre papi erano stati successivamente rapiti alla
santa sede quando appena vi erano ascesi, Ottone si rese forte ed
audace. Alleatosi col marchese di Monferrato, formò un corpo di emigrati
milanesi, cui aggiunse alcuni cavalieri spagnuoli, che Alfonso X aveva
mandati in Lombardia, quando credeva di far valere i suoi diritti
all'Impero. In sul finire di quest'anno, sebbene Ottone avesse avuto
qualche rovescio, trovavasi in possesso di Como e di alcuni castelli
vicini al lago. In gennajo del 1277 s'impadronì di Lecco e di Civate, e
s'avanzò, attraversando la Martesana, verso Milano. Napoleone della
Torre gli andò incontro co' principali signori della sua famiglia e con
circa settecento cavalli; ma perchè trattavasi d'un nemico più volte
vinto, non si tenne abbastanza in guardia, e passò la notte del 20 al 21
gennajo a Desio senza assicurarsi da una sorpresa.
Nel cuore della notte l'arcivescovo introdotto da' suoi seguaci nella
terra di Desio, attaccò mentre dormivano i suoi nemici. Francesco della
Torre ed Andreotto, suo nipote, e Ponzio degli Amati, podestà di Milano,
furono uccisi: Napoleone fu fatto prigioniero con cinque de' suoi
parenti, e perchè era caduto in mano de' Comaschi, questi per vendicarsi
d'un eguale trattamento ch'egli aveva fatto ad alcuni loro compatriotti,
posero i sei prigionieri in tre gabbie di ferro.
Due signori della Torre, Gastone, figliuolo di Napoleone, e Goffredo,
essendo ancora liberi a Cantù ove comandavano un corpo di cavalleria,
corsero a Milano per chiamare il popolo a prendere le armi ed a liberare
i loro parenti; ma il popolo, informato della disfatta de' Torriani, si
era di già rivoltato contro di loro, e ne saccheggiava le case, intorno
alle quali aveva palificate le strade. Gastone e Goffredo cercarono,
scorrendo quelle medesime strade, di sedare il tumulto, ma i sassi
cadevano loro addosso per ogni parte[360]. Intanto i cittadini armati
concorrevano al _Broletto vecchio_ e risolvevano di mandare deputati
all'arcivescovo Ottone per dargli avviso che i Milanesi lo avevano
creato signore perpetuo della loro città e per invitarlo ad entrarvi.
Per la qual cosa i Torriani, non vedendosi sicuri, sortirono dalia
città, pensando di ritirarsi a Lodi o a Cremona; ma queste due città già
loro soggette non vollero riceverli, e solamente in Parma trovarono essi
un asilo sicuro.
[360] _Memorie del conte Giulini, l. LVI, t. VIII, p. 232, 304. —
Corio Stor. di Milano, p. II, p. 123, 138. — Ann. Mediol. t. XVI. c.
39-49, p. 667, 676. — Galv. Flammæ Manip. Flor. t. XI, c. 302-313,
p. 694-705._
In tal maniera fu fondata la sovranità della casa Visconti sopra i
Milanesi, e ben tosto sul restante della Lombardia[361]. Questa era già
una dinastia che succedeva ad un'altra: i Torriani che si erano
innalzati come demagoghi, vi avevano introdotte delle costumanze
monarchiche, abbassando la nobiltà e scacciandola dalla patria. Quando i
Visconti entrarono alla testa della medesima nobiltà lungo tempo
proscritta, minata e resa mercenaria, trovarono il popolo corrotto dalla
servitù ed i grandi snervati dall'esilio. Più non eravi nella nazione
spirito d'indipendenza, carattere elevato, nè amore di libertà: e
perciò, quantunque si mantenessero ancora lungo tempo in vigore e
consigli repubblicani e società popolari, essendo mancato quello spirito
di vita che avrebbe dovuto animarli, non furono di ostacolo alle
usurpazioni del nuovo signore, il di cui potere si trasmise da padri
virtuosi a figliuoli perduti ne' vizj, o affatto inetti, senza che però
la nazione cercasse mai di riprenderlo, o che i Milanesi, quand'ancora
attaccarono la famiglia Visconti, pensassero a riporsi in libertà.
[361] _Trist. Calchi Med. Historiog. Hist. Patriæ, l. XVII, apud
Guer. Thes. t. II, p. 365. — Georgii Merulæ Antiq. Vicecom. l. V, p.
90, apud Guerium t. III. — Pauli Jovii Novocom. Vitæ XII, Vicecom.
Otho. p. 267, ap. Grav. t. III._
In questo stesso anno i cardinali diedero per capo alla Chiesa Giovanni
Gaetano degli Orsini, che si fece chiamare Nicolò III. Questo pontefice
apparteneva ad una delle più illustri famiglie di Roma: aveva la
fierezza e l'ambizione convenienti alla sua nascita; e benchè il suo
carattere fosse meno puro di quello di Gregorio X e meno disinteressata
la sua condotta, benchè si occupasse dell'ingrandimento della sua
famiglia o della santa sede, e giammai del bene generale del
cristianesimo; pure egli contribuì più che Gregorio X al ristabilimento
della libertà in Italia, perchè meno di lui impegnato nell'impresa di
Terra santa, sentì che bisognava ristabilire nella propria patria
quell'equilibrio che i suoi predecessori avevano distrutto, ed abbassare
la potenza di Carlo da loro troppo innalzata.
Carlo era in allora assoluto sovrano delle due Sicilie, senatore di
Roma, vicario imperiale in Toscana, ove più non contavasi una sola città
che non fosse a lui subordinata; governatore di Bologna, e come tale
signore di tutte le città guelfe della Romagna; protettore del marchese
d'Este, e perciò onnipossente per mezzo suo nella Marca Trivigiana;
signore di molte città del Piemonte e prossimo ad opprimere le altre,
alle quali faceva già la guerra. Nicolò III con un'accortezza singolare
approfittò della grande potenza di questo re, che dicevasi tuttavia
vassallo della Chiesa, per far desiderare all'imperatore Rodolfo la sua
amicizia. Quand'ebbe in questa guisa contratta alleanza coll'Impero,
vendette a Carlo la sua protezione presso l'imperatore a prezzo
d'importantissime concessioni: in seguito la moderazione del re di
Sicilia si diede a Rodolfo come regola di condotta, ed il pontefice
ottenne in tal modo di determinare, uno col mezzo dell'altro, i due
sovrani rivali ch'egli temeva, a spogliarsi in suo favore delle
prerogative che gli avevano resi formidabili.
Rodolfo dava voce di venire presto a Roma a prendere la corona
dell'Impero, e già stava apparecchiando l'armata che doveva
accompagnarlo; ma in pari tempo lagnavasi di Carlo perchè avesse
usurpati i suoi diritti su quasi tutta l'Italia, intitolandosi vicario
imperiale, quando niun imperatore gli aveva accordato questo titolo.
Rodolfo accoglieva i Ghibellini, che, perseguitati in ogni parte
d'Italia per la causa dell'Impero, affrettavansi d'adunarsi intorno al
nuovo imperatore. Sebbene non avesse questi dichiarata la guerra al re
di Sicilia, si prevedeva che l'imminente sua spedizione sarebbe contro
di lui diretta. Di che mostrandosi Carlo timoroso, Nicolò si diede
premura d'intromettersi tra i due monarchi per riconciliarli, predicando
loro moderazione.
Rodolfo era tanto più da temersi, che era uscito vittorioso da una
pericolosa guerra con Ottocarre di Boemia, nella quale questo principe
aveva perduta la vita; e che aveva conquistati colle sue truppe ed uniti
a' suoi stati i ducati d'Austria, di Stiria e di Carinzia. Carlo che
temeva la potenza ed il valore di questo imperatore, non poteva far
valere alcun diritto sulla Toscana e sulla Lombardia, che pure erano
l'argomento della loro controversia; poichè in forza ancora della sua
bolla d'investitura e del giuramento che accompagnava il suo
vassallaggio verso la santa sede, egli aveva convenuto che queste
province non potrebbero essere mai possedute dal re delle due Sicilie, e
ch'egli erasi obbligato a rinunciare al vicariato di Toscana ed al
senatorato di Roma qualunque volta il papa lo richiedesse. Nicolò III
fece questa domanda come necessaria condizione della pace, ch'egli
trattava tra Carlo e Rodolfo, ed il 16 di settembre del 1278 Carlo
depose l'ufficio di senatore di Roma[362]; rinunciò al vicariato di
Toscana; richiamò le sue truppe da questa provincia, e rese al cardinal
Latino, incaricato dal papa di far eseguire questa promessa, tutti i
castelli in cui teneva guarnigione, tutti gli ostaggi ch'egli erasi
fatti dare dalle città. Supponeva il papa che in tali circostanze Carlo
manifesterebbe del malumore, somministrando così un pretesto per
trattarlo con maggiore severità. Ma quando seppe che aveva ricevuto
gentilmente il cardinal Latino, e che la sua moderazione non erasi
smentita ne' discorsi, disse: «Questo principe può avere ereditata la
fortuna dalla casa di Francia, la finezza da quella di Spagna, ma la
circospezione nel parlare non può averla imparata che frequentando la
corte di Roma[363].»
[362] Nicolò con una costituzione proibì di nominare senatore alcun
principe sovrano, e prese per sè tale dignità, di cui Carlo erasi
allora spogliato. _Vitali Stor. de' Senat. di Roma t. I, p. 176. —
Decretali l. VI, cap. fondam. de electione. Raynald. ad annum § 74,
p. 298._
[363] _Raynaldi Ann. 1276, § 69, p. 297._
Carlo, dietro le istanze di Nicolò, aveva accordata piena soddisfazione
a Rodolfo, onde questi non poteva sotto verun pretesto rifiutarsi alle
domande del papa. La promessa solenne fatta a Gregorio X di crociarsi,
che più non pensava di soddisfare, rendevagli necessario il favore di
Nicolò, poichè il solo papa poteva assolverlo dal giuramento e dalla
scomunica. Rodolfo in vista di tali considerazioni accordò finalmente la
carta da tanto tempo richiesta per separare chiaramente in Italia le
province dipendenti dalla santa sede o dall'Impero.
Da oltre un secolo tutti gl'imperatori, all'epoca della loro
incoronazione avevano confermato alla santa sede il possedimento di
tutto lo stato ecclesiastico da Radicofani sino a Ceperano, ossia fino
alle frontiere del regno di Napoli; e di più di tutta l'Emilia, o
Romagna, della Marca d'Ancona e della Pentapoli. La santa sede che non
aveva mai posseduto queste tre ultime province, facendo fondamento sulla
sua perpetuità, non si era affrettata di domandarne il godimento, e
soltanto si era data cura di far confermare le donazioni più volte
contrastate di Carlo Magno e di Luigi il buono, aspettando che i suoi
diritti avessero acquistata la forza che loro poteva dare l'antichità.
Gl'imperatori, tutti occupati soltanto del presente, avevano risguardate
come vane formole le carte, che copiate da più antichi documenti
conservavano alla santa sede un titolo sopra alcune province delle quali
avevano essi l'attuale godimento. Ma come i papi l'avevano preveduto,
giunse il tempo nel quale un nuovo imperatore, ignorando i diritti della
sua corona, e perfino la geografia dell'Italia; impotente ancora nelle
province delle quali non gli si contrastava l'alto dominio, prese per
titoli indubitati i contraddittorj diplomi de' suoi predecessori.
Un cancelliere imperiale aveva scorse tutte le città italiane, ed aveva
senza difficoltà ottenuto il rinnovamento degli stessi giuramenti,
ch'esse prestavano agli altri imperatori. Nicolò scrisse a Rodolfo per
intimargli di rinunciare ad una sacrilega usurpazione[364]. Gli mandò
copia delle carte di Luigi il buono, di Ottone I e d'Enrico VI, e gli
chiese d'esprimere con eguale chiarezza quali fossero le città spettanti
alla Chiesa, onde liberarle dal giuramento di fedeltà che avevano
prestato per errore. Difatti Rodolfo, colle sue lettere patenti del
quattro delle calende di giugno, riconosce che gli stati della Chiesa
stendevansi da Radicofani a Ceperano; che comprendevano inoltre la Marca
d'Ancona, il ducato di Spoleti, le terre della contessa Matilde, il
contado di Bertinoro, l'esarcato di Ravenna, la Pentapoli, Massa
Trabaria, e tutti gli altri luoghi che un grande numero di diplomi
imperiali hanno accordato a san Pietro ed a' suoi successori[365].
Quest'ultima clausola lasciando così libero il campo a nuove
usurpazioni, Rodolfo in pari tempo rivocò ed annullò il giuramento di
fedeltà che il suo cancelliere aveva ricevuto dai cittadini di Bologna,
Imola, Faenza, Forlimpopoli, Cesena, Ravenna, Rimini, Urbino ed altri
luoghi pretesi dalla Chiesa, ed ordinò al suo protonotaro di dar parte a
tutti i cittadini di questi luoghi, che gli aveva sciolti da ogni
obbligazione verso di lui.
[364] _Nicolai III, Epistolæ t. II, l. I, epist. 5, apud Raynald. §
57 e seg. p. 295._
[365] Lettera di Rodolfo § 51, 52, e diploma di Goffredo prevosto di
Soliez protonotaro, § 53 presso _Raynald. An. 1278, p. 294._ Questa
ricognizione dei diritti della Chiesa fu riconfermata nel seguente
anno. Rodolfo rinunciò espressamente a qualunque diritto poteva
essere rimasto all'Impero, e fece nuova cessione delle medesime
province alla Chiesa. Il diploma venne confermato dai principi
dell'Impero. _Raynald. ad an. 1279, § 1-7, p. 302 e seg._
In forza del diploma di Rodolfo, lo stato della Chiesa acquistò
l'estensione conservata fino ai nostri giorni. Ma i diritti de' quali
era in possesso l'imperatore, quelli che poteva trasmettere alla santa
sede, altro non erano che una dipendenza, una signoria che pochissimo
ristringeva l'autorità de' particolari governi. Tra le province
dipendenti dalla santa sede eranvi molte repubbliche, come Bologna,
Perugia ed Ancona; varj principati, quali erano Montefeltro e Bertinoro,
che non s'avvisarono d'avere in verun modo perduta la loro indipendenza.
E come i pontefici avevano lasciati passar molti secoli prima di
domandare agl'imperatori la consegna delle province ch'essi avevano date
alla santa sede, così lasciarono decorrere altri due secoli prima di
chiedere ai popoli di riconoscere questa trasmissione di diritti, o
d'esercitare sui medesimi la loro sovranità. Il poter aspettare, essere
prodighi del tempo e calcolare sopra una signoria che non avrà fine, fu
sempre pei papi un sicuro mezzo a giugnere ai loro fini. Intanto i
popoli liberi non credettero peggiorata la loro condizione. Gli storici
contemporanei di Bologna si accontentano di dire che lo stesso anno la
città si diede al papa, riservandosi tatti i diritti sopra la Romagna; e
non suppongono che tale avvenimento meriti ulteriori schiarimenti[366].
[366] _Cronica miscella di Bologna t. XVIII, p. 288. — Mathæi de
Griffonibus Chron. Bonon. p. 126._
Nicolò III, dopo avere accresciuti i diritti ed i possedimenti della
santa sede, volle procurare alla propria famiglia il frutto de' suoi
acquisti. Nominò conte di Romagna Bertoldo Orsino suo fratello[367];
creò tre cardinali della sua famiglia, e diede pure la porpora a molti
signori romani che voleva rendersi ben affetti, onde procurarsi la
maggiorità de' suffragi nel sacro collegio. Ma per quanto fosse grande
la sua ambizione, pareva combinarsi sempre col mantenimento della pace e
della pubblica prosperità. Incaricò il prediletto de' suoi nipoti, il
cardinal Latino, vescovo d'Ostia, d'una legazione in Romagna, nella
Marca, nella Toscana, nella Lombardia, commettendogli specialmente di
riconciliare le fazioni, le città e le famiglie. Lo autorizzò pure a
ricevere di nuovo nel seno della Chiesa tutti coloro che erano stati
scomunicati come Ghibellini, ed a non avere parzialità per alcun partito
spargendo tra i fedeli gli spirituali favori.
[367] Diploma accordato a Bertoldo Orsino, presso il _Ghirardacci l.
VIII, p. 236_. Nicolò fece sette cardinali romani, che quasi tutti
avevano con lui rapporti di parentela. _Ricordano Malespini c. 204,
p. 1022._
Il cardinale Latino cominciò in Romagna la sua missione di pace: vi
trovò i Geremei ed i Lambertazzi di Bologna indeboliti da una lunga
serie di combattimenti. I primi, ch'erano rimasti in possesso della
città, non erano sufficienti a difenderne il territorio, ed ogni giorno
provavano nuove perdite, mentre i secondi, nel loro esilio non avendo
più nulla da perdere, con improvvisi attacchi si assicuravano quasi
sempre la vittoria. Il cardinale incominciò dal far riconoscere in ogni
città l'autorità di suo cugino, il nuovo conte di Romagna, affinchè
queste dominate da' Guelfi o da' Ghibellini che fossero, trovandosi
dipendenti da un capo solo avessero un punto d'unione ed un arbitro
delle loro discordie. Recossi in tutte queste città col conte Bertoldo;
e perchè il cardinale era predicatore dell'ordine di san Domenico,
nell'istante dell'inaugurazione del conte, predicò la pace ai
Lambertazzi a Faenza ed a Forlì, ed a' Geremei a Imola ed a Bologna.
Giunto in quest'ultima città, dietro gli espressi ordini avuti dal papa,
adunò cinquanta commissarj d'ogni fazione, ai quali presentò un progetto
d'accomodamento fatto dallo stesso papa, in forza del quale i
Lambertazzi e tutti i fuorusciti dovevano essere chiamati a Bologna e
riammessi all'intero godimento de' loro beni. Erano peraltro eccettuati
alcuni capi, la di cui presenza avrebbe potuto risvegliare i sopiti odj,
i quali per certo determinato tempo dovevano ancora soggiornare fuori di
Bologna ne' luoghi che loro assegnerebbe il papa; tutte le proprietà
prese da ambe le parti dovevano essere restituite; le società popolari,
che non servivano che a tener vivo lo spirito di partito ed a far
nascere le guerre civili, furono abolite; per ultimo, il papa
riservavasi il diritto di mantenere con tutte le pene ecclesiastiche, se
il bisogno lo richiedesse, le condizioni della presente pace[368].
[368] Queste condizioni trovansi nel _Ghirardacci l. VIII, p.
239-243_.
(1279) Dopo lunghi trattati la pace fu finalmente conchiusa sotto le
condizioni dettate dal papa; ogni partito garantì la pace colla promessa
di cinquanta mila marche d'argento; ogni comune della Romagna segnò pure
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