Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 17

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Il conte Guido era un buon guerriero, ma non uomo di stato; e forse la
più sperimentata politica non avrebbe potuto salvarlo nelle
difficilissime circostanze in cui si trovava; ma egli fece in cambio
molti falli e si mostrò debole. Credette di dover temporeggiare, dando
qualche soddisfacimento ai Guelfi ed al popolo col chiamarli a parte del
governo. Chiamò da Bologna due frati _Gaudenti_; era questo un nuovo
ordine di cavalleria che prendeva l'impegno di difendere le vedove e gli
orfani, di mantenere la pace, d'ubbidire alla Chiesa, ma che non
legavasi con voti di castità e di povertà, come negli altri ordini. Uno
di questi due cavalieri era guelfo, l'altro ghibellino, e Guido li
nominò assieme podestà di Firenze. Diede loro un consiglio di trentasei
savj presi indistintamente tra i nobili ed i mercanti, i Guelfi ed i
Ghibellini. Accordò in appresso, dietro la domanda di questo consiglio,
che i mestieri più importanti fossero uniti in corporazioni; onde si
vennero a formare dodici corpi d'arti e mestieri[297]. Le sette
professioni che risguardaronsi come più nobili, vennero indicate col
nome di arti maggiori, e loro si accordarono consoli, capitani ed uno
stendardo, sotto il quale gli artigiani erano obbligati di adunarsi in
caso di tumulto, per conservare l'ordine nella città. Le arti minori, il
di cui numero venne in seguito accresciuto, non ebbero subito il
privilegio di formare compagnie. In tal modo il conte Guido gittò le
fondamenta d'una aristocrazia plebea, che in appresso vedremo lottare
lungo tempo colle inferiori classi del popolo. Forse il conte Guido
sperava di allearsi colla nuova aristocrazia; ma la prima cura di coloro
ch'egli aveva chiamati a parte del governo, fu quella di abbatterlo.
[297] Le arti maggiori furono i legisti, i mercanti di Calimala o
stoffe forestiere, i banchieri, i fabbricatori di lana, i medici, i
fabbricatori di sete e merciaj, ed i pellatieri. Le arti minori
erano i venditori alla spicciolata di drappi, i beccai, i calzolai,
i muratori e falegnami, i fabbri ferrai.
Le grazie accordate dalla paura non ottengono giammai riconoscenza,
perchè infatti non la meritano. I savj scelti tra la plebe si
risguardarono come difensori, e non come creature di Guido, che gli
aveva nominati. Ricusarono di sanzionare colla loro approvazione le
nuove imposte che Guido aveva bisogno di stabilire per pagare la sua
cavalleria, composta di seicento Tedeschi e di novecento ausiliarj
venuti da Pisa, Siena, Arezzo, Volterra, Colle. Volle perciò disfarsi
de' savj, facendo nascere una sedizione contro di loro. I Ghibellini si
avanzarono per attaccarli nella sala in cui rendevano ragione, ma i
trentasei si sottrassero, e vedendo che il popolo prendeva le armi per
difenderli, si unirono a lui sulla piazza innanzi al ponte santa
Trinità. Colà il popolo circondossi di steccati e stette fermo
aspettando l'urto della cavalleria. Questa non tardò a comparire, ma non
potè forzare le barricate, e nelle anguste strade che sboccavano sulla
piazza santa Trinità la cavalleria trovavasi esposta alle pietre che si
gittavano dalle finestre, e il conte Guido dovette farla ritirare.
Questa sola scaramuccia decise dei destini di Firenze; imperciocchè il
conte sgomentatosi quando vide che da tutte le parti il popolo era in
movimento contro di lui, e che da tutte le case lanciavano pietre,
credette che i primi vantaggi che otterrebbe il popolo lo farebbero più
audace, e non pensò più a conservare la sua posizione, ma soltanto a
ritirarsi con onore. Fecesi dunque recare le chiavi della città, ed
avendo fatta la rassegna de' suoi soldati per assicurarsi se tutti erano
con lui, sortì in bella ordinanza alla loro testa il giorno 11 di
novembre del 1266, ed andò la sera a Prato[298].
[298] _Gio. Villani l. VII, c. 14. p. 239. — Ricordano Malaspina c.
184. p. 1007. — Leonardo Aretino l. II. p. 65._
Ma Guido appena arrivato in questa città si pentì della debolezza con
cui aveva abbandonato Firenze senz'esserne cacciato, anzi senza quasi
avere combattuto. All'indomani in sul far del giorno, si rimise in
viaggio per tornare a Firenze, e presentatosi innanzi alla porta del
ponte alla Carraja, domandò che gli fosse aperta; ma non era più tempo.
Il popolo, che forse non sarebbe stato forte abbastanza per cacciarlo
fuor di città, poteva allora vietargliene l'ingresso. Egli si rimase
fino a mezzogiorno sotto le mura, adoperando sempre inutilmente le
preghiere, le promesse e le minacce; in fine risolse di tornare a Prato.
In questo frattempo i Fiorentini stavano riformando il governo;
congedarono i due podestà Gaudenti chiamati da Guido; chiesero ajuto ad
Orvieto la più vicina delle città guelfe; e mandarono ambasciatori a
Carlo d'Angiò per ottenere la sua assistenza.
Carlo, benchè di diverso partito, seguiva la politica di Manfredi; per
essere sicuro del regno di Napoli, voleva essere capo di parte in
Toscana ed in Lombardia, e tenere in queste contrade due vanguardie, che
impedissero l'avvicinamento de' nemici. Mandò quindi a Firenze del 1267
ottocento cavalieri francesi sotto il comando del conte Gui di Monforte;
i quali entrarono in quella città il giorno di Pasqua, mentre i
Ghibellini, che mediante una tregua vi erano tornati quell'inverno, ne
uscivano spontaneamente esiliandosi senza fare la più piccola
resistenza, e si rifugiavano a Pisa ed a Siena. Carlo si fece per dieci
anni dare la signoria della città, alla quale non era annessa che la
prerogativa di tenervi un vicario per gli affari della guerra e della
giustizia. I cittadini che avevano l'amministrazione della repubblica
sostituirono un magistrato di dodici savj a quello di trentasei
istituito da Guido Novello.
I Fiorentini formarono in seguito diversi consigli, senza il
consentimento de' quali la signoria non poteva risolvere verun affare
d'importanza. Il primo che dovevasi interpellare, si chiamò consiglio
del popolo, ed era composto di cento cittadini: da questo la
deliberazione era portata entro lo stesso giorno al consiglio di
credenza o di confidenza, nel quale sedevano di pieno diritto i capi
delle sette arti maggiori. Era la credenza composta di ottanta membri:
dal quale consiglio, come da quello del popolo, erano esclusi i
Ghibellini ed i nobili. All'indomani la stessa deliberazione veniva
assoggettata a due altri consigli, quello del podestà composto di
ottanta membri tanto nobili che plebei, senza contare i capi delle arti
che avevano diritto d'esservi ammessi, ed il consiglio generale formato
di trecento cittadini di ogni condizione[299].
[299] _Gio. Villani l. VII, c. 15 e 17, p. 241. — Ricord. Malespini
Stor. c. 186, p. 1009. — Machiavelli Stor. Fior. l. II, p. 105._
Lo stabilimento di tanti consigli, i di cui membri erano tutti
amovibili, rendeva più rare e meno necessarie le assemblee del
parlamento, ossia di tutto il popolo. Cinquecento settanta cittadini,
distribuiti in quattro classi, dovevano dare i loro suffragi su tutti
gli oggetti più importanti di legislazione e d'amministrazione, ed
avevano parte alle nomine di tutti gl'impieghi; e perchè dopo un anno
venivano loro surrogati altri cittadini, così si manteneva in tutti lo
spirito del popolo e non quello del corpo. I consigli avevano adunque
sopra il governo un'influenza veramente democratica, e se non erano che
rappresentanti, e non lo stesso popolo, potevano in cambio essere
ammessi a prendere una parte più attiva nell'amministrazione dello
stato, ciò che non avrebbe potuto fare il popolo, e conservare perciò
sopra la magistratura una più immediata influenza. Essi lo sentirono; ed
i semplici cittadini non vollero lasciare agli ordini superiori della
nazione alcuna delle prerogative che potevano riservare a sè medesimi; e
questa fu forse la principal cagione che in Firenze e nelle altre
repubbliche della Toscana rese così attiva e violenta quella gelosia del
popolo verso la nobiltà, de' plebei contro i cittadini, la quale non si
vide a così alto grado portata nelle repubbliche della Grecia. Un
effetto di tale gelosia fu l'esclusione de' nobili dai due primi
consigli.
Intanto un'altra repubblica si andava formando nell'interno della
repubblica fiorentina, la quale vi conservò pel corso di forse oltre due
secoli il suo governo indipendente, le sue leggi, la sua forza, la sua
ricchezza. Era questa l'amministrazione della parte guelfa. Quando i
Ghibellini uscirono di Firenze, i Guelfi, così consigliati dal papa e da
Carlo d'Angiò, confiscarono tutti i loro beni, de' quali, detratta la
parte impiegata ad indennizzare coloro che avevano sofferto nell'ultima
emigrazione[300], ne formarono una borsa separata, destinata a
provvedere al mantenimento ed all'accrescimento del partito guelfo. Per
amministrare questa borsa si trovò opportuno di accordare ai Guelfi una
particolare magistratura; furono autorizzati a nominare ogni due mesi
tre capi, in principio chiamati consoli di cavalleria, poi capitani di
parte. Questi consoli si diedero un consiglio segreto di quattordici
membri, ed un consiglio generale di sessanta cittadini, tre priori, un
tesoriere, un accusatore de' Ghibellini, e per dirlo in una parola,
tutta l'amministrazione d'una piccola repubblica e quasi tutta la forza
d'una sovranità[301]. Questo governo di fazione sempre pronto a
combattere, sempre regolare e sempre ricco, mantenne sino alla sua fine
sopra la sorte della repubblica la più decisa influenza.
[300] Fu nominato un giudice con sei assessori per istimare i danni
fatti dai Ghibellini ai Guelfi, stima stampata nelle _Delizie degli
Eruditi Toscani, t. VII, n.º 12, p. 203-286_. La perdita dei Guelfi
si valutò 152,160 fiorini d'oro, 8 soldi e 4 denari, o più di un
milione e mezzo di lire italiane. Prodigioso è il numero delle case
distrutte, molte delle quali non sono stimate più di 15 fiorini: il
valore medio è di cento in centocinquanta, e sono qualificate col
nome di palazzo quelle che arrivano al valore di 300 fiorini. Le
particolarità di questa stima indicano una città manifatturiere e
commerciante.
[301] _Gio. Villani l. VII, c. 16, p. 242._
I Guelfi fiorentini ebbero appena ristabilito nella loro città il
governo popolare, che presero a dare, in tutta la Toscana, superiorità
alla loro fazione. Dichiararono perciò la guerra alle repubbliche di
Siena e di Pisa che si ostinavano nella causa ghibellina, e che dovevano
inoltre lottare colle interne fazioni; perchè in tutte le città di
qualunque fazione si fossero, il popolo era geloso della nobiltà.
In luglio del 1267 i Fiorentini ed i Francesi comandati dal conte di
Monforte assediarono Poggibonzi, castello vicino a Siena, ov'eransi
rifugiati molti emigrati ghibellini e uomini d'armi tedeschi[302]. Carlo
d'Angiò, avendo dal papa ottenuto il titolo di vicario imperiale in
Toscana, volle prendere possesso in persona di tale dignità, ed il primo
giorno d'agosto dello stesso anno fece il suo solenne ingresso in
Firenze; poi venne con tutta la sua cavalleria al campo che assediava
Poggibonzi. Colà ebbe motivo di avvedersi quanto gli fosse stata
vantaggiosa la risoluzione di Manfredi, che tutto commise all'evento
d'una battaglia, invece di fermarlo ad ogni castello che difendeva il
suo regno, indebolendolo con una continuata serie d'assedj: imperciocchè
quello solo di Poggibonzi occupò quattro mesi l'armata reale de'
Francesi unita ai Fiorentini, e non s'arrese che in dicembre, quando gli
assediati non ebbero più vittovaglie.
[302] _Orlando Malavolti Stor. di Siena p. II, l. II, p. 34. —
Marangoni Cron. di Pisa p. 540. — Gio. Villani l. VII, c. 21, p.
245._
In sul cominciare del 1268 Carlo passò sul territorio di Pisa, ove
assediò e prese varj castelli di questa repubblica, fra i quali Porto
Pisano e Mutrone. Nonpertanto i Pisani non si scoraggiarono, anzi
avevano di già pensato a chiamare contro di lui dal fondo della Germania
un potente nemico, il quale fosse il loro liberatore, o almeno il loro
vendicatore. Il giovane Corradino, figliuolo di Corrado e nipote di
Federico, allevato dalla madre nella corte di suo avo, il duca di
Baviera, era entrato nell'anno sedicesimo della sua età, e di già dava a
conoscere di dover riuscire degno erede delle virtù de' suoi maggiori; e
tutti i Ghibellini tenevano gli occhi a lui rivolti, come verso il
liberatore dell'Italia ed il vendicatore della casa di Svevia. Sua madre
Elisabetta erasi presa maggior cura di renderlo degno della corona, che
di fargliela portare troppo presto. Quando Manfredi erasi dichiarato re
di Sicilia, Elisabetta aveva riclamato presso di lui per la
conservazione de' diritti del figliuolo; ma non aveva in seguito cercato
di turbare l'amministrazione di quel valoroso principe, e lo vedeva con
piacere difendere un'eredità che doveva tornare a suo figlio. Aveva
perciò accortamente rigettate le offerte de' Guelfi che, avanti la
venuta di Carlo d'Angiò, proponevanle d'armare Corradino contro Manfredi
e di fargli ricuperare gli stati de' suoi padri. Quando i Ghibellini
oppressi o esiliati da Carlo vennero a rinnovarle le medesime istanze,
quantunque accordasse maggior confidenza a questi antichi amici della
sua casa, rifiutavasi ancora alle loro istanze, trovando suo figlio
troppo giovane per governare, e sopra tutto troppo giovane per attaccare
in così lontano paese un vecchio guerriero, un vecchio politico,
sostenuto da tutto l'apparecchio della religione e dal valore d'una
bellicosa nazione. Ma i deputati ghibellini ch'eransi portati alla sua
corte, non cessavano di stimolare la madre, il figlio e que' loro
parenti che potevano avere qualche influenza sul loro spirito. I
confidenti ed antichi amici di Manfredi, Galvano e Federico Lancia,
parenti di sua madre, Corrado e Marino Capece, que' due Napoletani che
avevano accompagnato il principe di Taranto in tempo della sua fuga,
erano i deputati della nobiltà ghibellina dei due regni[303].
Rappresentavano a Corradino l'odio profondo che aveva eccitato in tutto
il regno la condotta de' Francesi, la loro mala fede, la rapacità,
l'insultante disprezzo delle pubbliche costumanze. Gli dicevano che
venuti in nome della religione, avevano profanate le chiese, spesso
uccisi i ministri dell'altare; che dopo aver promessa al popolo la
libertà, avevano violati gli antichi suoi privilegi, ed abolite le sue
immunità. Lo assicuravano che tutti i partiti farebbero causa comune per
ristabilire sul trono il legittimo erede; che la Sicilia non aspettava
che un segnale per ribellarsi, che i Saraceni di Nocera piangevano per
tenerezza al solo udire il nome dell'avo suo, di suo padre, o di suo
zio, e ch'erano disposti a tutto sacrificare per l'ultimo rampollo d'una
famiglia teneramente amata. In pari tempo gli ambasciatori di Pisa e di
Siena gli promettevano l'appoggio di metà della Toscana, che attualmente
combatteva contro il suo maggior nemico per la sua causa, quantunque non
ancora sotto il suo nome. Fecero di più; gli portarono cento mila
fiorini de' loro denari per ajutarlo a fare le prime leve. Erano pure
arrivati alla corte di Corradino alcuni ambasciatori lombardi: Martino
della Scala prometteva i soccorsi di Verona a lui subordinata e di tutti
i Ghibellini della Marca Trivigiana. Il marchese Pelavicino, cui le
vittorie de' Guelfi avevano spogliato di Cremona, Parma e Piacenza, non
comandava che ne' suoi feudi ereditarj ed in Pavia. Risiedeva
d'ordinario a borgo san Donnino; di dove mandava ambasciatori a
Corradino, offrendogli la sua persona ed i suoi soldati invecchiati al
servigio della casa di Svevia.
[303] _Sabas Malasp. Hist. Sic. l. III, c. 17, p. 832._
Corradino, caldo, impetuoso, non seppe resistere a così lusinghiere
offerte, e credè giunto l'istante di vendicare suo avo, il padre e lo
zio, sì lungo tempo e tanto crudelmente perseguitati. La principale
nobiltà di Germania si pose sotto le sue insegne. Federico, duca
d'Austria, giovane principe che come Corradino era stato spogliato de'
suoi stati da Ottocare II, re di Boemia, si offerse di dividere con lui
i pericoli della spedizione; il duca di Baviera, suo zio, ed il conte
del Tirolo, secondo marito di sua madre, armarono i loro vassalli per
accompagnarlo fino a Verona. Corradino arrivò in questa città alla fine
del 1267 con dieci mila uomini di cavalleria, dei quali meno della metà
era pesantemente armata[304]. Dopo la dimora di poche settimane in
Verona, impiegate nel rinnovare i trattati coi signori italiani, il
conte del Tirolo ed il duca di Baviera ricondussero le loro truppe in
Germania; e Corradino con circa tre mila cinquecento uomini passò a
Pavia, attraversando la Lombardia senza incontrare verun ostacolo.
[304] _Gio. Villani l. VII, c. 23, p. 246. — Monach. Patav. l. III,
p. 728. — Chronic. Veron. p. 639. — Giannone Stor. Civile l. XIX, c.
4, p. 692._
Da questa marcia Carlo poteva argomentare che Corradino entrerebbe per
la Liguria in Toscana, come veramente fece, ed il re francese per
chiudergli il passaggio erasi recato ai confini dei territorj di Lucca e
di Pisa: ma in tal tempo ebbe avviso dalla Puglia e da Roma, che
rendevasi colà necessaria la sua presenza. La ribellione aveva
incominciato ne' suoi stati, e Roma governata da un senatore suo
parente, ma suo nemico, erasi alleata con Corradino; e finalmente
Clemente IV, mandandogli la seguente lettera, lo affrettava a ritornare.
«Io non so perchè ti scriva come a re, mentre pare che tu non ti prenda
cura del tuo regno, il quale trovasi senza capo, lacerato da' Saraceni,
o da perfidi Cristiani: prima impoverito da' ladronecci de' tuoi
ministri, ora viene divorato da' tuoi nemici. Così il bruco distrugge
ciò che non potè la cavalletta. Gli spogliatori non gli mancano, bensì i
difensori. Se per tua colpa lo perdi, non lusingarti che la Chiesa
voglia rientrare in nuovi travagli e nuove spese per fartelo acquistare
un'altra volta: tu potrai allora ritornare nelle tue ereditarie contee,
e contento dell'inutile nome di re, aspettarvi gli avvenimenti. E forse
tu fai fondamento sulle tue virtù, o speri che Dio farà per te
miracolosamente quello che tu dovevi fare; oppure, tu ti fidi alla
prudenza che tu credi avere, i di cui suggerimenti anteponi agli altrui
consigli. Io ero determinato a non più scriverti di questi affari; e ti
mando solamente questi ultimi avvisi dietro le istanze del nostro
venerabile fratello Raoul, vescovo d'Alba.
«Viterbo il 5 di maggio anno 4[305].»
[305] _T. II. Epist. Clem. IV, p. 460, 462. Raynald. ad an. § 3, p.
159._
Lo spavento che sentiva il papa, e che manifestava in questa così poco
misurata lettera, era in parte prodotto da' preparativi di guerra che il
senatore di Roma andava facendo quasi sotto i suoi occhi. Questo
senatore era un principe castigliano. Alfonso X, re di Castiglia, quello
stesso che aspirò a portare la corona imperiale, aveva due fratelli,
Federico ed Enrico, che dopo essersi contro di lui ribellati co' suoi
sudditi, avevano dovuto abbandonare la Spagna e rimanersi più anni al
servigio del re di Tunisi[306]. Durante la lunga loro dimora presso i
Saraceni furono accusati d'avere adottati i costumi e la religione di
quel popolo. Enrico frattanto, stanco del suo esilio tra i Musulmani,
era dall'Affrica passato in Italia ne' tempi in cui la conquista del
regno di Napoli fatta da Carlo d'Angiò riscaldava le speranze di tutti
gli ambiziosi. Il padre d'Enrico era fratello della madre di Carlo, onde
il principe castigliano approfittò di questa parentela per essere
favorevolmente accolto da suo cugino; ed a questa aggiunse una
raccomandazione ancora più potente, prestandogli sessanta mila doppie,
prezzo de' suoi servigi presso i Saraceni e de' suoi risparmj. In fatti
Carlo lo accolse come fratello; lo raccomandò caldamente al papa, cui
chiese perfino che lo investisse del regno di Sardegna, onde toglierlo
a' Ghibellini di Pisa. Ma Carlo non tardò ad ingelosirsi dell'influenza
che Enrico andava acquistando grandissima sullo spirito del popolo di
Roma ed alla corte papale, chiese per sè medesimo il regno di Sardegna,
rifiutò di restituire al cugino il prestato denaro, ed eccitò talmente
la sua collera, che Enrico giurò di vendicarsi, quand'anche dovesse
perdere la vita[307].
[306] Alfonso di Castiglia aveva violati i privilegi nazionali;
aveva alterate le monete e stabilite nuove imposte senza il
consentimento delle Cortes. I nobili avevan tentato di formare
un'_unione_ per mantenere i loro diritti, ed il principe Enrico
erasi posto alla loro testa; ma le sue truppe essendosi sbandate a
_Nebrissa_, egli era stato costretto l'anno 1257 di fuggire a
Valenza, di dove passò a Tunisi. Lo seguirono in Affrica ed in
Italia alcuni de' gentiluomini che avevano con lui preso parte
contro il re Alfonso. _Mariana Hist. de las Hispañas l. XIII, c. 11.
— Hisp. illust. t. II, p. 599._
[307] _Gio. Villani l. VII, c. 10, p. 235. — Sabas Malaspina Hist.
Sicula, l. III, c. 18, p. 833._
Intanto i Romani inaspriti contro la nobiltà da quella stessa gelosia,
che animava a quest'epoca tutti i popoli d'Italia, avevano escluso
quest'ordine privilegiato dal governo della loro città. Avevano allora
nominati due cittadini per ogni quartiere, onde comporne il supremo loro
consiglio, e questo accordò il rango di senatore ad Enrico di Castiglia,
perchè lo credette opportuno a decorare colla sua reale nascita il nuovo
governo. Enrico aveva sotto i suoi ordini circa trecento cavalieri
spagnuoli o saraceni, che l'avevano seguìto da Tunisi in Italia; ebbe
presto il modo di farne venire degli altri; ed in pari tempo afforzò il
suo potere in Roma con una mescolanza di fermezza e di giustizia,
rimettendovi l'ordine e la sicurezza: ma fece arrestare come ostaggi
alcuni capi del partito de' nobili e de' Guelfi, due Orsini, un Savelli,
uno Stefani ed un Malabranca. Diede inallora pubblicità all'alleanza da
lui contratta con Corradino, e scrisse a questo principe per affrettarlo
a recarsi a Roma[308].
[308] _Sabas Malaspina Hist. Sicula l. III, c. 20, p. 834._
Nello stesso tempo Corrado Capece, dopo aver portate a Pisa notizie di
Corradino e dell'imminente sua venuta, aveva fatto vela alla volta di
Tunisi sopra una galera pisana per trovare Federico, fratello d'Enrico
di Castiglia, che sbarcò sulle coste della Sicilia con duecento
cavalieri spagnuoli, altrettanti tedeschi e quattrocento toscani
ch'eransi riparati in Affrica dopo la disfatta della casa di Svevia, che
ardentemente desideravano di vendicare. Le due galere che portarono
questa gente a Sciatta in Sicilia erano cariche di selle e di armi; ma i
cavalieri erano in sì misero stato ridotti, che non avevano fra tutti
più di ventidue cavalli[309]. Nulladimeno sparsero nell'isola le lettere
ed i proclami di Corradino per ricordare ai popoli la fedeltà giurata
alla sua famiglia. Bentosto le valli di Mezzara e di Noto, e tutta la
Sicilia, fuorchè Palermo, Messina e Siracusa spiegarono le insegne della
casa di Svevia; il vicario del re Carlo fu rotto da Corrado e da
Federico, ed i cavalli tolti ai Provenzali servirono ai cavalieri giunti
dall'Affrica.
[309] _Sabas Malaspina Hist. Sicula l. IV, c. 2, p. 837._
Quando Carlo ebbe avviso de' progressi de' suoi nemici in Sicilia, seppe
pure che a Luceria i Saraceni avevano prese le armi contro di lui, che
la città di Aversa nella Puglia, le città degli Abruzzi, tranne
l'Aquila, e molte città della Calabria eransi ribellate. Per queste
notizie partì subito per attaccare i suoi nemici prima che ricevessero i
soccorsi di Corradino, e, lasciando ottocento cavalieri francesi o
provenzali in Toscana sotto gli ordini di Guglielmo di Belselve, venne a
grandi giornate in Puglia ed assediò Luceria.
Frattanto Corradino, lasciata Pavia, aveva, per valicare le Alpi liguri,
divisa la sua gente in due corpi; con uno de' quali, condotto dal
marchese del Carreto, attraversando le terre di questo signore, scese
anch'egli a Varaggio presso Savona nella riviera di Ponente, nel qual
luogo i Pisani tenevano pronte dieci galere per condurlo a Pisa, dove
arrivò nel mese di maggio[310]. L'altro corpo composto della sua
cavalleria venne per le montagne di Pontremoli a Sarzana, ove fu accolto
dai Pisani medesimi, i quali vollero dare all'ultimo rampollo della casa
di Svevia sicure prove del costante attaccamento loro verso quella
famiglia. Allestirono perciò trenta galere montate da cinque mila
soldati pisani, e le spedirono verso le coste delle due Sicilie ove,
dopo aver guastato il territorio di Molo, attaccarono finalmente in
faccia a Messina la flotta combinata provenzale e siciliana di Carlo
d'Angiò e le presero ventisette galere che abbruciarono in vista del
porto[311].
[310] _Caffari continuator. An. Gen. l. VIII, p. 545. — Gio. Villani
l. VII, c. 23, p. 247. — Michael de Vico Breviar. Pisan. Hist. p.
197._
[311] _Sabas Malaspina l. IV, c. 4, p. 840._
Corradino poi ch'ebbe, alla testa dei Pisani, fatta una scorreria nel
territorio di Lucca[312], passò a Siena, ove fu accolto colle medesime
dimostrazioni di gioja. Guglielmo di Belselve, maresciallo di Carlo,
vedendo che il suo nemico avanzavasi alla volta di Roma, volendo
avvicinarlo, marciò da Fiorenza ad Arezzo; ma giunto a Ponte a Valle
sull'Arno, cadde in un'imboscata tesa dalle truppe di Corradino
comandate dagli Uberti di Firenze, e fu fatto prigioniere colla maggior
parte de' suoi soldati, essendo gli altri stati uccisi o dispersi[313].
[312] _Ptolomæi Ann. Lucenses t. XI, p. 1286._
[313] _Gio. Villani l. VII, c. 24, p. 247. — Cron. Sanese Andreæ Dei
t. XV, p. 35. — Malavolti Stor. Sien. l. II, p. II, p. 36._
Corradino, durante il sue cammino a traverso dell'Italia, aveva tre
volte ricevuto ordine dal pontefice di licenziare la sua armata, e di
venire disarmato ai piedi del principe degli apostoli a ricevere quella
sentenza che avrebbe contro di lui pubblicata, minacciandolo in caso di
rifiuto di scomunicarlo e di spogliarlo del titolo di re di Gerusalemme,
il solo che la santa sede gli avesse permesso d'ereditare da' suoi
antenati. Corradino non si era curato di tali minacce, onde Clemente
pronunciò in Viterbo, il giorno di Pasqua, la sentenza di scomunica
contro di lui e de' suoi partigiani[314], dichiarandolo decaduto dal
regno di Gerusalemme, e liberando i suoi vassalli dal giuramento di
fedeltà. Corradino non rispose altrimenti a quest'ultima bolla che
avanzandosi verso Roma alla testa della sua armata. Passando presso
Viterbo, ove dimorava il papa, che vi si era afforzato con numerosa
guarnigione, Corradino fece spiegare la sua armata innanzi alle mura
della città per incutere timore alla corte pontificia. Difatti i
cardinali ed i preti corsero spaventati a trovare Clemente, che stava
allora pregando. «Non temete, rispose loro, che tutti questi sforzi
saranno dispersi come il fumo.» Indi si recò sulle mura di dove osservò
Corradino e Federico d'Austria che facevano sfilare in parata la
cavalleria. «Queste, disse ai cardinali, sono vittime che si lasciano
condurre al sagrificio[315].»
[314] Si osservi la bolla del papa § 4-17, _p. 159-161, ad an. Ann.
Eccles. Raynaldi._
[315] _Ptolomæi Lucensis Hist. Eccles. l. XXII, c. 36, p. 1160. —
Raynald. Ann. Eccles. § 20, p. 161._
Corradino fu in Roma ricevuto dal senatore Enrico di Castiglia colla
pompa riservata ai soli imperatori. Il senatore aveva presso di lui
adunati ottocento cavalieri spagnuoli, molti uomini d'armi tedeschi, e
signori ghibellini, che avevano militato sotto Manfredi e sotto
Federico. Dopo essersi trattenuto pochi giorni in Roma per dar riposo
all'armata, ed appropriarsi i tesori del clero nascosti nelle chiese,
Corradino partì il 18 agosto alla testa di cinque mila uomini d'armi
alla volta del regno di Napoli.
Le strade del regno dalla banda della Campagna e di Ceperano trovandosi
ben fortificate e guarnite di truppe, Corradino risolse di prendere il
cammino degli Abruzzi. Passando sotto Tivoli, attraversò la valle di
Celle, e scese nella pianura di san Valentino o Tagliacozzo[316].
Informato il re Carlo della strada tenuta da Corradino levò l'assedio di
Luceria, ed avanzandosi a grandi giornate, passò la città dell'Aquila, e
si fece incontro al suo rivale nella stessa pianura di Tagliacozzo. Non
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