Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 03

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verun titolo di difendere con tutte le sue forze la libertà della Chiesa
e la fede cristiana, e di proteggere i prelati cristiani, ai quali aveva
promessa la sua assistenza.
[40] _Continuatio Caffari Annal. Genuensium Barthol. Scribae l. VI.
p. 485_, e seguenti.
In fatti non fu appena repressa una sedizione eccitata nella città dal
partito ghibellino, che la flotta genovese, già di ritorno da Nizza,
ripartì alla volta di Ostia sotto la condotta di Giacomo Malocello,
portando a bordo molti vescovi francesi. Intanto Federico aveva fatti
armare in Sicilia tutti i suoi bastimenti da guerra, i quali si unirono
in Pisa alle galere della repubblica, delle quali aveva il comando il
conte Ugolino Buzzacherino, cittadino pisano, della famiglia Sismondi,
come le navi di Federico erano sotto gli ordini di Enzio suo figliuolo.
La flotta ghibellina si pose tra la Meloria e l'isola del Giglio, ove il
giorno tre di maggio si vide a fronte la flotta genovese, che,
quantunque alquanto inferiore di forze, non rifiutò l'incontro. La
battaglia fu lunga ed accanita, ma i Ghibellini riportarono infine la
più completa vittoria. Di ventisette galere genovesi tre colarono a
fondo, e diecinove furono prese, restando prigionieri quattro mila
Genovesi, i due cardinali, i vescovi e deputati al consiglio: i primi
furono condotti in Sicilia, gli altri a Pisa, ove vennero chiusi nel
capitolo della cattedrale e caricati di catene d'argento per testificar
loro anche nella cattività qualche sorta di rispetto. Immenso fu il
bottino dai vincitori trasportato in città, dicendosi che il denaro si
divise collo stajo tra i Pisani ed i Napoletani[41].
[41] _Raynaldi ann. 1241. § 54. p. 509. — Caval. Flaminio del Borgo,
dissert. IV, p. 206_, con molte scritture originali. — _Barthol.
Scribae contin. Caffari Annal. Genuens. l. VI, p. 485. — Cronache di
Pisa di B. Marangoni. Supp. ad Scrip. Rer. Ital. t. I, p. 499. —
Petri de Vineis Epistolae l. I, cap. 8. p. 115. — Ricordano
Malespini istor. Fiorentina cap. 128. p. 962. — Paolo Tronci Annali
Pisani p. 190._
La disfatta della flotta guelfa si pubblicò da Federico come un
manifesto giudizio della provvidenza in suo favore. Pure i Genovesi che
non avevano mai avuta una così terribile rotta, e che inoltre furono
subito dopo attaccati dai Ghibellini per terra e per mare, non si
avvilirono punto, e furono i primi a mandare conforti al papa
sull'infortunio de' prelati, scongiurandolo a sostenere coraggiosamente
la libertà della Chiesa. «Dal più grande fino al minor cittadino, gli
scrivevano, tutti abbiamo dedicato le nostre vite ed i nostri beni a
vendicare una così crudele ingiuria, ed a difendere la fede santa di
Dio, e non avremo riposo finchè non vengano liberati i vostri
fratelli.... Sappia la beatitudine vostra che i cittadini di Genova
risguardano come cosa di nessuna importanza il danno sofferto; e che,
messo da banda ogni altro affare, lavorano indefessamente a fare nuovi
vascelli e ad armarli.... Quindi colle ginocchia piegate supplichiamo
vostra santità, per il sangue di Gesù Cristo che voi rappresentate in
terra, di non dar troppo valore all'infortunio da noi sofferto, e di non
abbandonare la nobil causa che avete fin ora sostenuta[42].»
[42] La lettera viene riportata per disteso dal Raynaldo all'anno
1241. § 60 e 63. È scritta in nome di Guglielmo Sordo podestà, e del
consiglio e comune genovese.
Intanto il papa scriveva ai sovrani del cristianesimo per interessarli a
suo favore, come ai prelati prigionieri per consolarli nel loro
infortunio; ed in pari tempo non trascurava la difesa di Roma e del suo
territorio contro un nuovo attacco di Federico, che essendosi guadagnato
nel sacro collegio Giovanni Colonna, cardinale di santa Prassede, aveva
col suo mezzo fatti ribellare alla santa sede i feudi di Colonna,
Lagosta, Preneste, Monticello, ec., mentre occupava colle armi Tivoli,
Alba e Grottaferrata. Ma il vecchio pontefice non potè sopportare tanti
travagli, e morì in Roma il 21 agosto del 1241, tre mesi e mezzo dopo la
fatale rotta della flotta de' suoi alleati[43].
[43] Una vita di questo pontefice fu scritta da un anonimo, e
conservata tra quelle del cardinale di Arragona. _Scrip. Ital. t.
III, p. 575._ Ma questa vita è dettata con tanto fiele contro
Federico, e con un così affettato stile, che riesce penoso il
leggerla, difficile il darle fede.
(1242) Dopo la morte di Gregorio, la sede pontificia vacò quasi due
anni; perchè appena può risguardarsi come un interrompimento
dell'interregno il pontificato di Celestino IV, milanese, prima chiamato
Goffredo da Castiglione, il quale non sopravvisse che dieciotto giorni
all'elezione. Il sacro collegio trovavasi ridotto a pochissimi
cardinali: dieci soltanto intervennero all'elezione di Celestino IV, e
non più di sei o sette potevano entrare in conclave dopo la sua morte. E
perchè per essere uno eletto papa deve avere in suo favore due terzi dei
suffragi, bastava a Federico d'avere tre partigiani tra i cardinali per
impedire ogni elezione che non fosse di suo aggradimento: talchè dopo
così accanita guerra riusciva quasi impossibile agli elettori il
mettersi d'accordo[44]. Del resto Federico ascrive ad altre non meno
verosimili cagioni la loro irresolutezza: il loro piccol numero li
avvicinava tutti in maniera al trono pontificio, che niuno di loro
sapeva rinunciare alla speranza di occuparlo. Per metterli d'accordo,
l'imperatore loro rimproverava nelle sue lettere il torto che facevano
alla Chiesa, e queste lettere erano tali che giammai altro principe non
ne aveva scritte di simili ad un conclave[45]. «A voi, diceva loro,
figliuoli di Belial; a voi figliuoli d'Effrem, greggia di dispersione
indirizzo queste parole; a voi, cardinali che siete colpevoli del
conquasso del mondo intero; a voi che siete mallevadori dello scandalo
di tutto l'universo, ec.» Questa lettera è probabilmente posteriore alle
negoziazioni per un trattato di pace, che Federico intavolò senza
effetto colla Chiesa. Quando conobbe di non potersi appacificare colla
Chiesa, nemmeno quand'era senza capo, fece ricominciare le sospese
ostilità nella campagna di Roma. Intanto più occupato del grand'affare
dell'elezione del nuovo papa che della sommissione della lega lombarda,
la lasciò molti anni in pace, o a dir meglio l'abbandonò alle
dissensioni di cui aveva in se medesima i semi.
[44] _Raynald. 1241. § 85. p. 514. e 1242. § 1. p. 515. — Matteus
Parisius hist. Angliae, an. 1242. p. 518._
[45] Questa lettera trovasi nella raccolta di quelle di Pietro delle
Vigne, _l. I, c. 17. p. 138._ ed in _Raynaldus ad ann. 1242, § 2, p.
515_.
La potenza di alcuni gentiluomini che eransi usurpati la tirannide nella
loro patria o nelle vicine città, moveva l'ambizione di tutti gli altri.
Treviso era soggetto ad Alberico da Romano; Padova, Vicenza, Verona a
suo fratello Ezelino; Ferrara al marchese d'Este; Mantova al conte di
san Bonifacio, e Ravenna aveva lungo tempo ubbidito a Paolo Traversari.
Tale era il furore delle fazioni, che all'esaltamento di una famiglia
doleva assai più la caduta del partito guelfo o ghibellino, che la
perdita della libertà. I nobili potenti speravano che le repubbliche che
tuttavia duravano, sarebbero un giorno o l'altro loro preda; ed i nobili
di second'ordine avevano la viltà di accontentarsi delle cariche che il
favore de' nuovi principi lasciava loro sperare. In quella città per
altro ove i nobili erano più eguali, quest'ordine procurava non già di
darsi un padrone, ma di ristringere l'oligarchia e di allontanare
affatto il popolo dal governo. La discordia tra i patrizj ed i plebei si
manifestò in Milano l'anno 1240. Pretendevano i primi di far rivivere
l'antica legge de' Lombardi, che limitava il compensamento di un
omicidio ad una piccola somma di danaro, cioè a sette lire e dodici
soldi di terzuoli[46]. Il popolo risguardava questa legge come fatta
contro di lui, e come quella che metteva a troppo vil prezzo il capo di
un plebeo. Lagnavasi inoltre, perchè ne' tempi in cui la repubblica
andava soggetta a spese considerabili, i nobili si liberavano da
qualunque imposta ritirandosi ne' loro castelli; e perchè, malgrado le
fresche leggi che dividevano con perfetta eguaglianza tra i due ordini
le magistrature dello stato, e le dignità della chiesa, i nobili soli ne
usurpassero tutte le cariche. Onde per sottrarsi ad un giogo che
diventava ogni giorno sempre più insopportabile, il popolo risolse di
eleggere un protettore; e Pagano della Torre, signore della Valsassina,
che aveva, dopo la rotta di Cortenova, salvata parte dell'armata
milanese, parve l'uomo più degno di occupare questa carica[47]. E per
tal modo mentre il popolo attaccava i privilegi della nobiltà, non
rinunciava al vantaggio che un'illustre nascita poteva dare alla sua
causa, e sceglieva un nobile per tribuno della democrazia.
[46] Dietro il peso della moneta milanese, di cui devo la notizia
alla gentilezza del conte Luigi Castiglione; io valuto la lira di
terzuoli di quel tempo a quindici franchi tornesi, ossia sette lire
e dodici soldi a lir. 114 di Francia.
[47] La casa della Torre di Milano pretende essere un ramo di quella
di _Latour d'Auvergne_. Ma i suoi genealogisti non si appagarono di
tale origine. Gli annali di Milano fanno rimontare i Della Torre ai
tempi di sant'Ambrogio, _c. 12. p. 649_. Il Corio li fa discendere
da un bastardo di Ettore, chiamato Franco, _p. II, p. 100_.
Finalmente un monaco che non voleva essere soverchiato, ascende in
retta linea da Pagano fino ad Adamo. _Presso il Giulini, p. 544._
Dall'altra banda i gentiluomini milanesi scelsero per loro capo un uomo
straordinario, Leone di Perego, frate eloquente dell'ordine de'
Francescani, che di que' tempi, secondo raccontano quasi tutti gli
storici, si era da sè medesimo eletto arcivescovo, valendosi della piena
facoltà che gli aveva dato il capitolo di scegliere un nuovo prelato,
siccome ad uomo di provata santità ed alieno da pensieri ambiziosi[48].
Frate Leone da quest'epoca in poi abbracciò i pregiudizj
dell'aristocrazia con quella violenza di cui era capace la sua anima di
fuoco, comunicò tutta la sua energia al proprio partito, e lo sostenne
in mezzo alle disgrazie colla sola forza del suo carattere.
[48] _Ann. Mediol. Anonimi, c. 11-13, t. XVI, p. 649. — Galvaneus
Flamma Manip. Flor. c. 273-275, t. XI, p. 677 — Conte Giulini
Memorie t. VII, l. LII, p. 542-555. — Corio storia di Milano, p. II,
p. 100-102._
Indipendentemente dalle discordie civili, l'animosità delle città, le
une contro le altre, bastava per tener viva la guerra in tutta la
Lombardia, senza che l'imperatore vi prendesse parte. Ma i piccoli
vantaggi ottenuti dai Milanesi contro i Pavesi, dai Bresciani contro i
Veronesi, dai Genovesi contro i ribelli di Savona e di Albenga,
d'Ezelino contro il marchese d'Este, non possono descriversi minutamente
che nelle particolari storie di quelle città. Nondimeno questa piccola
guerra non fu di leggier vantaggio alla parte guelfa, poichè queste
contese furono cagione che si unissero alla lega lombarda i marchesi di
Monferrato, del Cerreto e della Ceva, e le città di Vercelli e di
Novara.
(1243) Finalmente il conclave, dopo lunghe deliberazioni[49], si accordò
a collocare sulla cattedra di san Pietro Sinibaldo del Fiesco, uno de'
conti di Lavagna, cardinale di san Lorenzo in Lucina, che prese il nome
d'Innocenzo IV. Benchè non si sappia qual parte avesse Sinibaldo ne'
pubblici affari prima di essere eletto papa, raccontano tutti gli
storici ch'egli godeva dell'intima amicizia di Federico, e che fino a
tale epoca la casa de' Fieschi di Genova mostrossi attaccata al partito
ghibellino: ed è quindi facil cosa che andasse in parte debitore della
sua elezione ai partigiani dell'imperatore, i quali almeno festeggiarono
pubblicamente tale avvenimento. Parve che Federico prendesse parte alla
loro allegrezza; ma egli prevedeva troppo bene gli effetti di tanta
potenza sopra un cuore ambizioso, ed è noto aver detto con dolore ai
suoi confidenti: «Ho perduto uno zelante amico nel collegio de'
cardinali, e lo vedo trasformato in un papa che diverrà il mio più
crudele nemico[50].»
[49] Il 24 giugno.
[50] _Ricordano Malespini istorie fiorentine, c. 132, p. 964. —
Galvan. Flamma Manip. Flor. c. 276, p. 680. — Raynaldus ad an. 1243,
§ 12, p. 525. — Flaminio del Borgo nella dissertazione IV, p. 239_,
confuta questo racconto colle più deboli ragioni del mondo.
Malgrado questo pronostico che non tardò a verificarsi, Federico fece
ogni sforzo per pacificarsi colla Chiesa col mezzo di questo nuovo
pontefice. Per felicitare Innocenzo sul di lui innalzamento al trono
pontificio, e per domandare la pace, gli mandò una solenne ambasciata
composta de' più illustri personaggi de' suoi stati, il suo
gran-cancelliere Pietro delle Vigne, il gran maestro dell'ordine
teutonico, ed Ansaldo de Mari, grande ammiraglio di Sicilia,
concittadino del papa, e come lui appartenente ad una casa ghibellina.
Gli fece dire d'essere disposto ad una compiuta sommissione,
proponendogli ad un tempo un glorioso parentado per la famiglia del
Fiesco[51], il matrimonio di una nipote del papa per Corrado suo
figliuolo ed erede presuntivo. Innocenzo dal canto suo mostravasi
desideroso della pace, per cui entrò volentieri a trattarne: ma egli
domandava che precedentemente alle concessioni della Chiesa, Federico
accordasse la libertà a tutti i suoi prigionieri, e le restituisse le
terre conquistate: l'imperatore invece chiedeva che la santa sede
desistesse dal proteggere i Lombardi, e richiamasse il legato che
predicava tra que' popoli la crociata contro di lui: e perchè niente
potè ottenere dal papa di quanto gli aveva chiesto, assediò Viterbo
ch'erasi di fresco ammutinato[52].
[51] _Nicolai de Curbio, postea Episcopi Assisinatensis vita
Innocenti IV, Script. Rer. Ital. t. III, c. 11. p. 592._
[52] A quest'epoca Riccardo di san Germano termina la sua storia.
Questo scrittore coetaneo indica mese per mese colla più scrupolosa
esattezza e sufficiente imparzialità gli avvenimenti del regno delle
due Sicilie. La sua lettura non arreca molto piacere, ma istruisce
assai; ed io mi sono più volte doluto che le repubbliche lombarde
non abbiano prodotto in questo secolo alcuno scrittore del suo
merito.
(1244) Le negoziazioni si ripresero o continuarono nel susseguente anno,
e sapendosi già ammessi tutti gli articoli più importanti, si sperò
vicina la pace. L'imperatore ed il papa perdonavano reciprocamente ai
partigiani della Chiesa e dell'Impero le vicendevoli offese fattesi
durante la guerra. Federico accettava la mediazione del papa per
terminare le precedenti sue dispute coi Lombardi; Innocenzo doveva
essere rimesso nel godimento di tutte le terre che la Chiesa possedeva
avanti alle prime ostilità; tutti i prigionieri dovevano essere
liberati, ed annullate tutte le confiscazioni[53]. Ma probabilmente il
papa non acconsentiva alle concessioni che egli faceva che per acquistar
tempo, perchè conosceva quanto pericolosa fosse la sua posizione in
Roma; e forse Federico disponevasi a rompere i trattati tostochè gli si
presentasse vantaggiosa opportunità di farlo, imperciocchè quando ancora
duravano, cercava di farsi nuovi partigiani in Roma e nel suo
territorio. Egli teneva pratiche coi Frangipani perchè gli cedessero le
fortificazioni che avevano innalzate nel Coliseo, ottenendo le quali
diventava padrone di una fortezza entro la stessa Roma; onde il papa non
vedevasi omai sicuro nella sua stessa capitale, e temeva inoltre
d'essere sorpreso dai soldati dell'imperatore quando recavasi nelle
città del dominio ecclesiastico, Anagni, Città castellana, o Sutri. Il
giorno sette di giugno erasi portato a Città castellana, per dare
l'ultima mano, come egli diceva, al trattato di pace; ma infatti perchè
aveva alcun tempo prima segretamente spedito a Genova un frate
francescano per procurarsi la protezione di questa repubblica sua
patria. Il 27 giugno ebbe, stando a Sutri, notizia dell'arrivo di
ventidue galere ben armate, che i Genovesi gli avevano mandato a Civita
Vecchia; perchè in sul far della notte partì quasi solo a cavallo
vestito da soldato, e camminò con tanta celerità che appena fatto giorno
giugneva in riva al mare, avendo fatto in quella breve notte di estate
trentaquattro miglia. Quando poc'ore dopo si sparse in Sutri la notizia
della fuga del papa, i suoi partigiani andavano dicendo che Innocenzo
aveva avuto avviso dell'avvicinarsi di trecento cavalli toscani, spediti
per prenderlo; ed il papa, giunto a Civita Vecchia, diceva lo stesso;
quantunque tale racconto mal s'accordasse coll'apparecchio d'una flotta
considerabile fatto molto tempo prima per venirlo a prendere a bordo.
[53] Il trattato viene riferito da Matteo Paris. _Historia Angliæ ad
ann. 1244, p. 554_, e da Oderico Raynaldo: _ad an. 1244, § 24-29, p.
530._
Innocenzo trovò sulle galere genovesi lo stesso podestà e tre conti del
Fiesco suoi nipoti, venuti ad incontrario. Ogni galera aveva sessanta
soldati e centoquattro marinaj d'equipaggio; e tutta la flotta era
apparecchiata ad una vigorosa difesa, quando fosse attaccata: ma il
podestà riponeva la sua maggior fiducia sul profondo segreto
conservatosi intorno a questa spedizione, di cui non aveva avuto notizia
che il consiglio di credenza. Trattavasi infatti di attraversare quello
stesso mare, ove tre anni avanti erano stati fatti prigionieri i prelati
francesi, che a bordo di un'altra flotta genovese andavano al concilio.
Federico in questo stesso tempo soggiornava in Pisa, e nel precedente
anno i Pisani con ottanta loro galere e cinquantacinque di quelle
dell'imperatore erano andati ad insultar Genova. Innocenzo non si
trattenne a Civita Vecchia più di ventiquattr'ore, per dar tempo ad
alcuni cardinali di raggiungerlo, di dove, col favore d'un gagliardo
vento favorevole, passò senza incontrare verun ostacolo tra le isole del
Giglio e della Meloria tanto funeste al suo partito, ed arrivò in cinque
giorni a Portovenere, e di là dopo cinque altri giorni entrò trionfante
in Genova in mezzo alle acclamazioni de' suoi concittadini: le galere
erano pavesate con drappi d'oro, e tutta la città partecipava della
gioja d'Innocenzo vedendolo fuori di pericolo[54].
[54] _Mathæus Parisius hist. Angliæ ad an. 1244, p. 560_, e presso
_Raynaldi_. — _Nicolaus de Curbio § 13 e 14, p. 592 v. in vita
Innocentii IV._ Nicola di Curbio era confessore e cappellano del
papa, e lo accompagnò nella sua fuga. — _Barthol. Scriba an.
Genuens. l. VI, p. 504. — Flaminio del Borgo diss. dell'istoria
Pisana p. 242 e seg._ Questo scrittore, producendo manoscritti fin
allora sconosciuti, ed attentamente esaminando le lettere di Pietro
delle Vigne, sparse molta luce e rese interessantissimo questo
tratto di storia.
Quando Federico ebbe avviso della fuga del pontefice, e seppe che a
Genova non aveva voluto ascoltare il conte di Tolosa che gli aveva
mandato con nuove proposte di pace, e che senza trattenersi in Italia
s'avviava verso Lione, attribuì ad altra cagione la di lui fuga ed il
vicendevole odio. Era stata ordita in Roma una congiura contro la vita
dell'imperatore: i frati francescani eransi addossato l'incarico di
corrompere i cortigiani del principe e que' signori di cui più si
fidava. Benchè questi frati fossero banditi dal regno, vi si recavano
travestiti per tener vive colpevoli corrispondenze; e quando furono
catturati i cospiratori e condannati a morte, tutti asserirono di non
aver agito che dietro gli ordini della santa sede[55]. Federico ebbe
quest'anno (1244) i primi indizj della congiura; e forse era vero che
aveva ordinato di fermare lo stesso papa, onde confrontarlo coi
colpevoli ch'egli aveva pur dianzi scoperti, allorchè questi si
sottrasse colla fuga a tale affronto.
[55] _Petri de Vineis Epistolæ l. II, c. 10. p. 273._
Attraversando parte della Lombardia per recarsi da Genova a Lione, il
papa ridusse al partito guelfo le città di Asti e di Alessandria, che
presero parte alla lega. (1245) Giunto appena nella città che aveva
scelta per sua dimora, e postosi sotto la potente protezione di san
Luigi, convocò per la seguente festa di san Giovanni un concilio
ecumenico in Lione, ad oggetto, diceva egli, di assicurare la
Cristianità contro i Tartari, e soprattutto per sottomettere al giudizio
della Chiesa la condotta di Federico[56]. Ma senza aspettare la sentenza
che doveva pronunciare il concilio, rinnovò la scomunica fulminata
contro l'imperatore da Gregorio IX.
[56] Lettere di convocazione presso _Raynald. Ann. Eccles, 1245, §
1, p. 535_.
Intanto i vescovi d'Inghilterra, di Francia, di Spagna, ed anche alcuni
d'Italia e di Germania, adunavansi a Lione in numero di centoquaranta;
ed Innocenzo aprì il concilio nel convento di san Giusto il 28 giugno
del 1245. In tale occasione presentò al senato della Chiesa il prospetto
dei mali cui trovavasi la Chiesa esposta: ed era pur vero che i Latini
non eransi ancor trovati in più calamitosi tempi. Al nord i Tartari
Mogolli avevano invasa la Russia, la Polonia e parte dell'Ungheria.
L'Impero dei successori di Zengis[57] che comprendeva di già metà della
China, la Persia e l'Asia minore, minacciava omai d'ingojare tutta
l'Europa. Al mezzogiorno i Carismiani, cacciati dal loro paese dagli
stessi Mogolli, eransi resi padroni di Gerusalemme, ed avevano passato a
fil di spada la maggior parie dei Cristiani di Terra santa[58]. L'Impero
latino di Costantinopoli assalito da Vatace e dai Greci riducevasi alla
sola capitale, ed il sovrano di questa città mezzo deserta, per
sovvenire alla propria miseria, demoliva i palazzi de' suoi predecessori
per vendere il piombo ed il rame ond'erano coperti. Gli Occidentali,
malgrado il pericolo che loro sovrastava, non potevano unirsi per la
difesa della Cristianità, perchè la guerra tra il papa e l'imperatore
non permetteva loro di pensare a più lontane spedizioni, e perchè lo
zelo per le crociate d'Asia era omai spento, per essere promesse le
medesime indulgenze a colui che porterebbe le armi contro il capo
dell'Impero o contro i Musulmani; e perchè tutti i predicatori
apostolici indicavano di preferenza questa più facile strada dell'eterna
salute.
[57] Zengis regnò dal 1206 fino al 1227. L'anno 1235 un generale di
suo figlio intraprese la conquista del Nord. Veggasi _Gibbon c.
LXIV, vol. XI, p. 214._
[58] La perdita di Gerusalemme può in gran parte attribuirsi al
papa, che aveva sommosso questo regno contro Federico e suo figlio,
investendone Enrico di Cipro; lo che aveva cagionata una guerra
civile in uno stato di già troppo debole per difendersi. _Raynald.
ad. ann. 1246, § 52. p. 563._
Parlando dei pericoli della Chiesa, Innocenzo non si curò di ricordare
le colpe del suo capo; e per lo contrario attribuì a Federico tutte le
disgrazie e tutti i delitti, accusandolo di spergiuro, d'eresia,
d'empietà e di scandalosa unione coi Saraceni suoi sussidiarj, stabiliti
a Nocera.
Due deputati dell'imperatore, Tadeo di Suessa e Pietro delle Vigne,
eransi, d'ordine di Federico, recati al concilio per farne le difese.
Per altro il secondo, che aveva in tante altre circostanze date così
luminose prove della sua capacità, della sua facondia e del suo zelo,
tacque nella presente; e diede col suo silenzio apparente ragione a'
suoi emuli per metterlo in disgrazia del sovrano: ma Tadeo di Suessa,
escludendo le accuse date a Federico, dichiarò che questo principe non
altro aspettava che la sua riconciliazione colla Chiesa per portare le
armi contro gl'infedeli; che offriva al concilio tutte le forze del suo
Impero, della sua persona, ed i suoi tesori per difesa della fede; e
quando Innocenzo gli domandò quai mallevadori potrebbe dare di così
belle promesse, rispose Tadeo; i più potenti di Cristianità, i re di
Francia e d'Inghilterra. Noi non ci curiamo, replicò Innocenzo, d'avere
mallevadori gli amici della Chiesa, coi quali ella dovrebbe poi
inimicarsi qualunque volta il vostro padrone mancasse, com'è suo
costume, alle promesse[59].
[59] _Matteus Parisius hist. Angliæ; ad annum p. 580. — Raynald. ad
ann. § 27 e 28. p. 540. — Giannone istoria civile del regno, l.
XVII, c. 3. § 1. p. 578._
Il giorno 5 di luglio si tenne la seconda sessione del concilio.
Innocenzo rinnovò più circostanziatamente le sue accuse contro Federico,
e Tadeo le confutò nuovamente con non minore eloquenza che coraggio; al
rimprovero d'aver violati i trattati colla Chiesa, rispose esaminando ad
una ad una le supposte infrazioni; nel quale esame la condotta dello
stesso pontefice non andò esente da censura. Con minori risguardi trattò
ancora il vescovo di Catania ed un arcivescovo spagnuolo, che avevano
caldamente ridette le accuse del pontefice, dando loro a nome
dell'imperatore un'aperta mentita. Finalmente fece noto al papa ed al
concilio che Federico era già a Torino, disposto di venire a
giustificarsi personalmente; e fece calde istanze perchè fosse accordato
a questo principe un sufficiente termine per presentarsi all'assemblea.
Innocenzo rifiutò l'inchiesta, ed il concilio, ciecamente ligio, approvò
la risposta del suo capo. Nonpertanto mosso dalle istanze degli
ambasciatori di Francia e d'Inghilterra, Innocenzo differì di dodici
giorni la seguente sessione, e l'assemblea aderì alla proposta del
pontefice. Informando il suo padrone dell'assoluto predominio esercitato
dal papa sull'assemblea, Tadeo di Suessa probabilmente lo sconsigliò dal
viaggio di Lione, onde Federico non si avanzò oltre Torino. Il 17 di
luglio si tenne la terza sessione senza che l'imperatore si presentasse.
Incominciando la sessione, Tadeo dichiarò a nome di Federico, che
qualunque si fosse la sentenza di un concilio composto di così piccolo
numero di vescovi, e senza l'intervento de' procuratari de' vescovi
assenti, di un concilio al quale la maggior parte de' sovrani d'Europa
non avevano mandati ambasciatori, appellava ad un altro più solenne e
più numeroso concilio.
Innocenzo, dopo avere confutata la protesta e l'appello di Federico e
del suo ministro, fece leggere la sentenza di scomunica ch'egli aveva
preventivamente scritta. Appoggiavasi alla mancanza di fedeltà di
Federico al papa, di cui era vassallo come re di Sicilia; alla rottura
della pace più volte stabilita colla Chiesa, alla prigionia sacrilega
dei cardinali e dei prelati che andavano al concilio di Roma; finalmente
all'essersi reso colpevole d'eresia, disprezzando le scomuniche
pontificie, e collegandosi coi Saraceni, de' quali aveva adottati i
costumi: e chiudevasi con queste notabili parole: «Noi dunque che,
quantunque indegni, rappresentiamo in terra nostro Signore Gesù Cristo;
noi, ai quali nella persona di san Pietro furono dirette queste parole:
_tutto ciò che voi avrete legato in terra, sarà legato in cielo_; noi
abbiamo deliberato coi cardinali nostri fratelli, e col sacro concilio
intorno a questo principe resosi indegno dell'Impero, de' suoi regni e
di ogni onore e dignità. A motivo de' suoi delitti e delle sue iniquità
Dio lo rifiuta, e più non soffre che sia re o imperatore. Noi lo
facciamo soltanto conoscere, e lo denunziamo essere, a motivo de' suoi
peccati, rigettato da Dio, privato dal Signore di qualunque onore e
dignità; e frattanto noi pure ne lo priviamo colla nostra sentenza.
Tutti quelli che sono a lui vincolati pel loro giuramento di fedeltà,
sono da noi a perpetuità assolti e resi liberi da tale giuramento,
vietando loro espressamente e strettamente colla nostra apostolica
autorità di non più prestargli ubbidienza come ad imperatore o re, o in
qualunque altro modo pretenda di essere ubbidito. Coloro che gli daranno
soccorso o favore, come ad imperatore e re, incorrono _ipso facto_ nella
scomunica. Quelli cui spetta nell'impero l'elezione dell'imperatore,
eleggano pure liberamente il successore di questo: e rispetto al regno
di Sicilia sarà nostra cura di provvedervi col consiglio dei cardinali,
nostri fratelli, come troveremo più conveniente[60].»
[60] Dato a Lione il 16 delle calende d'agosto, l'anno III
d'Innocenzo IV.
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