Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 15

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fratelli; che avrebbe sotto i suoi ordini, pagati dallo stato, un
cavaliere, un giudice, due scrivani, dodici littori e cinquanta arcieri,
che farebbero giorno e notte la guardia al suo palazzo ed alla sua
persona. Per ultimo gli diedero la facoltà di nominare, salva la loro
approvazione, il podestà annuale[243].
[243] _Ann. Gen. l. VI, p. 523, 524. — Uberti Foglietæ Genuens.
histor. l. IV, p. 361. Apud Graevium Thesaur. Antiq. Ital. t. I._
Ed ecco con questa rivoluzione compiutamente fondata la tirannide; ma
fortunatamente per Genova il popolo era troppo impaziente per
sopportarla lungo tempo. Del 1259 i nobili cominciarono ad avvedersi che
Guglielmo, il quale ogni giorno si arrogava nuove prerogative, aveva di
già molto perduto della sua popolarità. Ordirono contro di lui una
congiura, ma intempestiva; e Guglielmo che n'ebbe sentore, trovò parte
del popolo ancora disposto a difendere il suo idolo. Egli pronunciò
contro i suoi nemici una sentenza di esiglio, e fece spianare le loro
case. Domandò in seguito al suo consiglio, e facilmente ottenne, che gli
fosse accresciuto il salario, e data subito una somma di danaro per
mettersi in istato di difesa[244]. Frattanto se la mala riuscita di
questa congiura accrebbe la sua potenza, accrebbe pure l'odio che una
parte della nazione nudriva contro di lui. E già, se crediamo
all'annalista genovese coetaneo, del 1262 Guglielmo si comportava da
tiranno; dava e toglieva gl'impieghi di proprio arbitrio, sprezzava le
deliberazioni dei consigli, trattava in nome proprio le alleanze,
annullava le sentenze de' tribunali, ed escludeva i nobili da ogni parte
dell'amministrazione. Questi preser di nuovo le armi in tutti i
quartieri della città, ed occuparono le porte affinchè il capitano del
popolo non potesse chiamare gli abitanti della campagna in suo soccorso.
S'avviarono poi verso la gran piazza ove trovavasi il capitano con circa
otto cento uomini: strada facendo tagliarono a pezzi suo fratello, che
con un corpo di gente cercava di opporsi al loro passaggio. Intanto i
cittadini che avevano prese le armi a favore del capitano, l'andavano a
poco a poco abbandonando e si univano ai nobili. L'arcivescovo, per
impedire lo spargimento del sangue genovese, s'inoltrò tra le parti,
facendo sentire a Guglielmo che disperata era la sua causa, ed avendolo
persuaso a rinunciare alla carica di capitano del popolo, lo tolse in
tal modo al castigo dovuto ai tiranni. Furono colla sua mediazione
ristabilita in Genova la pace ed il governo quali erano avanti ii
1257[245].
[244] _Ann. Genuens. l. VI, p. 627. — Uberti Folietæ Genuens. hist.
l. IV, p. 366._
[245] _Barthol. Scribæ Ann. Genuens. l. VI, p. 529. — Uberti Folietæ
Genuens. hist l. IV. p. 367._
Ma il popolo non tardò a dolersi d'essere ricaduto sotto il dominio
della nobiltà, e malgrado la fresca esperienza dell'abuso che i suoi
favoriti facevano del loro credito, andava ancora cercando qualche
nobile che volesse essere suo capo. Il primo a presentarsi, due soli
anni dopo l'abdicazione di Guglielmo, fu Simone Grillo, che la
repubblica aveva nominato ammiraglio delle galere che spediva in
Levante; ma quando vide che i nobili stavano all'erta, partì colla sua
flotta, ed il tumulto eccitato in suo favore si dissipò in poche
ore[246].
[246] _Ann. Genuens. l. VI, p, 531._
Un più pericoloso demagogo cercò in seguito di farsi un partito nel
popolo, e fu questi Oberto Spinola, capo di una delle quattro più
nobili, più antiche e più potenti famiglie di Genova. Queste famiglie
che verso la metà del tredicesimo secolo cominciavano ad uscire
assolutamente dalla linea di tutte le altre, erano i Grimaldi, i
Fieschi, i Doria e gli Spinola. Pareva che nell'elezione del 1264 i
Grimaldi avessero avuto maggior parte alle magistrature ed a tutti i
consigli, che le tre altre famiglie. Tutte ne aveano conceputo gelosia,
ma Oberto Spinola seppe egli solo approfittarne. Tentò di ottenere la
carica di capitano del popolo, che era stata data a Boccanigra, e
sebbene non riuscì nell'intento in quest'occasione, si pose in relazione
col partito popolare; relazione, che mantenutasi nella sua famiglia, fu
lungo tempo cagione alla repubblica di pericolose scosse, minacciandola
frequentemente di rapirle la libertà[247].
[247] _Ib. l. VII. Lanfranci Pignolae ecc. p. 533, 535. — Uberti
Foliet. hist. Genuens. l. V, p. 371._
E per tal modo le due più potenti repubbliche marittime riformavano
nello stesso tempo la loro costituzione, ma in senso contrario. Una,
partendo da una democrazia reale, s'avanzava segretamente, lentamente e
senza scosse verso un'aristocrazia forte e regolare: l'altra, governata
da una nobiltà inquieta, faceva violenti sforzi e spesso inutili per
tornare alla democrazia; spesso ancora invocava imprudentemente la
potenza di un solo uomo per istabilire l'autorità di tutti. Infinite
circostanze influiscono sempre sulla costituzione de' popoli. Benchè i
Genovesi ed i Veneziani avessero le stesse abitudini, il medesimo
carattere, il medesimo amore per la libertà, benchè parlassero il
medesimo linguaggio, nello stesso tempo, e per così dire nello stesso
paese, presero due contrarie direzioni per arrivare allo stesso scopo.
In un altro capitolo avremo occasione di volgere lo sguardo alla terza
repubblica marittima, a Pisa, la cui storia, meno conosciuta, è per
molti rispetti simile a quella di Genova.


CAPITOLO XXI.
_Carlo d'Angiò, chiamato dai papi, procura in Italia al partito
guelfo una assoluta superiorità. — Conquista il regno di Napoli.
— Disperde l'armata di Corradino, e fa perire questo principe
sul patibolo._
1261=1268.

Il regno d'Alessandro IV era stato un'epoca favorevole alla fazione
ghibellina. Manfredi, approfittando della debolezza di questo pontefice,
aveva stabilita la sua autorità nel regno di Napoli; e nello stesso
tempo i Ghibellini fiorentini avevano obbligata tutta la Toscana ad
accostarsi al loro partito: e se nella Marca ed in Lombardia era stata
distrutta la tirannide d'Ezelino, lo fu col favore dell'alleanza
contratta co' capi ghibellini, il marchese Pelavicino e Buoso di Dovara,
da' Guelfi di Milano, di Ferrara e di Padova. Finalmente a quest'epoca
la casa della Torre a Milano erasi alienata dalla santa sede; ed a
Verona, come nella Marca Trivigiana, Mastino della Scala erasi posto
alla testa del partito ghibellino. Ma Alessandro IV morì il 25 maggio
del 1261, ed il suo successore con mano più ferma e potente rovesciò
bentosto la bilancia politica d'Italia.
Questo successore, che prese il nome di Urbano IV, era francese, nativo
di Troia nella Sicampagna[248] e di bassa condizione, ma aveva saputo
co' suoi talenti acquistarsi il vescovado di Verdun, poi il patriarcato
di Gerusalemme. Era quest'istesso anno tornato da Terra santa per
sollecitare i soccorsi del papa e de' Latini in favore de' Cristiani di
Levante. I cardinali, che trovavansi ridotti al numero di otto, dopo tre
mesi di conclave senza aver riuniti i suffragi a favore d'un membro del
loro collegio, credettero di non poter trovare tra i prelati non
cardinali chi fosse più del patriarca di Gerusalemme degno della tiara.
[248] Abbiamo una vita di questo papa scritta in cattivi versi
elegiaci dedicata al cardinal nipote da Tierrico Vallicolor. Questo
poema d'un migliajo di versi viene più volte citato dall'annalista
ecclesiastico. È stampato _Scr. It. p. II, p. 405 e segu_. Avvi pure
una vita dello stesso pontefice scritta da Amalrico Augerio, _p.
404_, ed una di Bernardo Guidone _t. III, p. I, p. 593_.
Forse Urbano non sarebbe stato severo giudice di Manfredi, se la causa
di questo re avesse dovuto essere da lui solo giudicata; ma, agli occhi
di un papa, Manfredi era reo del gravissimo delitto di non essersi
assoggettato al giudizio della santa sede che lo aveva condannato.
L'indipendenza de' sentimenti è ciò che più offende le anime
intolleranti; e l'altrui libertà diventa un'ingiuria in faccia a chi
volle sempre vivere nella servitù. Urbano che non aveva alcuna personale
cagione d'inimicizia con Manfredi e niun interesse nella sua caduta,
Urbano che non poteva ripromettersi dalla sua politica nè l'incremento
del potere della Chiesa, nè la libertà di Terra santa, pure attaccò
Manfredi con maggiore violenza ed ostinazione, che non avrebbe fatto lo
stesso Innocenzo IV.
Durante la vacanza della santa sede, i Saraceni di Manfredi erano
entrati nella campagna di Roma: Urbano non si limitò a dar ordine al re
di Sicilia di richiamarli[249], ma pubblicò contro di lui una crociata,
con tutte le indulgenze che accordavansi a' liberatori di Terra santa;
nominò capitano delle truppe pontificie Rugiero di san Severino, uno
degli emigrati napoletani, commettendogli di adunare sotto le sue
insegne tutti i ribelli del regno. In tale maniera obbligò le truppe di
Manfredi alla ritirata, e l'annalista Rainaldo crede pure che Urbano le
attaccasse personalmente[250].
[249] _Matteo Spinelli da Giovenazzo Diurnali t. VII, p. 1097._
[250] _Ann. Eccles. t. XIV, p. 68, § 22._
Urbano, non contento di questo primo atto, che avrebbe potuto
risguardarsi come una giusta difesa dello stato della Chiesa, citò
Manfredi a comparire innanzi a lui per purgarsi de' delitti onde era
incolpato, delle sue relazioni co' Saraceni, della sua perseveranza nel
far celebrare i santi misteri ne' paesi colpiti dall'interdetto,
finalmente delle condanne e pene capitali di molti suoi sudditi che egli
risguardava come altrettanti omicidj, perchè non conosceva nè la
sovranità, ne l'autorità giudiziaria del re di Sicilia. Questa citazione
non fu a Manfredi notificata, ma soltanto affissa alle porte della
chiesa d'Orvieto, residenza d'Urbano[251]. Informato che Manfredi
trattava con Giacomo re d'Arragona di dare al di lui figliuolo sua
figliuola Costanza, (1262) scrisse a Giacomo per dissuaderlo
dall'alleanza colla famiglia di Manfredi, di cui gli enumera tutti i
supposti delitti, indi soggiugne: «Come mai ha potuto entrare nel tuo
cuore così strano progetto? come mai, o figliuol mio, l'altezza
dell'animo tuo ha potuto tanto abbassarsi? come hai tu solamente
tollerato che ti si proponesse per consorte di tuo figliuolo la figlia
d'un uomo qual è Manfredi? è forse tuo figlio talmente disprezzato dagli
altri principi, che non possa trovare un'illustre sposa tra le fanciulle
di reale stirpe? Qual vergogna sarebbe la tua di macchiare con tale
maritaggio lo splendore del tuo sangue! qual detestabile opera, legare
con sì stretta parentela un figliuolo tanto devoto alla Chiesa col suo
nemico e persecutore[252]!» A fronte di così calde rimostranze questo
matrimonio, che trasmetteva agli Arragonesi il diritto ereditario alla
corona di Sicilia, ebbe effetto: ma san Luigi che aveva domandata per
suo figlio una figlia dello stesso Giacomo, parve così scandalizzato dal
pensiere di contrarre qualche relazione con un nemico della Chiesa, che
sospese il trattato, e diede ad Urbano speranza di non procedere più
avanti. Questi prese da ciò motivo di felicitarlo; anzi mandò in Francia
uno de' suoi notaj sotto coperta di ringraziare il re di tale
deferenza[253]; ma in realtà per far rivivere il progetto, formato prima
da Innocenzo IV, di trasferire la Corona di Sicilia a Carlo d'Angiò
fratello di san Luigi. La lettera del papa al suo notaro Alberto ci
svela le difficoltà che ritardavano questo trattato.
[251] _Giannone Ist. Civ. del Regno di Napoli l. XIX, c. I, t. II,
p. 668. — Continuat. Nicolai Jamsillæ, p. 591._
[252] _An. Eccles. 1262, § 14, t. XIV, p. 74. — Datum Viterbii 6
calend. maii._
[253] _Litteræ ejusdem ad Regem Franc. An. Eccles. § 17, an. 1262,
13 cal. augusti._ Malgrado le felicitazioni contenute in questa
lettera, Filippo, detto l'ardito, sposò in quest'anno Isabella
d'Arragona; di che pare che Rainaldo non ne avesse notizia.
_Guilelmi de Nangiaco Hist. S. Ludovici, p. 371. Scrip. Hist. Franc.
t. V._
«Noi abbiamo ricevute le tue lettere dalle quali rileviamo, tra le altre
cose, che il nostro caro figlio in Gesù Cristo, l'illustre re di
Francia, ascolta gli artificiosi discorsi di coloro che vogliono
dissuaderlo dai negoziati, per istringere i quali ti abbiamo mandato
alla sua corte. Essi cercano di fargli credere che Corradino nipote di
Federico, già imperatore de' Romani, possa avere alcun diritto sul regno
di Sicilia, e che nel supposto che ne sia cotale diritto decaduto,
sarebbe per concessione della santa sede passato in Edmondo figlio del
nostro carissimo figlio in Gesù Cristo, il re d'Inghilterra. Così
adunque, benchè veda nella nomina di suo fratello l'onore e la felicità
della Chiesa romana, ed i mezzi di soccorrere l'Impero di Costantinopoli
e di Terra santa, come ardentemente lo desidera, pure sta in forse; e
forse non avrebbe il torto se ciò che dicono certi suoi consiglieri
fosse vero; egli teme d'invadere ciò che risguarda come eredità d'un
altro.... Noi offriamo il sagrificio delle nostre lodi a Dio, a quel Dio
che tiene in sua mano i cuori de' re; noi gli rendiamo grazie di
conservare il re di Francia in tanta purità di coscienza.... Ma questo
re deve avere in noi e ne' nostri fratelli maggiore confidenza; deve
credere senza ombra di dubbio, che mentre lo risguardiamo come il
prediletto figlio della Chiesa romana, che mentre noi nudriamo per lui
un particolare affetto, non esporremmo la sua persona o i suoi stati a
qualche pericolo, nè il suo nome alla maldicenza ed allo scandalo, nè la
sua anima, di cui ci è confidata la difesa, alla dannazione. Egli deve
credere che noi ed i nostri fratelli vogliamo, col divino ajuto,
conservar pure le nostre coscienze e salvare le anime nostre innanzi
all'autore d'ogni salute; e noi sappiamo di certa scienza, che niente di
tutto quanto vogliamo fare, non offende i legittimi diritti di
Corradino, o di Edmondo; o d'alcun altra persona[254].»
[254] _Epist. Urb. IV ad Magistr. Albert. Notarium Ap. Rayn. 1262, §
21, p. 75._
La sentenza di deposizione, fulminata nel concilio di Lione da papa
Innocenzo, colpiva tutta la discendenza di Federico II; e la Chiesa
aveva pronunciata nel più solenne modo la diseredazione di Corrado e di
Corradino, onde il santo re Luigi non osava opporsi a tale giudizio,
benchè ne sentisse nel suo cuore l'ingiustizia, e non volesse
raccoglierne i frutti; per la qual cosa rifiutò la corona di Sicilia,
che il papa gli aveva offerta per uno de' suoi tre minori figli[255].
L'investitura formalmente accordata da un papa a Edmondo, figliuolo del
re d'Inghilterra, ritraeva i principi francesi dall'accettare le offerte
d'Urbano, più che non faceva il diritto ereditario della casa di Svevia
sui regni che tuttora possedeva. Il papa, per calmare i loro scrupoli,
unì al suo notajo Alberto un uomo più interessato a procurare nemici a
Manfredi, Bartolomeo Pignatelli, arcivescovo di Cosenza,
irriconciliabile nemico del suo re.
[255] Quest'offerta ed il rifiuto di Luigi vengono ricordati in una
lettera del papa alla regina di Francia, _Rayn. 1264, § 2, p. 101. —
Giannone Istor. Civ. l. XIX, c. 1, t. II, p. 670._
Questo prelato passò prima alla corte d'Enrico III re d'Inghilterra, che
trovò impegnato in una guerra civile co' suoi baroni, perchè rifiutavasi
di eseguire i capitoli della _gran carta_ del regno, che egli aveva
giurato d'osservare. L'arcivescovo approfittò dell'imbarazzo in cui era
il re, per ottenere da lui e da suo figliuolo Edmondo una formale
rinuncia a tutti i diritti che Alessandro IV aveva potuto trasferir loro
sul regno di Napoli. Per ridurli a tale atto si fece a rappresentar
loro, che non avevano punto soddisfatte le condizioni espresse
nell'investitura; che non erano presentemente in istato di soddisfarle;
e che intanto la Chiesa aveva bisogno di pronti e potenti soccorsi. In
pari tempo offriva al re inglese tutto il potere della Chiesa contro i
suoi sudditi; e ricompensò la condiscendenza d'Enrico III e d'Edmondo
collegandosi con loro contro le libertà britanniche[256].
[256] _Urb. IV, Epist. 161 e 162. Rayn. 1263, § 78, p. 98._
L'arcivescovo di Cosenza si recò colla rinuncia di Edmondo presso san
Luigi; e, dimostrando essere i diritti della Chiesa maggiori di quelli
di Corradino, se non dissipò interamente i rimorsi del santo re, li fece
almeno tacere. Di una affatto diversa natura era la negoziazione
pendente con Carlo d'Angiò, che gli scrupoli non ritraevano
dall'accettare una corona, cui la propria ambizione e la vanità della
consorte gli facevano desiderare; ma il papa l'accordava a troppo
onerose condizioni: e siccome non prometteva che ajuti vani di parole ed
un titolo litigioso, Carlo d'Angiò, che doveva conquistare il regno a
sue spese e colle proprie forze, esponendosi a tutti i pericoli ed a
tutte le difficoltà dell'impresa, non voleva impegnarsi in una guerra,
finchè la santa sede si ostinava a guardare per sè i frutti de' suoi
pericoli.
Il papa aveva da principio proposto, che Carlo d'Angiò promettesse di
rimettere alla Chiesa Napoli, tutta la Terra di Lavoro e le adiacenti
isole, inoltre la valle di Gaudo. Carlo vi si rifiutava apertamente, e
quest'inutile negoziato fece perdere al papa un anno[257]. Finalmente,
per mezzo dell'arcivescovo di Cosenza, Urbano offrì al principe francese
l'investitura de' due regni della Sicilia e della Puglia, quali erano
stati posseduti dai re Normanni e Svevi, tranne soltanto la città di
Benevento col suo territorio, ed un annuo tributo di dieci mila once
d'oro.
[257] Gli atti originali di questo trattato furono conservati da
Tutini: _Dei contestabili del Regno f. 70, 71._ Io lo cito sulla
fede del Giannone.
(1264) Poichè furono accettate tali condizioni, il papa spedì in Francia
Simone, cardinale di santa Cecilia, per affrettarne l'esecuzione. Gli
consegnò le più pressanti lettere dirette a san Luigi, nelle quali
accusava Manfredi d'avere raddoppiate le vessazioni contro la santa sede
dopo avere avuto avviso delle negoziazioni intraprese per ispogliarlo
de' suoi stati, e gli rappresentava coi più vivi colori i pericoli ai
quali questo principe esponeva la religione, se la Francia non prendeva
le difese della santa Chiesa[258].
[258] _Ann. Eccles. Raynal. 1264, § 13, p. 103._
Quando Carlo d'Angiò scese in Italia, aveva quarantasei anni: come
figlio di Francia aveva per suo appannaggio la contea d'Angiò, e per
conto della moglie era sovrano della Provenza. Questa era la quarta
figliuola di Raimondo Berengario, ultimo conte di Provenza. Le maggiori
sorelle avevano sposato i re di Francia, d'Inghilterra e di
Germania[259], onde Berengario, dopo averle così riccamente maritate,
lasciava l'ultima erede de' suoi stati, affinchè suo marito rinnovasse
la casa de' Conti di Provenza[260]. Allora era questo il maggior feudo
della corona di Francia; e Carlo d'Angiò, dopo i re, era fuor di dubbio
il più ricco e potente principe d'Europa. Anche le sue qualità personali
lusingavano il papa di felice successo; e nella guerra di Terra santa
erasi acquistata riputazione di valoroso soldato e di esperto capitano:
«Fu Carlo, dice Giovanni Villani, uomo savio e prudente nel consigliare,
prode nelle armi, aspro e temuto da tutti i re del mondo, magnanimo e di
pensieri elevati, che niuna intrapresa gli era superiore; costante nelle
avversità, fermo e fedele nelle sue promesse, parlando poco ed
adoperando molto; non fu quasi mai veduto ridere; di temperati modi come
un religioso, zelante cattolico, aspro nel fare giustizia, di guardatura
feroce. Fu di statura alta e nerboruta, di colore olivastro, e col naso
assai grande. La sua persona sembrava più che quella di alcun altro
veramente fatta per la reale maestà. Dormiva pochissimo.... Fu prodigo
d'armi verso i suoi cavalieri; ma avido d'acquistare da qualunque parte
si fosse, terre, signorie, danaro, per supplire alle sue intraprese.
Egli non si dilettò mai di buffoni, di trovatori, o poeti, nè di
cortigiani»[261].
[259] Quello che assumeva questo titolo era Riccardo, conte di
Cornovaglia, uno de' pretendenti all'impero.
[260] _Gio. Villani l. VI, c. 90, 91, p. 221._
[261] _Gio. Villani l. VII, c. 1, p. 285._
Mentre Carlo adunava un esercito per l'impresa cui erasi impegnato, e
mentre Beatrice, sua consorte, aspirando ad avere, come le altre
sorelle, il titolo di regina, impegnava tutti i suoi giojelli per
provvederlo di danaro, altri Francesi combattevano di già in Italia a
favore della chiesa. Se dobbiamo credere a Matteo Spinelli, Roberto,
conte di Fiandra e genero di Carlo, aveva, in luglio del 1261, condotta
in Italia una grossa armata di crociati francesi per attaccare Manfredi,
che questi Francesi non conoscevano, e per difendere la chiesa, benchè
affatto stranieri a' suoi interessi[262]. Tale sorta di gente, sotto il
nome di religione, non pensa che a soddisfare a quella inquieta attività
che la spinge sempre a tentar nuove cose, senza mai prender a cuore la
causa cui sembrano servire. Costoro ripongono il loro godimento nei
mezzi e non nel fine d'ogni cosa; il loro coraggio non è animato da una
passione abbastanza nobile per esporsi a grandi sagrificj; ma da un
segreto sentimento della propria nullità, da un nascosto disprezzo di sè
medesimi, che associano al desiderio di illudere gli altri. Impazienti
di segnare qualche orma d'un'esistenza, che per sè medesima non merita
di fissare l'attenzione del pubblico, armansi indifferentemente a
vantaggio o in danno della Chiesa, per la libertà o per la tirannide:
sempre sperando coll'essere prodighi delle loro vite, di uscire da
quella nullità che tanto li tormenta; ed ignorano che non il disprezzo
della vita, ma il solo amore d'una nobile causa rende l'uomo glorioso;
che, per rendere un culto alle idee generose, non si deve adoperare in
maniera che i più grandi sagrificj impiccioliscano, ma sentirne la
grandezza e non lasciare di farli; che colui che sprezza la sua
esistenza non fa che indicare agli altri il disprezzo in cui la debbono
tenere; che quello che cerca gli altrui suffragi senza nutrire egli
stesso veruna stima di sè medesimo, potrà forse veder soddisfatta la sua
vanità; ma non acquisterà gloria.
[262] Malgrado l'espresse testimonianze di Matteo Spinelli,
_Diurnali p. 1097, 1098_ di Costanzo _l. I_, e di Giannone _l. XIX,
c. 1, p. 671_, io dubito ancora che il condottiere di questa
crociata fosse Roberto di Fiandra, il quale, quattro anni dopo, fu
giudicato troppo giovane per condurre un'armata in Italia e fu posto
sotto la direzione del contestabile di Francia. Questa spedizione è
leggermente indicata da Vallicolor, _Vita Urb. IV, p. 418_, ed
ignorata affatto dagli storici francesi.
I crociati francesi, dopo aver ricevuto a Viterbo la benedizione
d'Urbano IV, inoltraronsi fino al Garigliano, e vennero più volte alle
mani con Manfredi e co' suoi Saraceni: talvolta vittoriosi e talvolta
vinti, versarono il proprio e l'altrui sangue; ma
_Fama di loro il mondo esser non lassa;
Non ragioniam di lor, ma guarda e passa_[263].
[263] _Dante, Inferno._
L'avviso del vicino arrivo di Carlo d'Angiò operava di già un
cambiamento nel sistema politico d'Italia. Il partito ghibellino aveva
acquistato, per la sola inconsiderata condotta degli ecclesiastici, una
superiorità sproporzionata alle sue forze, ch'egli perdette tosto che i
suoi avversarj ebbero speranza d'uno straniero soccorso. Filippo della
Torre, signore di Milano, ch'erasi per politica accostato ai Ghibellini
a fronte dell'inclinazione della sua famiglia e della sua patria, fu il
primo a staccarsene. L'anno 1264, come l'abbiamo osservato nel
precedente capitolo, licenziò il marchese Pelavicino, che con i suoi
cavalieri era stato preso al soldo del comune di Milano[264]; si collegò
con Carlo, e chiese ed ebbe da lui un podestà provenzale, Barral di
Baux, che governò Milano un anno. In pari tempo il marchese Obizzo
d'Este, che quest'anno succedeva a suo avo nel governo di Ferrara,
rialzava il partito guelfo nella Marca Trivigiana[265] e stringeva
alleanza col conte di san Bonifacio, signore di Mantova, e con tutte le
città che avevano scosso il giogo di Ezelino. Vero è che la Toscana
restava ancora tutta intera in potere de' Ghibellini, nella quale lega
era stata forzata ad entrare del 1263 la stessa repubblica di Lucca,
cacciando dal suo territorio tutti que' Guelfi stranieri, cui da tre
anni prestava generoso asilo[266]. Ma questi Guelfi, ed in particolare i
Fiorentini, riunitisi in Bologna, eransi tutti dati alla professione
delle armi. Sempre disposti a combattere per la stessa causa, essi
cercavano di vendicarsi sui Ghibellini lombardi dei mali sofferti nella
loro patria. Essendo a Modena scoppiata una lite tra le due fazioni,
volarono in soccorso de' Guelfi, i quali, cacciati di città i
Ghibellini, rimasero soli padroni dell'amministrazione della
repubblica[267]. Colà i fuorusciti fiorentini nominarono loro capitano
Forese degli Adimari, sotto la di cui condotta, pochi mesi dopo, fecero
trionfare i Guelfi anche in Reggio[268]: e finalmente avendo avuto lo
stesso successo a Parma[269], tutta la contrada posta tra il Po e gli
Appennini fu principalmente per opera loro richiamata all'ubbidienza
della Chiesa. Oltre i pedoni avevano formato un corpo di quattrocento
cavalli ben montati e ben disciplinati, essendosi procurati a spese de'
loro nemici quanto loro abbisognava.
[264] _Giorg. Giulini Memorie della campagna di Milano l. LV, t.
VIII, p. 202._
[265] _Monachus Patavinus Cron. l. III, p. 722._
[266] _Gio. Villani l. VI, c. 83, 86. p. 215._ Flaminio del Borgo
protrae la pace di Lucca fino al 1265; nel che parmi che s'inganni.
_Diss. VI dell'Istor. pisana p. 408._
[267] _Gio. Villani l. VI, c. 87, p. 218. — An. Vet. Mutin. t. XI,
p. 67._
[268] _Memoriale Potest. Regiensium t. VIII, p. 1123._
[269] _Chronicon Parmense t. IX, p. 779._
Intanto Manfredi non trascurava verun mezzo per difendersi dai nuovi
nemici che la Chiesa gli andava facendo. In sul finire di settembre
mandò in Lombardia il conte Giordano con quattrocento lancie e molto
danaro per unirsi al marchese Pelavicino, onde impedire la discesa de'
Francesi in Italia[270]; ed egli medesimo il 18 ottobre dello stesso
anno entrò nella Marca d'Ancona con nove mila Saraceni. Nel 1261 era
stato eletto da una fazione senatore di Roma[271], onde aveva nominato
Pietro di Vico suo vicario in quella città, mandandogli un corpo di
truppe tedesche perchè si fortificasse nell'isola del Tevere. Il vicario
di Manfredi veniva spesso alle mani coi partigiani del papa[272],
sperando di potere quando che fosse rendersi padrone di tutta la città.
Per ultimo Manfredi aveva impegnati i Pisani ad allestire una potente
flotta, che unita a quella della Sicilia ammontava ad ottanta galere, e
che pareva sufficiente ad impedire il passaggio di Carlo d'Angiò,
qualora preferisse la via del mare[273].
[270] _Diurnale di Matteo Spinelli t. VII, p. 1101._
[271] _Storia dei Senatori di Roma di Ant. Vitali t. I, p. 128._
[272] _Sabas Malaspina Hist. Sicula l. II, c. 10, 13, t. VIII, p.
808._
[273] _Flaminio del Borgo Diss. VI, Stor. pisana p. 411._
Appena ridotti a termine i preparativi di guerra da ambo le parti, papa
Urbano IV morì, e, fino all'elezione del suo successore, Manfredi potè
lusingarsi che il nuovo pontefice sarebbe men caldo nel perseguitarlo.
Ma Urbano che non trovò che otto cardinali quando fu fatto papa, non
dimenticò di crearne molti; di modo che l'elezione del suo successore
trovossi tra le mani delle sue creature; la sua influenza, mantenendosi
anche dopo la sua morte, il conclave gli sostituì il cardinale di
Narbona, anch'esso francese, ed immediato suddito di Carlo d'Angiò, il
quale in tempo dell'elezione trovavasi legato straordinario presso di
questo principe. O la politica della corte di Roma non fu mutata dalla
sua accessione, o non si rese che più subordinata alla politica
francese.
I Romani, egualmente incapaci di servire e di viver liberi, mentre
Urbano IV negoziava ancora con Carlo d'Angiò, avevano fatto offrire a
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