Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 14

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potenza in Levante, richiedeva assai più cure per governarla, e maggior
coraggio e vigilanza.
[221] _Sandi t. II, p. I., p. 600._
Numerosi sono gli abitanti di quest'isola, e, stando alle testimonianze
de' Veneziani, il loro carattere è perfido e incostante. Potrebbesi per
altro spiegare tanto per le virtù loro che pei loro vizj le frequenti
sedizioni e l'avversione che mostravano per un giogo straniero. I
Veneziani per tenerli in dovere mandarono in Candia una colonia: ma quel
popolo che fabbricava ed equipaggiava con estrema facilità flotte di
cento navi in pochi mesi, quel medesimo popolo i di cui mercanti erano
domiciliati in tutti i porti del Mediterraneo, a stento trovava alcuni
uomini che rinunciassero per sempre alla loro patria, anche loro
offrendo in altro paese dignità, poteri e ricchezze. A formare la
colonia concorsero in ugual parte i sei sestieri di Venezia; la quale
colonia, appena giunta nell'isola, ebbe il possesso di cento trentadue
feudi di _hautbert_ o cavallerie, e di cento otto feudi di scudieri,
ossia sergenti d'armi[222]. Dunque il numero delle famiglie veneziane
che passarono in Creta, era soltanto di cinquecento quaranta. Alla testa
della colonia fu stabilito un duca per rappresentare il doge, il quale
veniva eletto ogni due anni dal maggior consiglio di Venezia, ed era,
come il doge, assistito da due consiglieri superiori. Eranvi a Candia
come a Venezia i _giudici del proprio_, i signori della notte, quelli
della pace, il piccolo consiglio, o signoria, il grande cancelliere, e
soprattutto il maggior consiglio, che nella stessa epoca di quello di
Venezia fu dichiarato nobile ed ereditario. Perciò quando, del 1669, la
città di Candia fu presa dai Turchi, e che la repubblica perdette la
colonia, i gentiluomini di quel consiglio richiamati nella metropoli,
furono risguardati come non avessero mai perduti i loro ereditarj
diritti; e tutti i nobili candiotti dichiarati nobili veneziani, e come
tali registrati nel libro d'oro[223].
[222] _Sandi t. II, p. I, l. IV, p. 609._
[223] Parlando della costituzione veneta mi sono attenuto a Vittore
Sandi: un nobile veneziano che nel diciottesimo secolo scrisse nove
volumi in 4.º intorno alla costituzione del proprio paese merita
piena fede in tutto ciò che è semplice erudizione patria. Molta
infatti ne contiene rispetto a tutto quanto è veramente veneziano,
per tutto ciò che poteva levarsi dagli archivj del suo paese,
ch'egli ha accuratamente esaminati. Ma non vi si può prestar fede
quando esce dal suo argomento. Cade spesso in gravissimi errori
nelle cose della storia generale d'Italia; assurde sono molte volte
le sue riflessioni, ed il suo stile è goffo ad un tempo ed
affettato. Le memorie storiche e politiche intorno alla repubblica
di Venezia di Leopoldo Curti sono meno nojose, ma lascian travedere
soverchiamente la sua parzialità; e le sue quistioni colla
repubblica fanno dubitare, almeno in Venezia, della sua esattezza.
Rispetto al commercio veneziano ho già citate le _Ricerche storico
critiche_ del dotto conte Figliasi. Ho pur fatto uso degli antichi
storici Andrea Dandolo, Marino Sanudo ed Andrea Navagero. Ho pure
letta una voluminosa storia della guerra di Candia nel 1669, che
sparge molta luce sullo stato di quella colonia. _Istoria
dell'ultima guerra tra Veneziani e Turchi di Girolamo Brusoni dal
1644 al 1671 divisa in 28 libri, 1 v. in 4.º 1676._
Le frequenti sedizioni de' Candiotti, le non meno frequenti invasioni
de' Greci sudditi di Vatace, di Teodoro Lascari, o di Paleologo tennero
questa colonia in continui pericoli in tutto il tredicesimo secolo. Fu
pure contrastata ai Veneziani dai Genovesi che quasi nel tempo della
prima conquista avevano saputo formar uno stabilimento nell'isola.
Questo popolo era geloso degl'immensi dominj che i Veneziani avevano
acquistati nel Levante, e più ancora dell'estensione del loro commercio
e delle loro ricchezze. I Genovesi avevano più volte tentato di
appropriarsi alcune isole dell'Arcipelago, ed alcune piazze forti della
Morea. Tale gelosia avvelenò una lite eccitata tra le due popolazioni
dal solo punto d'onore nella città di Tolemaide ossia san Giovanni
d'Acri.
Di tutte le conquiste fatte in Terra santa più non restavano ai
Cristiani che due o tre piazze sulle coste della Siria, la più forte
delle quali era san Giovanni d'Acri, ov'eransi rifugiati quasi tutti i
Latini scacciati dal regno di Gerusalemme[224]. Ognuno presumeva di
trovare in questo asilo la stessa indipendenza di cui aveva goduto ne'
feudi ond'era stato spogliato; di modo che questa sola città trovossi
divisa in sei o sette differenti sovranità. Il re di Gerusalemme, i
conti di Tripoli e di Edessa, il gran maestro dell'ospitale e del
tempio, i Pisani, i Veneziani, i Genovesi avevano tutti il proprio
quartiere. Nacque tra gli ultimi una contesa pel possesso della chiesa
di san Sabba, che non era stata con precisione assegnata all'una delle
due nazioni. I Veneziani, per decidere questa disputa, volevano farne
arbitro il papa; ma i Genovesi presero le armi, ed impadronitisi della
chiesa, la fortificarono; nè di ciò contenti assalirono i magazzini de'
Veneziani in Acri ed in Tiro, e gli scacciarono dal loro quartiere[225].
[224] Trovasi nella raccolta degli storici bizantini, _t. XXIII_,
una curiosissima relazione dello stato di Terra santa l'anno 1211,
quando l'autore la visitò. Incomincia la sua descrizione dalla città
di san Giovanni d'Acri. Vedasi l'_Itinerarium Terræ Sanctæ, auctore
Villebrando ab Oldenborg canonico Hildesemensi, p. 10. Leon. Allatii
t. XXIII_.
[225] _An. 1258 Bart. Scribæ Contin. Caffar. Ann. Gen. l. VI, p.
525._
Non prenderemo a descrivere le zuffe che per vendicare questa prima
offesa i due popoli si diedero in tutti i mari dell'Italia e del
Levante. Siccome nelle battaglie navali s'affrontano ad un tempo la
furia de' nemici, i pericoli del mare, e spesso quelli della burrasca,
gli uomini danno prova della maggiore intrepidezza di cui possa essere
capace una debole creatura, la quale in tale cimento sembra innalzarsi
al livello de' dominatori della natura. Ma i prosperi o gl'infelici
avvenimenti delle battaglie di mare non influiscono direttamente sulla
sorte delle nazioni come quelle delle armate di terra; e quando non
trovasi tra i guerrieri qualche illustre personaggio che a sè richiami
lo sguardo della posterità, quando le battaglie navali sono dirette da
capitani oscuri, quando finalmente la guerra si fa piuttosto da armatori
indipendenti che dalle flotte d'una nazione, difficile e nojoso diventa
il racconto delle particolari circostanze; di modo che tutto quanto noi
potremmo dire intorno alle vicendevoli sconfitte delle flotte veneziane
e genovesi, nulla aggiugnerebbe all'idea generale che formar ci possiamo
d'una inutile perdita di gente e di tesori.
Vero è per altro che la rivalità de' Genovesi coi Veneziani produsse un
notabile cambiamento nelle alleanze delle due nazioni. I Veneziani che
fino a tale epoca erano stati i protettori del partito guelfo, ed
avevano lungo tempo fatto guerra a Federico II poi ad Ezelino,
staccaronsi dal papa per allearsi da una banda coi Pisani, implacabili
nemici dei Genovesi, dall'altra con Manfredi che aveva da vendicare sui
Genovesi le antiche ingiurie, ed in particolare l'ajuto dato al loro
compatriotto Innocenzo IV[226]. La lega dai Veneziani contratta coi
nemici del papa incoraggiò i Genovesi a contrarne un'altra che fu ancora
più scandalosa. Spedirono essi ambasciatori a Michele Paleologo,
imperatore dei Greci, per impegnarlo a perseguitare più caldamente i
Veneziani loro comuni nemici, esibendosi di ajutarlo a ritogliere dalle
mani de' Veneziani e de' Francesi la città di Costantinopoli, che
avrebbe dovuto essere la capitale di Paleologo, e che di tanti acquisti
era quasi il solo che ancora fosse in potere de' Latini. Il trattato di
alleanza fu sottoscritto a Nicea il giorno 13 marzo del 1261[227].
Paleologo esentò i Genovesi dai diritti di pedaggio in tutti i suoi
porti, e questi invece gli promisero un certo numero di vascelli di
guerra ad un determinato prezzo. Infatti essi ne armarono sei, e dieci
galere, che immediatamente spedirono in Levante.
[226] _Chron. Andreæ Danduli c. 7, § 8 e 9, p. 365._
[227] Questo trattato trovasi stampato nella raccolta dei diplomi
del Ducange, _t. XX_ della Bizantina, _p. 5_. — _Hist. de
Costantinople sous les empereurs françois di Ducange l. V, § 21,
edit. Ven., t. XX, p. 75. — Barthol. Scribæ Ann. Genuens. l. VI, p.
528._
Baldovino II, debole e spregevole principe, era in allora imperatore
latino di Costantinopoli, e regnava solo fino dall'anno 1237; il quale
avendo nelle sue angustie talvolta vilmente e sempre invano supplicati i
principi dell'Occidente ad ajutarlo, era ritornato nella sua capitale,
ove per procacciarsi un poco di danaro, faceva levare il piombo dai
tetti delle chiese e dei palazzi di Costantinopoli, indi faceva demolire
questi edificj per provvedersi di legna da fuoco; vendeva od impegnava
le sacre reliquie; e per ultimo dava il proprio figlio come ostaggio ad
alcuni banchieri veneziani, che gli prestarono alcune somme di
danaro[228]. Per lo contrario i Greci in sessant'anni di sventure e di
esiglio avevano ripreso un poco di coraggio e di energia. Dopo la caduta
del loro impero non ammettendo più padroni ereditarj, i soli talenti
aprivano la strada al trono. Teodoro Lascari, Giovanni Vatace, e
finalmente Michele Paleologo aveano rialzato in Nicea il trono de'
Cesari, e riunito a poco a poco al loro dominio la maggior parte delle
province dell'Europa e dell'Asia, che i crociati avevano tolte ai loro
predecessori. Questi principi non meno valorosi guerrieri che accorti
politici avevano potuto volgere tutte le loro forze contro i Latini,
perchè i Bulgari ed i Saraceni, loro naturali nemici, indeboliti da
interne fazioni, non gli davano più molestia.
[228] _Ducange Histoire de Costantinople l. V, § 19, p. 75._
I soli difensori, i soli sostenitori dell'impero latino di
Costantinopoli erano i Veneziani; perchè i Francesi non isperando più di
arricchirsi coi saccheggi, si affrettavano di abbandonare la Grecia e di
tornare alla loro patria, mentre ogni anno nuovi negozianti giugnevano
ad ingrossare la colonia veneziana, e nuovi vascelli, e nuovi valorosi
guerrieri venivano a difenderla. Se dobbiamo per altro credere ad uno
storico greco, fu l'imprudenza de' Veneziani che perdette la città[229].
Aveva Michele Paleologo con Baldovino conchiusa la tregua d'un anno,
quando il nuovo balìo o podestà di Venezia, Marco Gradenigo, giunse nel
porto di Costantinopoli[230]. Questi rinfacciò ai Latini il vergognoso
loro ozio in mezzo ai nemici, e li persuase ad intraprendere l'assedio
di Dafnusio, isola e città all'imboccatura del Bosforo nel Ponte Eusino.
Egli si valse in questa spedizione delle truppe veneziane e francesi che
trovavansi in città, non lasciando alla guardia delle mura che il debole
Baldovino colle donne e coi vecchi.
[229] _Georgi Acropolitae historia c. 85. Byzant. Ed. Ven. t. XVI,
p. 77._
[230] _Sabellicus hist. Venet. dec. I, l. X. — Appendix ad
Villeharduin t. XX, Byzant. Venet. p. 100._
Nello stesso tempo, dopo avere dato il titolo di Cesare ad Alessio
Strategopulo, l'imperatore Paleologo lo aveva spedito contro il despota
dell'Epiro. Questo generale essendosi innoltrato fino alle porte di
Costantinopoli colla sua armata, fu avvisato dai contadini del sobborgo,
i quali, trovandosi allora al confine dei due imperi, viveano in una
licenziosa indipendenza, che Baldovino in quell'istante non aveva
truppe, e si offrivano d'introdurlo in città.
In fatti, dopo avere concertata ogni cosa con Strategopulo, que'
contadini che chiamavansi volontarj[231], il giorno 25 luglio del 1261
entrarono in Costantinopoli per una segreta apertura che metteva capo in
una delle loro case, ed impadronitisi della porta Aurea[232], che dai
Latini tenevasi chiusa, e spezzatala colle scuri, si fecero a gridare
dall'alto delle mura: _viva l'imperatore Michele! vivano i Romani!_
Strategopula che trovavasi acquartierato colla sua truppa presso il
convento della Fontana, aspettandovi il convenuto segno, entrò subito in
Costantinopoli per la porta che gli era stata aperta. I Comani o
Tartari, ch'erano i Saccomani della sua armata, si sparsero ne'
quartieri della città per saccheggiare le case de' Latini, mentre i
Greci si rimanevano con bella ordinanza intorno al loro generale. Lo
spavento incusso dai Comani, gl'incendj che andavano eccitando ovunque
potevano penetrare, la sommossa de' Greci di Costantinopoli, che
volevano scuotere il giogo de' Latini, portarono la confusione tra i
Franchi; i quali, preceduti dall'imperatore Baldovino, fuggirono verso
il porto, andando a bordo de' vascelli che vi si trovavano. La flotta
veneziana, che aveva fatta l'impresa di Dafnusio, arrivava allora
opportunamente presso al tempio di Sostenione, e servì a dar ricovero
all'imperatore, al balìo, al patriarca latino, a tutti i Francesi ed
alla maggior parte de' Veneziani che abitavano in Costantinopoli. Sì
grande era il numero degli usciti, che ben tosto consumarono tutti i
viveri della flotta, onde molti perirono di fame avanti che potessero
essere trasportati all'isola di Negroponte, colonia de' veneziani, ove
soggiornarono alcun tempo.
[231] Θεληματαριοι.
[232] Intorno alla perdita di Costantinopoli possono consultarsi
_Dufresne Ducange, histor. di Costant. sotto gl'imp. francesi l. V,
c. 21-34. p. 79, 80. — Byzant. Ven. t. XX. — Giorgio Accropolita
istor. c. 85. 89. p. 77. — Byzant. Ven. t. XIV. — Georgii Pachymeris
ist. l. II, c. 26-34. p. 78, 91. — Byzant. Ven. t. XII. — Phranza l.
I, c. 4 c 5, t. XXIII. p. 6, 7. — Nicephorus Gregoras hist. Byzant.
l. IV, c. 2. t. XX. p. 41._
E per tal modo Costantinopoli, dopo essere stata cinquantasette anni
sotto il dominio de' Francesi e de' Veneziani, tornò ad essere la
capitale dell'impero greco, che a quest'epoca parve riprendere nuovo
vigore, e che doveva ancora mantenersi quasi due secoli[233].
[233] Costantinopoli fu preso il 25 luglio del 1261, e secondo il
calendario greco l'anno del mondo 6769, indizione 4.
Mentre i Latini abbandonavano Costantinopoli, che vedeva con piacere
allontanarsi questi illegittimi suoi figliuoli[234], Michele Paleologo
avvisato a Meteoria che la reale città era stata occupata dalle sue
truppe, ringraziò il cielo d'un avvenimento che non osava sperare,
perchè l'anno precedente non aveva potuto impadronirsi con una grossa
armata del solo sobborgo di Galata. Preceduto da un'immagine della
Vergine e circondato dal senato e da tutti i grandi della nazione, entrò
in città per la porta aurea, cantando inni di rendimento di grazie[235].
L'imperatore andò ad abitare il palazzo dell'Ippodromo, perchè quello di
Blacherna, da più anni abitato soltanto dai Franchi, era imbrattato ed
annerito dal fumo. «Si vide allora, scrive Niceforo Gregora, che la
regina delle città più non era che un campo di desolazione pieno di
rottami e di ruine, molte case erano cadute, e quelle che ancora
rimanevano non erano che miseri avanzi salvati dalle fiamme. Bizanzio
aveva affatto perduta la sua bellezza ed i suoi più preziosi ornamenti
negl'incendj più volte appiccativi dai Latini, quando la ridussero in
servitù: e come ciò fosse poco, niuna cura si presero di ripararla,
quasi fossero da lungo tempo persuasi di doverla in breve
abbandonare[236].»
[234] μακρὰ καὶ ἀυτοὶ χαὶρειν ἔιπόντες Τὴν νόθον πατρίδα. _Niceph.
Gregor. l. IV, p. 43._
[235] Acropolita, che aveva composti questi inni, ci fa un
circostanziato racconto di questa ceremonia: tutto fu commovente,
tranne la vanità dello storico, _c. 88. p. 80_.
[236] _Niceforo Gregora, l. IV, c. 11. § 6, p. 43._
Ma non tutti i Latini erano usciti di città: oltre i Genovesi che
avevano ajutati i Greci a farne la conquista, eranvi ancora i Pisani e
molti Veneziani. Molti degli ultimi trattenuti dagl'interessi del loro
traffico, o dalle parentele contratte coi Greci, non avevano voluto
abbandonare nè le loro proprietà, nè la loro famiglia; altri accortisi
troppo tardi della subita perdita della città non trovarono luogo sulle
navi. Conosceva Michele troppo bene la debolezza e la povertà della sua
nuova capitale per privarsi dell'ajuto e delle ricchezze di così
industriosi abitanti: onde non solo riconfermò ai Genovesi tutti i
privilegi accordati nel precedente trattato d'alleanza, ma un egual
travamento prometteva pure ai Veneziani ed ai Pisani che volessero
soggiornare ne' suoi stati. Non però acconsentì ai primi, ch'erano i più
numerosi e resi più arroganti dalla sua amicizia, di abitare
nell'interno della città, ove potevano diventare pericolosi; e li
trasportò a Galata situata nell'opposta riva del porto, mentre non ebbe
paura di lasciare in città i Veneziani ed i Pisani sotto la
sopravveglianza del popolo che gli odiava. Del resto accordò alle tre
nazioni di appropriarsi il quartiere loro rispettivamente assegnato,
vivendo colle proprie leggi, e sotto il governo di quel magistrato che
alle determinate epoche loro manderebbe il consiglio generale della loro
patria[237]. I Genovesi intitolavano questo magistrato podestà; i
Veneziani, balìo; console i Pisani. E per tal modo i mercanti italiani
formavano in Costantinopoli tre piccole repubbliche che conservavano
l'intera loro libertà ed indipendenza, continuando i loro cittadini ad
esercitare la navigazione ed il commercio con quella industria ed
attività ch'erano allora proprie di quelle nazioni.
[237] Il ceremoniale cui i magistrati veneziani e genovesi dovevano
attenersi in Costantinopoli nelle loro comunicazioni coll'imperatore
ci fu conservato da _Codino Curopalata de Officiis Const. c. 14. §
8-14. Byz. t. XVIII. p. 91, 92._ — È cosa notabile che i Veneziani
vi sono meglio trattati dei Genovesi. _G. Pachymeris hist. l. II, c.
32, p. 89, 90. c. 35. p. 92. — Niceph. Gregora l. IV, c. 5. § 4. p.
92._
Sebbene Michele Paleologo avesse accordati tali privilegi ai Veneziani
dimoranti in Costantinopoli, non aveva però fatta la pace colla loro
repubblica, nè rinunciato alla speranza di spogliare affatto i Latini
delle isole e delle province che ancora possedevano in Levante. Attaccò
l'Eubea, facendo che quel principe si ribellasse ai Veneziani, e
s'impadronì delle isole di Lenno, di Chio, di Rodi e di molte altre,
poste nel mar Egeo[238]. Accordò per altro in feudo ai Genovesi l'isola
di Chio, volendo con ciò compensarli di quanto avevano operato a suo
favore nelle sue imprese marittime. È questo uno degli stabilimenti che
i Genovesi conservarono più lungo tempo in Levante, essendogli stato
tolto per tradimento dai Turchi soltanto del 1556, perchè i Greci che
abborrivano il clero e la signoria de' Latini favoreggiavano i
Musulmani. Oggi vi sono circa cento cinquanta mila Greci, de' quali
sessanta mila abitano la città. Quest'isola, una delle più belle colonie
de' Genovesi, non erasi conservata sotto l'immediata dipendenza della
repubblica; perchè, essendole stata data in pegno per una somma di
danaro, nove famiglie la pagarono, e fecero l'impresa a loro spese. Più
tardi queste famiglie si unirono tutte sotto il nome de' Giustiniani; e
del 1365 tutti i Giustiniani si trasportarono a Chio[239]; ove
l'assoluta oligarchia della loro famiglia si mantenne due secoli; essi
conservano ancora al presente il titolo di principi di Chio. Tutti non
lasciarono questa loro patria adottiva, essendovi ancora molti
Giustiniani in quell'isola che vivono coi prodotti delle loro terre
sotto il dominio de' Turchi; le famiglie tornate a' nostri giorni in
Genova, chiedevano ne' primi anni del presente secolo alla repubblica le
somme che le avevano date in deposito quando essa le investì del perduto
principato. Allorchè fu data ai Genovesi la proprietà dell'isola di
Chio, non erano altrimenti disposti a fondare un'oligarchia nella loro
colonia ed a render principi i loro gentiluomini. Egli era in quel tempo
presso a poco in cui cominciava a manifestarsi la discordia tra la
nobiltà ed il popolo; discordia lungo tempo fatale al riposo della
repubblica; discordia la quale pose più volte lo stato sotto il dominio
di un padrone; e la quale avrebbe finalmente distrutta affatto la
libertà, se nel carattere di un popolo marittimo non esistesse una
cotale energia che difficilmente può assoggettarsi al giogo. Gli uomini
la di cui patria non è soltanto posta sulla terra ma ancora sul libero
Oceano, non possono, tornando in porto, sopportarvi lungamente una
tirannia, dalla quale vanno esenti viaggiando sul mare.
[238] _Niceph. Gregoras. l. IV, c. 5. § 1, 5. p. 48, 49._
[239] Laonico Calcocondila, il solo degli storici greci che tratti
di questa infeudazione, ne parla assai confusamente. _De Rebus
Turcicis l. X, p. 216, Byzant. t. XVI._ Osservisi ancora la _Storia
veneta di Sandi p. I, l. IV, p. 670_. Ma io mi sono a Genova
informato da un Giustiniani, tornato da Chio colla sua famiglia 33
anni sono.
Nella prima metà del tredicesimo secolo, il poter sovrano era stato in
tal maniera diviso tra il governo ed il popolo. Eransi questi riservati
i suoi parlamenti o assemblee generali, nelle quali risolvevansi gli
affari di maggiore importanza, i cambiamenti nella costituzione, la
pace, la guerra, le alleanze. Accadde più volte, che il senato,
consultato intorno ad un importante affare, dichiarò nelle sue
deliberazioni, che potendosi compromettere l'intera nazione, alla sola
nazione toccava il decidere[240]. Più volte ancora si vide il podestà
adunare il parlamento, non solo per trattare di qualche impresa contro i
nemici dello stato, ma per formare nello stesso tempo la sua armata;
imperciocchè tutti i cittadini uniti in assemblea, dopo avere dichiarata
la guerra, prendevano le armi e seguivano lo stesso giorno il loro
pretore nel campo.
[240] Fra le altre l'anno 1238 pei gravi negoziati con Federico II.
_Barth. Scribae An. Gen. p. 479._
Finchè il popolo delibera egli stesso ed agisce senza l'interposizione
de' suoi rappresentanti, i consigli gli sono quasi affatto inutili;
quindi l'annuale senato della repubblica non figura nella storia di
Genova che a lontani intervalli, senza che si possano perciò ottenere
chiare nozioni intorno alle sue prerogative. Ma se piccola cosa sono i
consigli, importantissimi sono i magistrati, siccome coloro che
diventano depositarj di tutte le sovrane funzioni, che il popolo non ha
potuto riservare a sè stesso.
In Genova, in sull'esempio delle altre repubbliche italiane, il podestà
rimaneva un anno in carica, doveva essere forestiere e gentiluomo, ed
esercitare le incumbenze di giudice criminale, e di generale delle
truppe dello stato. Conduceva seco due legisti e due cavalieri.
Veniva in appresso un consiglio di otto nobili genovesi, eletti
probabilmente ogni anno dalle compagnie de' nobili; perciocchè pare che
i gentiluomini si fossero divisi in otto società formate sull'andare
delle associazioni popolari di Milano. Tali compagnie eransi arrogate
alcuni poteri non contemplati dalla costituzione, ma tacitamente
riconosciuti dalla repubblica. Frattanto esse di già formavano
un'oligarchia che aveva risvegliata non solo la gelosia de' plebei, ma
quella ancora de' nobili, che a principio non essendosi inscritti in
alcuna di tali associazioni, si trovarono in certo modo respinti fuori
della nazione; per la qual cosa nel 1227, essi cospirarono, ma
inutilmente, per ispogliare le compagnie nobili delle loro
prerogative[241]. Il consiglio degli otto nobili eletti da queste
compagnie era incumbenzato di tener conto delle spese e delle
riscossioni della repubblica, come pure di prestare assistenza al
podestà nelle sue funzioni; ed aveva presso di lui cinque notai del
comune.
[241] Questa congiura fu diretta da Guglielmo de' Mari. _Barthol.
Scribae, l. VI, p. 450-453._
Quattro tribunali, composti ognuno d'un console alle liti e di due
notai, amministravano la giustizia ne' quattro quartieri della città.
Venivano dalla repubblica nominati alcuni podestà subalterni per
governare le terre del territorio e specialmente quella porzione che
trovavasi oltre le Alpi liguri.
La nobiltà erasi avvantaggiata sul popolo formando delle particolari
società; il podestà era nobile, nobili i giudici ed i consoli, nobile il
solo de' consigli che avesse influenza, quello degli otto; onde il
potere della nobiltà non era soltanto grandissimo, ma in istato d'andare
ogni giorno crescendo. Però la gelosia del popolo non perdeva di vista
il potere degli otto; a ciò fare caldamente incitato da que' nobili che,
esclusi dalle già dette società, non erano soddisfatti della piccola
parte che avevano nella sovranità della loro patria. Questa gelosia si
manifestò del 1227 colla congiura di Guglielmo de' Mari, e prese un
diverso carattere in tempo che la guerra di Federico II occupava tutte
le menti non già del governo della repubblica, ma dei diritti della
nazione, di quelli della chiesa, e di quelli dell'impero. A tal epoca
non si videro che Guelfi e Ghibellini: e gli ultimi, detti _mascherati_,
affatto esclusi dalla sovranità, fecero, armata mano, molti tentativi
per ripigliare quell'autorità che si erano esclusivamente appropriata i
Guelfi[242]. L'attaccamento alle fazioni alla repubblica straniere
s'indebolì dopo la morte di Federico, ed una contesa più nazionale
intorno alle prerogative dei nobili e del popolo succedette alle fazioni
guelfe e ghibelline.
[242] Tra gli altri l'anno 1239, e l'anno 1241. _Annales Genuenses
l. VI, p. 482, 486._
I nobili che si staccano del proprio ordine per ergersi in demagoghi,
sono più avvantaggiati che tutti gli altri capi di parte, acquistando
essi facilmente la più alta e perniciosa influenza sopra coloro che
prendono a guidare. Torna loro così agevole il parer generosi, mentre
altro non sono che egoisti e calcolatori; lo spacciarsi protettori del
popolo, quando al contrario ne corteggiano il potere soltanto per
armarsi della sua forza; possono prendere a prestito tante utili virtù,
ed il popolo essere così facilmente sedotto dall'apparenza di quelle,
che costoro sono di tutti gli ambiziosi i più fortunati. Di fatti pochi
uomini, nati in città libera, hanno con modi diversi da questi usurpata
la tirannide. Genova non mancò di nobili demagoghi, e se non si
assogettò stabilmente al loro dominio, ebbe più volte l'imprudenza
d'accordar loro il supremo potere.
Il primo di questi nobili lusinghieri del popolo fu Guglielmo
Boccanigra. Nel 1257 mentre Filippo della Torre podestà dell'anno
precedente partiva alla volta di Milano sua patria, si levò contro di
lui il popolo a rumore accusandolo di venalità, ossia d'infedeltà
nell'amministrazione della repubblica. Il consiglio degli otto nobili,
ed i sindicatori della condotta dei magistrati caddero in sospetto,
perchè non avevano proceduto contro di lui con rigore. Il popolo
ripeteva ad alta voce che non voleva omai più essere la vittima di
nobili e di podestà corrotti; che voleva scegliere tra i cittadini
virtuosi un capo che fosse il depositario della sua autorità, e la di
cui passata condotta fosse la guarentìa del suo amore della patria e
della libertà: aggiunse ben tosto che Guglielmo Boccanigra era il solo
che si fosse meritata la sua confidenza colle sue costanti liberalità,
col suo amore pel popolo, soccorrendolo contra la nobiltà. I sediziosi
s'avanzarono verso la chiesa di san Siro, portando in trionfo Guglielmo,
e postolo a sedere presso l'altare, lo proclamarono capitano del popolo,
ed in tale qualità si affrettarono di prestargli il giuramento di
ubbidienza. Il susseguente giorno, i sediziosi nominarono trentadue
anziani, quattro per compagnia, per formare il consiglio del nuovo
capitano; e la prima legge che sottoposero alla loro decisione, fu
quella che determinava la durata delle funzioni di Guglielmo. Gli
anziani assecondarono la frenesia del popolo, o fecero la corte al suo
capo, decretando che Guglielmo sarebbe dieci anni capitano del popolo;
che morendo prima del termine gli verrebbe surrogato uno de' suoi
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