Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 10

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occuparsi delle dissensioni civili di Milano e di Brescia. Nella prima i
nobili e l'arcivescovo erano in guerra colla plebe; nell'altra le forze
guelfe e ghibelline erano pari e quasi in procinto di venire alle mani.
Il legato pontificio passava dall'una all'altra città per predicarvi la
pace. Ezelino in vece incoraggiava alla guerra i nobili milanesi e
bresciani, offrendo il suo ajuto agli uni ed agli altri; ma malgrado
l'acerbità degli odj, diffidavano tutti delle sue offerte, ed i suoi
stessi partigiani non acconsentivano di riceverlo entro le mura delle
città ch'egli diceva di voler proteggere.
(1258) Soltanto in quest'anno potè il legato ridurre i Bresciani ad
entrare nella lega della Chiesa: ma mentre soggiornava nella loro città,
si seppe che il marchesa Pelavicino, alla testa de' Cremonesi, aveva
attaccati i castelli di Volongo e di Torricella, posti sulle rive
dell'Oglio. Il legato uscì tosto di città per obbligare il marchese a
ritirare le sue genti, menando seco tutti i Guelfi di Brescia, le
milizie di Mantova, e tutti i crociati che l'avevano seguìto: intanto
Ezelino, marciando di notte dalla banda di Peschiera con forze
superiori, si pose alle spalle dell'armata crociata, la quale sorpresa
da panico terrore, non gli oppose quasi veruna resistenza. Furono fatti
prigionieri quattro mila Bresciani, il podestà di Mantova con molti suoi
compatriotti e lo stesso legato pontificio: cosicchè di tutta l'armata
guelfa non si salvò che Biachino da Camino colla sua gente, facendosi
strada a traverso l'armata nemica[172][173].
[172] _Monachi Patav. Chron. p. 700. — Rolandinus t. XI, c. 8 e 9.
p. 331. — Jacobus Malvecius Chron. Brixian. Dist. VIII, c. 17. p.
924. — Chron. Veron. p. 638._
[173] Il trattamento usato da Ezelino al legato suo prigioniere, che
pure lo aveva tanto maltrattato nelle sue prediche, dovrebbe essere
risguardato come un argomento della poca fede dovuta ai racconti
esagerati della crudeltà di quest'uomo. _N. d. T._
Quando a Brescia si ebbe avviso della rotta dell'armata, i Guelfi
rimasti in città tentarono di placare i loro concittadini ghibellini,
rendendo la libertà a coloro che trovavansi in prigione, e ricevendoli
di nuovo in consiglio e nelle cariche: ma una forzata condiscendenza non
fece mai dimenticare i volontarj oltraggi; onde tosto che i capi
ghibellini si videro liberi, aprirono le porte ad Ezelino. Mentre
l'armata del tiranno entrava per una porta, uscivano dall'opposta il
vescovo, i magistrati e moltissimi Guelfi, seco conducendo le loro
famiglie e tutto quanto potevano portare di effetti preziosi,
compiagnendo l'infelice loro patria cui preparavansi tante calamità;
«imperciocchè, dice Rolandino, le inondazioni, la peste, gl'incendj, o
qualsiasi sciagura non opprime di tanta miseria colui che la prova,
quanto la perdita della libertà sotto un padrone crudele[174].»
[174] _Lib. IX, c. 10. p. 333._
Brescia era stata sottomessa dalle forze riunite d'Ezelino, di Buoso di
Dovara e del marchese Pelavicino. In forza delle fatte convenzioni tutte
le conquiste dovevano possedersi in comune dai tre capi: ma Ezelino si
credette reso abbastanza potente dalla sua vittoria per potere, senza
correre verun rischio, staccarsi dai suoi alleati, o trattarli piuttosto
da superiore che da eguale. Nulladimeno, siccome destro politico ch'egli
era, si fece ad accrescere la gelosia vicendevole tra il marchese e
Buoso, ambedue capi di parte in Cremona, e sotto certi rispetti
consignori di quella città, che governavano colla loro influenza
aristocratica, siccome i due più potenti, più ricchi e più valorosi
gentiluomini del territorio. Ezelino consigliava il marchese a disfarsi
di Buoso, il solo che ponesse ostacolo al suo ingrandimento. Mostravasi
in pari tempo a Buoso affezionatissimo, offrendogli il governo di
Verona, se voleva recarvisi come podestà. Ma le offerte d'Ezelino in cui
non avevano que' signori intera confidenza, non furono accettate; e
quando, dopo essere rimasti alcuni mesi in Brescia, le milizie cremonesi
vollero ripatriare, nè Buoso nè il marchese osarono rimanere a
discrezione d'Ezelino, e andarono insieme a Cremona: ma non vi furono
appena arrivati ch'ebbero nuovi avvisi d'essersi Ezelino dichiarato solo
signore di Brescia, esercitandovi senz'alcun riguardo tutti i diritti
della sovranità, e non risparmiando i supplicj e le confiscazioni.
Intrattenendosi questi due signori intorno alla superchieria loro usata
dall'infedele alleato, vennero a comunicarsi vicendevolmente le
insidiose offerte di Ezelino; perchè altamente sdegnati di tanta
perfidia e di tante crudeltà, delle quali ne ricadeva parte dell'odio
sopra di loro, siccome coloro che avevano così potentemente contribuito
alle sue conquiste, giurarono di abbassare un tiranno omai fatto esoso a
Dio ed agli uomini. Proposero quindi al marchese d'Este di allearsi con
lui e coll'armata de' crociati contro Ezelino, a condizione che non
fossero costretti perciò di rinunciare all'antica fedeltà verso la casa
di Svevia. Il trattato fu stabilito per una parte tra il marchese Oberto
Pelavicino, Buoso di Dovara ed il comune di Cremona, e per l'altra parte
dal marchese d'Este, dal conte Luigi di san Bonifacio, e dai comuni di
Mantova, Ferrara e Padova[175]. Col primo articolo del trattato
riconobbero tutti i diritti di Manfredi sul regno delle due Sicilie, e
promisero d'impiegare tutto il loro credito per riconciliarlo colla
santa sede. Col secondo i confederati si obbligarono a perseguitare fino
alla morte i due fratelli Ezelino ed Alberico da Romano. I gentiluomini
promettevano di marciare personalmente a questa guerra con tutte le loro
forze; ed i comuni, oltre le proprie milizie, obbligavansi d'assoldare
mille duecento cavalli, e di pagare un quarto delle spese della guerra.
Finalmente i confederati dichiararono solennemente che alcun ordine del
futuro imperatore, alcuna dispensa del papa, non potrebbe assolverli dal
giuramento che prestavano gli uni a favore degli altri, nè dalle loro
vicendevoli promesse.
[175] Questo trattato viene letteralmente riferito dal Campi nella
sua _Cremona Fedele, l. III, p. 65._
Questa lega fu sottoscritta a Cremona il giorno 11 giugno del 1259.
Precisamente nella stessa epoca gli abitanti di Padova eransi
impadroniti del castello di Friola nello stato di Vicenza, l'avevano poi
afforzato, e lasciatavi guarnigione. Ezelino vi accorse da Brescia con
un corpo di Tedeschi; e con quasi tutte le milizie di Verona e di
Vicenza, riprese Friola, e condannò indistintamente allo stesso
supplicio la guarnigione e gli abitanti, laici, ecclesiastici, uomini,
donne e fanciulli[176]. Vennero loro cavati gli occhi, tagliato il naso
e le gambe, ed in così miserabile stato abbandonati alla pubblica
compassione. Dall'una all'altra estremità d'Italia non vedevansi che
infelici mutilati che, colle loro ferite stimolando la compassione,
tutti ad una voce accusavano Ezelino dell'orribile loro stato[177]. Ma
le atrocità di Friola furono le ultime che Ezelino commettesse nella
Marca Trivigiana.
[176] _Roland. l. XI, c. 17. p. 340._
[177] La cosa viene variamente raccontata da altri storici. Si dice
che avendo proclamato che tutti i poveri storpiati, mutilati ec.,
presentandosi in Verona alla sua corte, avrebbero avuto da Ezelino
un nuovo abito, e vitto finchè vi rimanessero. Che quando vi si
trovarono adunati moltissimi, fece a tutti dare nuove vesti, e
ritenere i loro cenci, ne' quali, inutilmente riclamati da que'
mendici, trovaronsi nascosti molti danari, e che perciò tutti i
mendicanti dolevansi per le città italiane di Ezelino. _N. d. T._
La discordia mantenevasi sempre viva in Milano tra i nobili e la plebe.
Lusingavasi Ezelino che la nobiltà, cui aveva da lungo tempo offerta la
sua protezione, gli darebbe in mano così potente città, se gli riuscisse
di presentarsi all'improvista innanzi alle sue mura. Adunò dunque in sul
finire d'agosto dello stesso anno la più bella armata ch'egli avesse mai
avuta, e venne ad assediare Orci nuovi castello bresciano in riva
all'Oglio sulla strada che conduce da Brescia a Crema, che tenevasi
guardato dai Cremonesi.
Il marchese Pelavicino, venuto alla testa dei Cremonesi per difendere il
castello, si accampò a Soncino sull'opposta riva dell'Oglio. Il marchese
d'Este colle milizie di Ferrara e di Mantova avanzossi fino a Marcaria
venticinque miglia lontana da Orci nuovi sulla sinistra dell'Oglio;
finalmente i Milanesi si mossero per unirsi ai Cremonesi a Soncino.
Ezelino non poteva più conservare la posizione d'Orci nuovi, perchè
colla marcia d'un giorno gli poteva essere tolta la comunicazione con
Brescia. Fece dunque lentamente retrocedere verso quest'ultima città
tutta la sua infanteria, sperando che le truppe di Milano e di Cremona
passerebbero l'Oglio per inseguirla. Nello stesso tempo con tutta la sua
cavalleria, la più numerosa che si fosse giammai veduta nelle guerre di
Lombardia, rimontò l'Oglio fino a Palazzolo, ove attraversò il fiume; di
là, dopo avere uniti alla sua armata i gentiluomini fuorusciti di
Milano, si avanzò fino all'Adda, che pure passò senza incontrare veruna
resistenza.
La milizia milanese, sotto gli ordini di Martino della Torre, erasi
posta in cammino per raggiugnere i Cremonesi; ma avuto a tempo avviso
della marcia di Ezelino, ripiegò sopra Milano per difendere la sua
patria; talchè il tiranno, passata l'Adda, trovò d'avere a fronte gli
stessi nemici che supponeva d'aver lasciati in riva all'Oglio. Tentò di
aver Monza con un colpo di mano, e fu respinto; e questo scacco lo fece
accorto della pericolosa sua posizione, avendo due armate nemiche alle
spalle, e due fiumi che doveva ripassare per rientrare in paese amico.
Ravvicinandosi all'Adda volle almeno tentare d'impadronirsi di una delle
rocche che ne signoreggiavano il passaggio; ma avendo attaccato quello
di Trezzo, ne fu respinto: allora ripiegando verso Vimercate, guadagnò
il ponte di Cassano che non era ancora stato fortificato.
Se n'era appena reso padrone, che l'armata del marchese d'Este, formata
delle milizie di Cremona, Ferrara e Mantova, attraversando la
Ghiaradadda, attaccò la testa di quel ponte, che prese a viva forza.
Tutti gli altri ponti dell'Adda furono muniti di truppe, i guadi posti
in istato di difesa, ed il nemico del genere umano circondato da ogni
banda di armate superiori, che non poteva ragionevolmente lusingarsi di
vincere.
Ezelino non erasi trovato al ponte di Cassano quando la testa era stata
presa dai nemici. I suoi astrologi gli avevano indicato questo castello
e quello di Bassano e gli altri della stessa desidenza come di sinistro
augurio. Ezelino era tanto più superstizioso, in quanto che non aveva
alcuna religione; e la sua anima che non ammetteva la credenza d'un Dio,
soddisfaceva al bisogno di credere, ammettendo implicitamente
l'influenza degli astri. Allorchè fu nominato in sua presenza il ponte
di Cassano, fu veduto fremere; e senza voler fermarsi, tornò a Vimercate
per riposarsi: colà avuto avviso della perdita del ponte, balzò a
cavallo[178] e s'avanzò impetuosamente per riprenderlo; ma un dardo che
gli attraversò il piede sinistro, lo costrinse a dar a dietro, con che
sparse lo scoraggiamento nella sua truppa. Ricomparve ben tosto a
cavallo alla testa della sua armata che passò il fiume a nuoto senza
trovare resistenza. Fu però attaccato dal marchese d'Este quando gli
ultimi soldati uscivano dal fiume, ed avanti che avesse potuto rimettere
l'ordine nelle sue file; di modo che in quella confusione la cavalleria
bresciana, in vece di eseguire i movimenti ordinati dal capitano, prese
la strada di Brescia. A questo primo indizio d'insubordinazione fu visto
il tiranno tremare. Il movimento de' Bresciani non si potè celare agli
altri soldati; gli uni serravansi intorno ad Ezelino, siccome intorno a
quel solo che li potesse difendere, gli altri tenevano dietro ai
Bresciani o cercavano di mettersi in salvo fuggendo. Intanto i Milanesi
passavano l'Adda per inseguire il nemico, il quale, circondato da ogni
lato, avanzavasi lentamente lungo la strada di Bergamo: i suoi più
fedeli cadevano intorno a lui, le file si schiarivano, egli medesimo
finalmente caduto da cavallo e gravemente ferito nel capo da un tale,
cui aveva fatto mutilare il fratello, rimase prigioniere.
[178] Il 16 settembre 1259.
«Ezelino prigioniere, dice Rolandino, conservava un minaccioso silenzio,
tenea fiso a terra lo sguardo feroce, e non dava sfogo alla profonda sua
indignazione. Da ogni parte s'affollavano intorno a lui il popolo ed i
soldati, per vedere quest'uomo poc'anzi tanto potente, questo famoso
principe, terribile e crudele più d'ogni altro principe della terra; e
la gioja era universale»[179].
[179] _Roland. l. XII, c. 9, p. 351._
I capi dell'armata non permisero che fosse in verun modo oltraggiato; ma
condotto alle terre di Buoso di Dovara, si chiamarono i medici per
curarlo; ma egli vi si rifiutò costantemente, lacerando le bende poste
alle sue ferite; e l'undecimo giorno della sua prigionia morì a Soncino,
ove fu sepolto[180].
[180] _Chron. Astense c. 2, t. XI, p. 186._
Era Ezelino di bassa statura, ma tutto in lui annunciava il coraggio ed
il valor militare. Parlava disdegnosamente, superbo era il suo
portamento, ed il penetrante suo sguardo faceva tremare i più
arditi[181]. La sua anima tanto avida di crudeltà non pareva sensibile
ai piaceri dei sensi; onde non amò veruna donna, e fu nell'ordinare i
supplicj egualmente crudele verso ambo i sessi. Morì di sessant'anni
dopo averne regnati trentaquattro[182].
[181] _Ant. Godii Chron. t. VIII, p. 90. — Monach. Patav. l. II, p.
708._
[182] _Rolandini, l. XII. c. 1-9. — Monach. Patav. Chron. p.
702-706. — Chron. Veron. p. 638. — Campi Cremona fedele, l. III, p.
71. — Pigna Istor. de' Principi d'Este l. III, p. 225. — Jacobi
Malvecii Chronic. Brixiense Dist. VIII, c. 30-37, p. 931, ec._
Tosto che fu nota la morte di quest'uomo, tutte le città soggette si
affrettarono di scacciare i suoi satelliti, d'aprire le prigioni e di
chiamare l'armata della Chiesa. Vicenza e Bassano chiesero ai Padovani i
loro podestà; e Verona affidò questa carica a Martino della Scala, suo
gentiluomo, che faceva allora il primo passo verso quel supremo potere,
e che avrebbe tra poco nella sua patria fondando una tirannia meno
violenta ma più durevole di quella di Ezelino. Ovunque intanto udivansi
risuonare voci di libertà; e tutte le città volevano reggersi a comune.
Treviso cacciò fuori delle sue mura Alberico, fratello d'Ezelino, che
l'aveva anche troppo a lungo dominata. Costui venne a chiudersi colla
sua famiglia nella rocca di san Zeno fabbricata in mezzo ai monti
Euganei; ma la lega delle città guelfe, non volendo che alcun germoglio
di quest'odiosa famiglia si conservasse, mandò le milizie di Venezia,
Treviso, Padova e Vicenza ad assediare san Zeno: vi giunsero poco dopo
anche le truppe del marchese d'Este. Alberico, avendo perdute per
tradimento le opere esteriori del forte, ritirossi sulla sommità della
torre colla consorte, sei figli e due figlie; ma dopo avervi sofferta
tre dì la fame, venne a darsi in mano del marchese d'Este, ricordandogli
che sua figlia era stata sposa di Rinaldo d'Este; ma invano: era giurato
l'esterminio di tutta l'iniqua stirpe da Romano. Tutti furono uccisi, e
le divise membra mandate a tutte le città, ch'erano state tiranneggiate
da quella famiglia[183][184].
[183] _Rolandini l. XII, c. 14-16, p. 356 e seguenti._ Qui
prenderemo congedo da questo storico, che termina il suo racconto
colla caduta della famiglia da Romano. L'anno 1262 sottomise il suo
libro all'approvazione del magistrato e degli uomini dotti di
Padova, tutti testimonj dei riferiti avvenimenti.
[184] L'autore ebbe torto di seguire troppo minutamente i racconti
del Rolandino, uno de' più caldi partigiani della fazione guelfa, e
personalmente nemico di Ezelino. Fa veramente maraviglia che
mostrando altrove tanta filosofia e buona critica, sia qui disceso a
raccontare le puerili favole inventate sul conto d'Ezelino, che pur
troppo era colpevole: ma per dare una giusta idea ancora de' suoi
nemici, il nostro imparziale autore non doveva dissimulare il
barbaro modo con cui fu sacrificata la famiglia d'Alberico da
Romano, che forse non era alleata d'Ezelino: e convien dire che il
suo animo non sostenne l'immagine di tanti orrori. _N. d. T._
Caduta la casa da Romano, tutta la Marca Trevigiana e la Lombardia
trovaronsi in pace. I popoli si domandavano l'un l'altro perchè avessero
combattuto e qual fosse il motivo delle cessate contese: e s'avvedevano
allora per un felice esperimento, che la morte d'un sol uomo, d'un
tiranno nemico del genere umano poteva bastare a ritornare la pace a
tutti i popoli [185].
[185] _Monachi Patav. Chron. l. II, p. 707._
E veramente in queste contrade lo spavento cagionato dal carattere di
Ezelino aveva perfino affogata la ricordanza dell'antica lite guelfa e
ghibellina; e perciò i primi, quando s'allearono col marchese
Pelavicino, promisero senza difficoltà di fare ogni sforzo per
riconciliare il papa col re Manfredi, e rendere così la pace a tutta
l'Italia: ma il papa e Manfredi esacerbati da un antico odio, e divisi
da personali interessi, non erano in verun modo disposti a
rappacificarsi.
Avendo Alessandro IV ereditata forse tutta l'ambizione, e niuno de'
talenti del suo predecessore, non voleva rinunciare ai progetti
d'ingrandimento in parte già eseguiti da Innocenzo; ma volendo dargli
intera esecuzione, li mandava a male per mancanza di politica, e più di
tutto per la cattiva scelta de' suoi mandatarj. L'arcivescovo di Ravenna
che aveva fatto capo della crociata contro Ezelino, era stato cagione di
tutti i disastri sofferti dai Guelfi, i quali non ripresero coraggio che
quando, fatto prigioniere, vennero diretti da più esperti condottieri.
Nè dai legati apostolici era stata meno inconsideratamente trattata la
guerra nelle due Sicilie. Uno di costoro, il cardinale Ottaviano degli
Ubaldini, incaricato di difendere contro Manfredi la Puglia e la Terra
di Lavoro, lasciò così strettamente chiudere la sua armata in Foggia,
che per sottrarla alla fame ed alle malattie che la consumavano, fu
costretto di fare a nome del papa un trattato col principe, con cui gli
dava il possesso di tutto il regno, tranne Terra di Lavoro che sola
restava alla santa sede. Il papa rifiutò di approvare il trattato, e
perdette anche Terra di Lavoro occupata in pochi giorni dalla vittoriosa
armata di Manfredi. Un altro legato pontificio, frate Rufino dell'ordine
de' Minori, che governava la Sicilia e la Calabria, si lasciò
sorprendere dagli abitanti di Palermo, che, postolo in prigione,
inalberarono le insegne di Manfredi[186]. Il terzo fu, a dir vero, per
alcun tempo più felice degli altri: era questi Pietro Ruffo, uno degli
antenati senza dubbio di quel cardinal Ruffo, che a' nostri giorni
diresse la sommossa del regno di Napoli. Mandato, come questi, in
Calabria, in mezzo ai nemici, senza danaro e senza soldati, seppe
risvegliare il fanatismo, e formarsi un'armata di contadini, ora
accortamente spargendo false notizie, ora supplendo col suo ardire alle
forze che gli mancavano[187]. Ma questi prosperi avvenimenti furono meno
stabili che quelli ottenuti dal suo tardo nipote. I suoi rivoluzionati
contadini furono dispersi dalle truppe di Manfredi, ed egli costretto di
ritirarsi alla corte papale sulle navi che l'avevano condotto in
Calabria[188].
[186] _Nicolai de Jamsilla Historia p. 579._
[187] _Ib. p. 565, 566._
[188] _Nicolai de Jamsilla Historia p. 571._
Manfredi, sempre dal papa risguardato come un capo di ribelli, aveva
soggiogate tutte le province che oggi formano il regno di Napoli,
governandole in nome di suo nipote Corradino col titolo di reggente.
Egli conosceva la sua potenza abbastanza ferma per occuparsi della
riforma degli abusi introdottisi nello stato, e per cercare di meritarsi
colla civile amministrazione non minore gloria di quella che aveva
saputo guadagnare colle sue imprese militari. Erano le cose in tale
stato ridotte quando si sparse nel regno la notizia della morte del
giovane Corradino. Pare che Manfredi non si prendesse troppa cura di
riconoscere le sorgenti di una notizia così favorevole ai suoi
interessi, e che forse ebbe principio nella sua corte: ma accolse le
preghiere dei vescovi, dei signori e di tutti i baroni dello stato che
gli chiedevano di ricevere egli stesso la corona e di governare ormai in
proprio nome col titolo di re quelle province ch'egli solo aveva
salvate[189]. Ma quando la notizia della sua coronazione fu nota in
Germania, non tardarono ad arrivare alla sua corte ambasciatori di
Corradino e di sua madre. Riclamavano questi contro la falsità della
notizia, attestando che Corradino era sempre in vita, ed esigendo da
Manfredi che gli conservasse il titolo ed i diritti da lui medesimo fino
allora conosciuti. Manfredi accordò una pubblica udienza agli
ambasciatori, loro rispondendo in presenza di tutti i suoi baroni, che
dopo essere salito sul trono, non poteva più discenderne; che questo
trono era inoltre stato da lui ripreso dalle mani del papa; che nol
poteva conservarsi senza l'appoggio dell'amore de' sudditi verso la sua
persona; che l'interesse de' suoi baroni e dello stesso suo nipote non
permettevano che l'eredità della casa di Svevia fosse governata da una
donna e da un fanciullo; ma che il solo erede era Corradino, al quale
egli conserverebbe il regno, per essergli trasmesso dopo la sua morte:
che se Corradino voleva prima godere delle prerogative di presuntivo
erede della corona, e farsi conoscere dai popoli che doveva un giorno
governare, non aveva che a venire alla sua corte, ove sarebbe ben
accolto e festeggiato; e per ultimo Manfredi prometteva d'incamminarlo
sulla strada gloriosa de' loro padri, e di amarlo come suo
figliuolo[190].
[189] Fu incoronato il giorno 11 agosto del 1258; e qui termina la
sua storia Nicola de Jamsilla. Io lascio con dispiacere
quest'amabile scrittore. Quantunque le sue storie non abbraccino che
un periodo di otto anni dalla morte di Federico fino
all'incoronazione di Manfredi = 1250-1258, seppe dare grandissima
importanza al suo racconto. Un cuore caldo, un vivo affetto pel
principe cui era attaccato, la perfetta conoscenza ch'egli aveva
delle più minute circostanze degli avvenimenti, sono qualità poco
comuni agli storici di que' tempi; e sentesi tanto più vivamente la
sua mancanza perchè dopo di lui il regno di Napoli non ha più
storici ghibellini.
[190] _Giannone Istoria Civile, l. XIX, p. 666._
(1260) In tale stato trovavansi le cose di Manfredi, quando i principali
gentiluomini ghibellini di Fiorenza vennero ad implorare il suo soccorso
per rientrare nella loro patria. Gli rappresentavano che non era del suo
interesse il tenere tutte le sue truppe in istato di guerra nelle
province del regno, perciocchè ciò non poteva farsi senza impoverire lo
stato e disgustare i sudditi che vedevano di mal occhio tutta la forza
militare essere posta in mano de' Saraceni e de' Tedeschi; che nè pure
poteva licenziarle senza indebolirsi, ed abbandonarsi, in certo modo, in
balìa de' suoi naturali nemici i Guelfi ed i prelati; sicchè il solo
partito cui poteva appigliarsi nella presente situazione, era di mandare
i suoi soldati nelle province al di là di Roma nella Toscana e nella
Romagna, ove sarebbero a carico de' suoi nemici; che colà si ridurrebbe
la somma delle operazioni de' Guelfi, senza che potessero per altro
impedire l'ingrandimento di autorità che a lui ne verrebbe dal
ristabilimento de' gentiluomini in ogni tempo devoti alla sua casa.
I Ghibellini che chiedevano gli ajuti di Manfredi, erano stati cacciati
da Firenze verso la fine del 1258, in conseguenza di una cospirazione
diretta a riprendere al popolo l'autorità di cui erano stati spogliati.
Citati dal podestà a giustificarsi innanzi ai tribunali, presero le armi
contro gli arcieri del comune, tentando di difendersi nelle loro
case[191]. Il popolo gli attaccò; Schiatuzzo degli Uberti e molti suoi
clienti caddero morti; un altro Uberti ed un Infangati furono fatti
prigionieri, i quali, convinti essendo d'avere cospirato contro la
repubblica, furono condannati a perdere il capo. Gli altri Ghibellini
alla testa de' quali trovavasi Farinata degli Uberti, il più grand'uomo
di stato del suo secolo, dovettero uscire di città, e ripararsi a Siena,
ov'erano ben accolti dalla fazione ghibellina allora dominante.
[191] _Gio. Villani l. VI, c. 65, p. 199._
Nel trattato di pace stipulato del 1254 tra Siena e Firenze, era stato
convenuto che le due repubbliche non darebbero asilo ai nemici ed ai
ribelli dell'altra[192]. Perciò i Fiorentini fecero intimare a Siena
l'osservanza dei trattati acciocchè vietasse entro le sue mura le ostili
adunanze dei Ghibellini. I Sienesi, che avevano già fatto un trattato
d'alleanza con Manfredi, non lasciaronsi sopraffare dalle minacce degli
ambasciatori di Firenze, e risposero che avevano contratta alleanza
coll'intero popolo fiorentino e guelfo e ghibellino, i quali tutti
avevano allora un'egual parte della sovranità; che oggi vedevano una
metà di questo stesso popolo scacciato dai suoi focolari, onde non
sapevano dove fosse la repubblica: che non prenderebbero conoscenza
delle loro civili discordie; ma che il popolo di Siena non romperebbe
l'alleanza con quella parte del popolo fiorentino ch'era esiliata,
perchè era infelice. Questa risposta procurò ben tosto ai Sienesi una
dichiarazione di guerra, ed allora fu che i Ghibellini di Firenze, per
cagione dei quali stava per incominciarsi la guerra, mandarono
ambasciatori a Manfredi per ottenere il suo ajuto.
[192] _Flam. del Borgo Stor. Pis. l. VI, p. 349. — Malavolti Hist.
di Siena p. I, Diss. V, p. 68. — Leon. Aret. l. II, c. 3, p. 41._
Il re di Sicilia, anche prima di ricevere l'ambasceria de' fuorusciti
fiorentini, aveva mandate truppe per difendere la repubblica di
Siena[193]. Il conte Giordano d'Anglone giunse in Toscana con un corpo
di cavalleria tedesca. Entrò in Siena in dicembre del 1259, e fu
adoperato dalla repubblica nell'espugnazione delle fortezze ribelli di
alcuni gentiluomini. Ma l'acquisto di Grosseto, di Montemassi e dei
conti Aldobrandeschi non era ciò che stesse a cuore degli emigrati
fiorentini; onde questi facevano istanza a Manfredi d'accordargli in
particolare delle truppe ausiliarie specialmente destinate a
ristabilirli nella loro patria.
[193] Tutti gli scrittori fiorentini hanno supposto che le prime
truppe tedesche mandate da Manfredi in Toscana siano stati i cento
uomini d'armi accordati a Farinata, e che il conte Giordano vi
arrivasse dopo avuta notizia della disfatta dei primi. Il loro
racconto contiene qualche inverosimiglianza di date; ma viene poi
apertamente smentito dai pubblici registri degli archivj di Siena.
Il _Malav., Stor. di Siena p. II, l. I, p. 1-10_, ha cercato di
dimostrare quest'opposizione; ed io, per lo contrario, cerco di
conciliare le due opinioni. I Fiorentini, quasi tutti coetanei,
meritano al certo molta fede, ma la loro testimonianza non è che una
sola, perchè il Villani copiò parola per parola Ricordano Malespini
senza citarlo, come il Villani fu copiato da Coppo de' Stefani.
Lionardo Aretino ripete a modo suo lo stesso racconto. _Ricord.
Malesp. c. 163-164, p. 987. — Gio. Vill. l. VI, c. 74-75. — Leon.
Aret. l. II, p. 45, c. 5. — Flam. del Borgo Dissert. VI, p. 349. —
Murat. Ann. ad an. t. XI, p. 34, 8._
Manfredi non si lasciò subito muovere dalle istanze dei fuorusciti
fiorentini, non volendo, mentre ancora vedevasi circondato da segreti
nemici, privarsi di un maggior numero di soldati. Sapeva che gli
emigrati sono sempre pericolosi consiglieri, perchè non avendo più nulla
da perdere, non temono d'esporre i loro alleati qualunque volta
travedano in alcun fatto la più lontana speranza di prospero successo.
Diffatti loro sempre conviene di tentar la fortuna colle forze
straniere, quando essi più non possono essere colpiti da verun sinistro.
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