Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 01

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STORIA DELLE
REPUBBLICHE ITALIANE
DEI
SECOLI DI MEZZO

DI
J. C. L. SIMONDO SISMONDI
DELLE ACCADEMIE ITALIANA, DI WILNA, DI CAGLIARI,
DEI GEORGOFILI, DI GINEVRA EC.
_Traduzione dal francese._

_TOMO III._

ITALIA
1817.


STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE


CAPITOLO XVI.
_Continuazione del regno di Federico II. — Guerra della Lega
lombarda contro questo imperatore. — Viene deposto dal papa nel
concilio di Lione._
1234=1245.

Non erano appena passati sessant'anni dopo il trattato convenuto in
Venezia tra le repubbliche lombarde e l'imperatore Federico Barbarossa,
che una nuova guerra si riaccese nella stessa contrada fra la medesima
lega lombarda e Federico II, nipote del Barbarossa. Apparentemente
sembrava provocata dagli stessi motivi che avevano dato luogo alla
precedente guerra; e se da un lato pretestavansi le antiche prerogative
dell'Impero, facevansi risonare dall'altra banda i diritti de' cittadini
e la riconosciuta indipendenza delle città. Nel tredicesimo secolo,
siccome nel dodicesimo, la Chiesa non tardò a dichiararsi la protettrice
delle repubbliche ed a ferire più gravemente l'imperatore colle armi
spirituali. Si confondono facilmente i due Federici, le due leghe
lombarde, le due lunghe contese tra l'autorità reale e la libertà.
Queste due guerre sono per altro distinte da due importantissime
differenze. Era la prima necessaria; perchè, rispetto alle città,
trovavansi compromessi i loro più preziosi diritti, il loro onore, la
stessa loro esistenza. La seconda poteva facilmente risparmiarsi, se
l'insidiosa politica della corte romana non avesse accesa e tenuta viva
la discordia, e se ai Lombardi non avessero ispirata troppa fidanza le
loro ricchezze, e troppo orgoglio il sentimento della propria forza. E
siccome i motivi della guerra furono meno puri, n'ebbero altresì meno
onorevoli risultamenti. Spiegando lo stesso coraggio e la stessa
costanza del precedente secolo, ed adoperando maggiori forze, gran parte
delle repubbliche d'Italia non respinsero l'autorità imperiale, che per
cadere sotto il giogo della tirannia. L'illimitato potere dei capi di
parte, fatti sovrani, subentrò in molte città al legittimo e moderato
potere del monarca costituzionale.
Gregorio IX che appena fatto papa aveva date così luminose prove del suo
violento carattere e della sua parzialità, scomunicando Federico, erasi
posto relativamente a questo principe nella più difficile situazione.
L'imperatore regnava senza rivali in Germania, e poteva al bisogno
levare in queste contrade formidabili armate; ma preferendo all'aspro
clima della Germania i suoi regni della Puglia e della Sicilia, vi
faceva l'ordinaria sua residenza; e per tal modo trovavasi, per così
dire, alle porte di Roma; inoltre egli si era assoggettati que' baroni
che colla loro indipendenza avevano resa debole l'autorità de' suoi
predecessori: e ciò che più ancora doveva intimidire il papa, aveva dato
prove di tanta intelligenza nell'amministrazione de' suoi stati (come ne
fanno indubitata prova le sue leggi) che potè riempire il suo tesoro, ed
accrescere le sue armate senza angariare i suoi popoli[1]. In distanza
di tre in quattro marcie da Roma aveva stabilite due colonie di soldati
saraceni de' quali si era guadagnato l'amore, e ne' quali assai
confidava perchè stranieri al timore delle censure e delle scomuniche
papali. S'aggiungevano a tutti questi vantaggi la sua profonda
conoscenza della politica romana, perchè, cresciuto da fanciullo in
mezzo agl'intrighi, aveva appreso a schermirsene; e, nelle sue frequenti
controversie colla Chiesa, egli era divenuto così poco scrupoloso che
adoperava qualunque mezzo, purchè creduto utile ai suoi progetti. Nato
italiano, aveva in Italia più partigiani che mai ne avesse avuto alcun
altro imperatore; e per la debolezza de' grandi feudatarj, la sua
influenza era cresciuta a dismisura ne' ducati di Toscana, di Spoleti e
di Romagna. Nè mancava di partigiani nella stessa Roma, la quale, come
le altre città che formavano in allora lo stato della chiesa, cercava di
rendersi libera col tener viva la rivalità fra i due capi del
cristianesimo; onde, lungi dal favorire gl'interessi del papa, questi
non poteva restarvi sempre con sicurezza. Per tali motivi Gregorio IX
occupavasi incessantemente di alzare una potenza in Italia che potesse
difenderlo; e risguardava la propria esistenza come dipendente da quella
della lega lombarda. Erasene perciò dichiarato il protettore; ma mentre
cercava col mezzo de' suoi emissarj di accrescerne il coraggio, non
voleva romperla così presto con Federico, o perchè la lega acquistasse
maggiore consistenza, o perchè non si vedesse dalla medesima costretto
ad abbandonare egli stesso la neutralità.
[1] _Giannone, Istoria Civile del Regno di Napoli, l. XVI, c. 8, p.
537._
(1234) Da molti storici si dà colpa a Gregorio IX d'avere suscitato
contro Federico un rivale nella sua propria famiglia[2]. Del 1234 si
seppe in Italia che il giovane Enrico primogenito dell'imperatore, e già
da lui nominato re di Germania, disponevasi colà alla ribellione; e
seppesi poco dopo che teneva intelligenza coi deputati della lega
lombarda, e che i Milanesi avevangli promesso di mettergli in capo la
corona d'Italia che custodivasi in Monza, costantemente rifiutata a suo
padre. Intanto il papa non poteva prender parte in questa ribellione
senza rendersi doppiamente colpevole; poichè non solo avrebbe messe in
mano d'un figlio le armi contro al proprio padre, ma l'avrebbe fatto in
tempo che riceveva dal padre un servigio di grande importanza. Di fatti,
in questo stesso anno, essendo Gregorio costretto a fuggire da Roma, fu
visitato a Rieti da Federico che offerse sè ed i suoi soldati in ajuto
della Chiesa, e continuò tre mesi la guerra contro i rivoltosi
romani[3]. Vero è che non sarebbe questi stato il primo figlio che
Gregorio avrebbe armato contro il proprio padre. Il Rainaldi ci conservò
negli Annali ecclesiastici una bolla diretta dallo stesso papa l'anno
1231 ai due signori da Romano, ordinando loro di dare essi medesimi il
loro padre Ezelino II in mano del tribunale dell'inquisizione, se non
rinunciava all'eresia[4].
[2] _Galvan. Flam. Manip. Flor. c. 264, p. 671, E. t. XI. — Ann.
Mediol. c. 5, t. XVI, p. 644. — Corio p. II, p. 97. b._ — Potrebbe
darsi che questi tre storici si fossero copiati l'un l'altro, non
essendo contemporanei. Nella lettera in cui Federico parla di questa
ribellione al re di Castiglia, non accusa il papa. _Petri de Vineis
l. III, c. 26, p. 439._
[3] _Chron. Richardi de s. Germano, p. 1034._
[4] _Raynald. An. Eccles. ad an. 1231, § 22, p. 379._
(1235) Ad ogni modo qualunque siano state le segrete pratiche di
Gregorio per determinare Enrico alla ribellione, quando in sul
cominciare del susseguente anno Federico partì per recarsi in Germania
onde ricondurre suo figlio al dovere, il papa assecondò gli sforzi
dell'imperatore, scrivendo ai prelati della Germania per esortarli a non
favorire il ribelle[5]. Federico attraversò l'Adriatico da Rimini ad
Aquilea, ed entrò senz'armata in Germania, assicurato da tutti i
principi dell'Impero della loro fedeltà[6]. Lo stesso Enrico si vide
costretto a domandar grazia, e venuto a Worms a gettarsi al piedi del
padre, il quale lo mandò prigioniero in Puglia dopo di averlo dichiarato
decaduto dalla corona di Germania. Questo giovane principe, la di cui
istoria è coperta d'impenetrabili oscurità, non sortì più di prigione,
ove morì pochi anni dopo. Attestano alcuni ch'egli si meritò questa
perpetua prigionia con nuovi attentati; altri danno colpa a Federico
d'aver trattato il figliuolo con eccessivo rigore[7].
[5] _Raynal. Annal. Eccles. ad annum 1235, § 9, p. 423. — Vita
anonim. Gregorii IX, p. 581, t. III Rer. Ital._
[6] _Richardi de s. Germano Chronic. p. 1036. — Giannone l. XVII, c.
I, p. 552 e 553._
[7] Federico scrisse al clero di Sicilia deplorando la morte di suo
figliuolo, e raccomandandolo alle loro preghiere. «Per acerbo che
sia il dolore, egli dice, cagionato ai padri dalle trasgressioni dei
figliuoli, punto non iscema quello ancora più acerbo, che fa provare
la natura, allorchè si perdono.» _Petri de Vineis Epist. l. IV, c.
I, p. 543._
Non era supponibile che l'imperatore perdonasse ai Milanesi il delitto
del figliuolo, ed i pericoli cui era stato esposto; e quand'anche
avess'egli potuto dimenticare la loro offesa, Ezelino III da Romano
prendevasi cura di ricordargliela, e di eccitarlo alla vendetta. In un
altro capitolo abbiamo avuto opportunità di parlare della famiglia da
Romano e della rivalità d'Ezelino II col marchese d'Este. Ezelino III,
cui il suo secolo diede il soprannome di feroce, fisserà più lungo tempo
i nostri sguardi. Una lunga vita, talenti straordinarj, sommo coraggio,
furono da costui impiegati a stabilire una tirannide, quale l'Italia e
forse il mondo non avevano ancora veduta. L'arte con cui seppe usurpare
la sovranità in mezzo a' repubblicani gelosi della loro libertà, i
delitti commessi per conservarla, la sua grandezza, la sua caduta,
meritano d'essere studiate dagli uomini nemici della crudeltà e della
tirannide, potendo ricavarne importanti ammaestramenti.
Ezelino II dopo avere lungo tempo diretta la parte ghibellina nella
Marca Trivigiana, dopo avere ottenuti sorprendenti successi, ed avere
estesi i dominj di sua famiglia su quasi tutto il territorio posto alle
falde dei monti Euganei, erasi dato alla divozione, ed, abbandonato il
mondo, aveva divise le sue sostanze tra i suoi figliuoli. Siccome dava
voce d'essersi assoggettato a penitenze monastiche, venne chiamato
Ezelino il _monaco_[8], quantunque effettivamente avesse abbracciate le
opinioni dei Paterini o Pauliciani, che alcun tempo dopo provocarono
contro di lui le censure della Chiesa. Egli aveva due figli; Ezelino III
cui aveva dato i castelli posti tra Verona e Padova, ed Alberico,
investito dei feudi del contado trivigiano. Fino del 1232 aveva Federico
accordato ai due fratelli un diploma che li dichiarava sotto la speciale
sua protezione, ed a dir vero niun altro signore lombardo aveva maggiori
diritti al favore dell'imperatore[9].
[8] _Rolandini de factis in March. Tarvis. l. II, c. 6, p. 186._
[9] Riferito da Gerardo Maurizio, che l'aveva ottenuto egli
medesimo, _p. 35_.
Alberico conservò lungo tempo la più alta influenza sulla repubblica di
Treviso; ma siccome egli aveva strascinata questa città a dividere il
suo odio contro i signori da Camino, i più potenti gentiluomini guelfi
del territorio, questi si posero sotto la protezione della città di
Padova, una delle principali della lega lombarda, dichiarandosi suoi
cittadini; e col suo appoggio forzarono finalmente i Trevigiani a
rinunciare alla parte ghibellina per unirsi alla guelfa[10]. Ezelino
ebbe più costante il favore della sorte: la città di Verona era
governata da un senato composto di ottanta consiglieri scelti tra la
nobiltà che si rinnovavano ogni anno; e l'elezione del 1225 fu in modo
favorevole ai signori da Romano, che i Montecchi (che così chiamavansi i
loro partigiani) ne approfittarono per eccitare una sedizione, col
favore della quale cacciarono di città Riccardo, conte di san Bonifacio,
capo del partito guelfo. Il senato, dominato dal partito ghibellino,
affidò ad Ezelino i poteri di podestà col nuovo titolo di capitano del
popolo[11]. Dopo tale epoca la repubblica si governò sotto l'influenza
del signore da Romano, quantunque per lungo tempo ancora Ezelino fosse
abbastanza avveduto per non cambiare le forme della sua amministrazione.
Soltanto del 1236 egli persuase i Veronesi a ricevere nella loro città
guarnigione imperiale sotto pretesto di rendere più sicuro il partito
ghibellino. Queste truppe, poste da Federico sotto gli ordini d'Ezelino,
giovarono maravigliosamente a consolidarne il potere[12].
[10] _Rolandini l. III, c. 8, p. 205._
[11] _Vita Com. Ricciard. de s. Bonifacio p. 125. — Parisius de
Cereto Chronic. Veronense p. 624._
[12] _Chron. Veronens. p. 628._
Le città di Cremona, Parma, Modena e Reggio eransi da lungo tempo già
dichiarate per la parte ghibellina, avevano abbracciata l'alleanza di
Ezelino, e con lui formavano una federazione opposta alla lega lombarda;
per cui trovavasi questa divisa in tre parti senza sicura comunicazione:
cioè da una parte Milano, Brescia, Piacenza e le meno importanti città
del Piemonte; dall'altra Bologna colle città della Romagna, e finalmente
nella Marca, Padova, Treviso e Vicenza. Se le due comuni di Mantova e
Ferrara, la prima delle quali era influenzata dal conte di san
Bonifacio, l'altra dal marchese d'Este, si mantenevano fedeli alla lega,
avrebbero assicurata la comunicazione tra le sparse membra, che tanto
importava di riunire; ma la costituzione delle repubbliche della Marca e
di qualunque altra, ove un capo di parte poteva acquistare molta
influenza, non era propria a guarentire la stabilità dei consigli, o la
costanza dei cittadini.
Niun altro governo offre la storia, che abbia più delle aristocrazie ben
costituite dato prove di maraviglioso coraggio e d'irremovibile
costanza. Il senato di Sparta, quelli di Roma e di Venezia sostennero
sempre l'avversa fortuna con più nobilità che non fecero mai le
assemblee popolari di Atene o di Firenze. Un governo aristocratico,
forse con pregiudizio del resto della nazione, giugne ad innalzare
l'anima d'una classe privilegiata: ma ciò non si ottiene che assicurando
a questa classe dominante tutti i vantaggi della libertà, e tutti ancora
quegli affatto illusorj dell'eguaglianza, che più degli altri abbagliano
l'immaginazione. Uomini che, senza regnare, possono vantare non esservi
nell'umana razza un solo uomo loro superiore; uomini che al di sopra di
sè medesimi non vedono che l'Essere degli Esseri, e la regola delle
leggi immutabili e astratte al pari di esso; questi uomini sentono più
di tutt'altri il sentimento dell'umana fierezza, e sono capaci di forza
straordinaria, di grandi sagrificj, di grandi virtù. L'emulazione tra
gli eguali innalza il loro spirito; nè l'obbedienza che li rende degni
del comando, nè il comando che li prepara all'ubbidienza, gli avvilisce
giammai.
Ma quanto possono essere grandi i nobili, tutti fra di loro eguali,
d'una ben costituita aristocrazia, altrettanto piccoli sono d'ordinario
i nobili della seconda classe in uno stato oligarchico. La nascita può
bene dar loro un titolo al disprezzo dei loro inferiori, ma non ad
essere superbi della propria indipendenza, perchè anch'essi soggetti ad
altri. Piccoli tiranni ne' proprj castelli, e vili cortigiani presso i
nobili di primo ordine, hanno tutti i vizj dei despoti, e la viltà degli
schiavi; e non riconoscono le distinzioni della nascita che per
abbassare sè ed i loro subalterni al di sotto dell'umana dignità.
Da una tale oligarchia erano in allora governate le repubbliche della
Marca Trivigiana: la loro costituzione ammetteva la nobiltà, ma non era
fatta per la nobiltà; perciocchè la possanza di alcuni nobili non era
proporzionata nè con quella degli altri, nè con quella del rimanente
dello stato. Nondimeno i potenti cercarono sempre di conciliare l'onore
colla subordinazione; si studiarono di nascondere la vergogna attaccata
alla condizione di loro soggetti; e per traviare l'opinione, fecero
credere che l'intero abbandono di sè medesimi al servigio altrui avesse
in sè qualche cosa di veramente cavalleresco. I nobili nelle monarchie,
i gentiluomini di second'ordine nelle oligarchie mal conformate,
riputarono perciò sempre gloriosa cosa il sagrificarsi per il padrone,
quasi che il solo nome di padrone non fosse un obbrobrio per colui che
ubbidisce. Ogni città della Marca aveva tra i suoi cittadini qualche
signore feudale potente quasi al paro della stessa città; tutti gli
altri gentiluomini poi, deboli isolatamente in faccia alla nazione, che
per altro disprezzavano, brigavano il favore di questo nobile più
potente, siccome cosa di loro gloria[13]. Di qui aveva origine la
debolezza di tutti i consigli, l'incertezza delle parti, ed il costante
sacrificio del pubblico al privato interesse.
[13] Ne sia prova l'avvilimento e la venalità di Roberto Maurisio,
un nobile di second'ordine addetto ad Ezelino. Si mostra tale in
tutta la storia ch'egli scrisse, e più chiaramente a _pag. 45_.
Federico II, cedendo alle istanze di Ezelino da Romano entrò in Italia
per la valle Trentina, e giunse in Verona il 16 agosto del 1286 con tre
mila cavalli tedeschi. Dopo avere ingrossata la sua armata col partito
de' Montecchi diretto da Ezelino, s'innoltrò al di là del Mincio. Le
truppe di Cremona, Pavia, Modena e Reggio lo stavano colà aspettando.
Con sì ragguardevole ajuto entrò ne' distretti di Mantova e di Brescia,
che pose a fuoco ed a sangue.
La città di Padova, la più potente delle tre repubbliche guelfe della
Marca Trivigiana, ed a cui era appoggiata in questo lato la sorte della
lega, governavasi in allora da un monaco don Giordano, priore di san
Benedetto, risguardato qual santo, e che sapeva, colle sue prediche,
riscaldare il coraggio de' cittadini[14]: il podestà era Ramberto
Ghisilieri di Bologna; come lo era di Vicenza il marchese d'Este. I due
comuni formarono di concerto l'ardito progetto d'attaccare il distretto
di Verona mentre Ezelino si trovava coll'imperatore: ma avvertito
Federico dell'avvicinarsi della loro armata, si portò sopra Vicenza con
tanta speditezza, che giunse inaspettato fino alle porte della città
prima che il marchese d'Este ed i Padovani potessero darle soccorso[15].
I Vicentini atterriti, e trovandosi privi de' più bravi loro soldati
ch'erano all'armata, posero una debole resistenza: le loro porte furono
atterrate, la città saccheggiata, i cittadini incatenati senza
distinzione; e lo stesso storico Gerardo Maurisio, quantunque venduto ad
Ezelino ed ai Ghibellini, fu tre giorni strascinato quasi nudo per le
strade dai Tedeschi che gli avevano saccheggiata la casa. Perdette
allora tutti i suoi beni, e perfino i suoi libri, che non potè in
seguito riavere che coi soccorsi ottenuti dagli amici.
[14] _Rolandini l. III, c. 9, p. 207._
[15] _Gerardus Maurisius, p. 44 e 45. — Ant. Godius Civ. Vicent. p.
82. — Mon. Patav. p. 675. — Rolandin. p. 207._
(1237) Dopo questa conquista, Federico riprese la strada dell'Allemagna
ov'era chiamato dalla guerra che aveva importantissima con Federico,
duca d'Austria; affidando le truppe, che lasciava in Italia, ad Ezelino,
il quale seppe destramente approfittare dei successi ottenuti dal
monarca. Padova, spaventata dalla sciagura di Vicenza, abbandonava le
redini del governo a sedici de' suoi principali gentiluomini[16]; ed in
pari tempo in una radunanza generale nel palazzo nazionale, Azzone VII,
marchese d'Este, riceveva dalle mani del podestà lo stendardo del
comune, ponendo in suo arbitrio la difesa della Marca. Ma la maggior
parte de' sedici gentiluomini pur dianzi eletti erano segretamente
addetti alle parti ghibelline; e mentre il marchese tornava ad Este per
provvedere alla sicurezza delle proprie terre, il podestà non tardò ad
avvedersi che i suoi consiglieri erano entrati in negoziati coi nemici
della loro patria. Questo bravo magistrato non si scoraggiò in così
difficile circostanza, ed avendo chiamati i sedici consiglieri, chiese
loro, secondo il costume d'allora, di giurare ubbidienza a' suoi ordini.
Da ciò appare, che nelle più difficili circostanze di pericolo della
patria, veniva affidata al primo magistrato una quasi dittatoria
autorità. I consiglieri prestarono il chiesto giuramento in mano allo
storico Rolandino, a quel tempo guardasigilli del comune; ma quando
Ghisilieri ordinò loro di recarsi all'indomani mattina a Venezia e di
presentarsi a quel doge, col di cui mezzo conoscerebbero i nuovi ordini
del comune, un solo ubbidì, e tutti gli altri si ripararono nelle loro
fortezze, che fecero ribellare al partito guelfo.
[16] _Roland, l. III, c. II, p. 209._
La fuga de' principali nobili accrebbe lo scoraggiamento del popolo, il
quale andava ripetendo nelle pubbliche piazze che una città abbandonata
dai più ragguardevoli cittadini dev'essere come una nave in balìa dei
venti; che in tal modo non governavasi Venezia, la sola delle città
italiane in cui i nobili ed il popolo non avessero separati interessi.
Per dare soddisfacimento ai gentiluomini e riavvicinare i due partiti,
l'assemblea del popolo destituì il podestà Ghisilieri nominando in sua
vece Marino, dell'illustre famiglia de' Badoeri di Venezia; ma mentre i
Padovani ondeggiavano irresoluti, il marchese d'Este fece separata pace
coll'imperatore e con Ezelino, per cui duecento soldati padovani che
custodivano varie rocche, furono fatti prigionieri. Invano Marino
Badoero alla testa delle milizie della città rispingeva il 23 febbrajo
Ezelino e gl'imperiali che volevano far l'assedio di Padova, che anche
questo nuovo podestà fu forzato di ritirarsi[17]. I gentiluomini
ghibellini, poi ch'ebbero ripigliata l'amministrazione del comune,
s'affrettarono di mandare deputati ad Ezelino, offrendogli di riceverlo
in città, che dichiaravano sottomessa all'imperatore, a condizione che
le fosse guarentito il godimento della sua libertà, e liberati senza
taglia tutti i prigionieri. Ezelino non curavasi delle condizioni,
purchè in qualunque modo ottenesse d'entrare in Padova, già destinata
capitale de' suoi nuovi dominj. Si notò che quando ne prese il possesso
alla testa delle truppe imperiali, curvatosi sul suo palafreno, e
gettato indietro il caschetto di ferro, baciò le porte della città: nè
questo era certo il pegno della sua riconciliazione cogli uomini che
allora si erano a lui sottomessi.
[17] _Rolandini l. III, c. 16, p. 213._
Credevasi dai più che Ezelino avrebbe accettata la carica di podestà; ma
convien dire che incominciasse a risguardarla come al di sotto delle
nuove sue pretensioni. Incaricato da un consiglio, affatto ligio al suo
volere, di scegliere questo magistrato, ricusò da prima, con finta
modestia, di farlo a nome di tutto il popolo[18]; poi cedendo alle
comuni istanze, indicò il conte di Teatino, napoletano, uomo a lui
subordinato. Fece in appresso ordinare dalle tre repubbliche di Padova,
Vicenza e Verona, che, per la sicurezza del partito ghibellino,
prenderebbero al loro soldo delle truppe dell'imperatore, cioè cento
Tedeschi e trecento Saraceni. In tal guisa egli s'assicurò d'una gran
guardia sempre armata, e che solo dipendeva da lui.
[18] _Rolandinus l. IV, c. I, p. 215._
Intanto molti Guelfi eransi chiusi nel castello di Montagnana, ch'essi
avevano afforzato; i quali pretendevano di essere i legittimi
rappresentanti del comune di Padova, perchè erano i soli rimasti
indipendenti dal tiranno. Attaccati da Ezelino, lo respinsero
gagliardamente, quantunque combattessero sotto i suoi ordini molti
soldati tedeschi e saraceni: ma egli seppe giovarsi di questa resistenza
per assodare il suo potere in Padova. Il podestà chiese ostaggi alle
famiglie de' gentiluomini e de' cittadini che sapevansi favorevoli al
partito guelfo; in appresso adunò, senza distinzione di partito, le più
potenti persone della città, e quelle che potevano avere maggiore
influenza sui loro concittadini, e pregò tutti a dare una prova del loro
amore per la pace, e della loro sommissione all'imperatore,
allontanandosi soltanto per pochi giorni dalla città; assicurandoli in
pari tempo essere questa l'unica via di smentire le calunniose voci che
s'andavano spargendo sul conto loro, alle quali voci per altro egli non
dava alcuna fede. In fatti circa venti de' più illustri cittadini di
Padova ritiraronsi a Fontaniva, a Carturio, a Cittadella ed in altri
castelli loro indicati da Ezelino, e tutti vicini alle sue terre. Pochi
giorni dopo, senza che nulla se ne sapesse in Padova, li fece tutti
sostenere e chiudere nelle proprie fortezze o in quelle del regno di
Napoli[19]. Quando si seppe la cosa in Padova, molti cittadini risolsero
di sottrarsi colla fuga alla crescente tirannia; ma ogni volta
ch'Ezelino veniva avvisato della fuga di una famiglia, ne faceva
abbattere le torri e smantellare le case. Scrive Rolandino, che in sul
finire del dominio di questo tiranno più della metà de' palazzi di
Padova altro non erano che un mucchio di rovine.
[19] _Rolandin. l. IV, c. 3, p. 216._
Ezelino teneva gli occhi aperti per impedire ogni tumulto popolare, che
in poche ore avrebbe potuto annientare la sua potenza. Egli non si
conteneva dall'aggravare il giogo, avendo solamente riguardo di non
farlo in modo che, eccitando tutto ad un tratto lo sdegno del popolo,
non gli si porgesse occasione di prendere le armi.
Il priore di san Benedetto, don Giordano, che da quel pulpito, su cui
predicava ai cristiani, aveva lungo tempo governata la repubblica,
trovavasi in città e poteva ad ogni istante illuminare il popolo sulle
pratiche di Ezelino. Il tiranno non trascurava in ogni occasione di
mostrare il più profondo rispetto per questo ecclesiastico. Un giorno
gli mandò alcuni suoi cavalieri, pregandolo da sua parte a venire a
palazzo per consigliarlo intorno ad un affare di somma importanza. Il
priore li seguì, e montato sopra un cavallo che lo aspettava alla porta,
venne condotto al castello d'Ezelino, ove rimase lungo tempo
prigione[20]. Intanto tutti i più valorosi cittadini padovani dovettero
ascriversi alla sua milizia; ed in tal modo le loro braccia ed il loro
coraggio servirono di sostegno a quella tirannia ch'essi avrebbero
potuto rovesciare[21].
[20] _Rolandin. l. IV, c. 4. p. 218._ — Può ancora leggersi intorno
allo stabilimento della tirannia Gerardo Maurisio, creatura del
tiranno che termina la sua storia a quest'epoca _p. 47-50_: come
pure Lorenzo de' Monaci, _Ezelinus III, p. 141_; ma questi non fece
che copiare il Rolandino.
[21] Ezelino III era capo del partito ghibellino, e dichiarato
nemico della corte di Roma, la quale rovesciò sopra di lui e della
sua casa tutti i suoi fulmini perchè il più potente mantenitore dei
diritti dell'impero in Italia: fu bensì di carattere feroce, e che
non guardava troppo minutamente se i mezzi che impiegava per
giugnere a' suoi fini fossero sempre onesti, ma non in ogni parte
così scellerato uomo, quale ci viene rappresentato dallo storico
Rolandino, e da altri scrittori affatto ligi alla parte guelfa.
Siccome il nostro autore non ebbe forse sott'occhio l'accurata
storia che della famiglia degli Ezelini da Romano pubblicò,
corredata di rari documenti, il sig. abate Verci, non dispiacerà a
chi legge la presente opera di vedere accennate le ragioni che ci
devono rendere circospetti nel prestar fede agli storici guelfi.
Era troppo facile cosa che in un tempo in cui due contrarie fazioni
avevano divise tutte le città di Lombardia, anche le storie dettate
da scrittori contemporanei si risentissero della parzialità
dell'autore. Il Muratori, che più d'ogni altro doveva conoscere i
vizj delle cronache italiane, osserva ne' suoi annali, all'anno
1258, che in particolare gli storici guelfi alterarono la verità
secondo la passione che li dominò. Bastava a costoro che Ezelino si
rendesse colpevole di qualche clamorosa esecuzione capitale per
rappresentarlo come il più crudele tiranno che mai esistesse, senza
farsi carico dei motivi che potevano averlo determinato ad insevire
contro i suoi nemici, e senza contrapporre ai suoi delitti le sue
virtù. L'autore della cronaca piacentina confessando la sua
crudeltà, ne trova l'origine ne' tradimenti de' suoi sudditi:
_Propter multas proditiones quas invenit in subditis suis, et alias
quas acriter puniebat, dicitur ipsum fuisse tirannum sævum et
crudelissimum. Sc. Rer. It. t. XVI, p. 470._ «Del rimanente, fu
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