Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 11

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Manfredi per rimandare con onesti modi gli ambasciatori ghibellini offrì
loro una compagnia di cento uomini d'armi tedeschi, siccome il solo
corpo di cui potesse allora disporre. Tutti gli ambasciatori
disponevansi a partire senza accettare così debole soccorso, che non
credevano proprio che ad eccitare le risa de' loro nemici, ed a
scoraggiare affatto i loro partigiani. Ma Farinata fece loro comprendere
che dovevano approfittare delle offerte di Manfredi, qualunque si
fossero. «Facciamo soltanto d'avere i suoi stendardi nella nostra
armata, e li pianteremo in tal luogo, che ben dovrà in appresso mandarci
più importanti soccorsi.»
In maggio del 1260 l'armata guelfa fiorentina entrò nel territorio di
Siena per guastarlo; e dopo aver presi molti piccoli castelli, venne ad
accamparsi presso alle mura di Siena stessa, avanti alle porte di
Carnuglia. Frequenti erano le scaramucce tra le due parti, ma non
venivano mai a formale battaglia. Un giorno Farinata degli Uberti, dopo
avere riscaldati i Tedeschi seco condotti col vino ed altre spiritose
bevande, sortì alla loro testa di città, e caricò impetuosamente il
campo fiorentino. I Tedeschi penetrati troppo avanti tra le truppe
nemiche, non ebbero più modo di ritirarsi, e perirono tutti combattendo,
dopo aver fatto grandissimo danno ai Fiorentini, e quale non dovevano
temere da così poca gente. La bandiera di Manfredi, rimasta in potere
de' Guelfi, fu ignominiosamente strascinata nel campo, ed in appresso
portata a Firenze, ed esposta ai nuovi oltraggi della plebe. Ecco ciò
che desiderava Farinata, il quale scrisse al re di Sicilia che l'onor
suo era compromesso, e che doveva vendicare gl'insulti fatti ai suoi
stendardi; Manfredi gli mandò ottocento cavalli tedeschi ed alcuni
pedoni, che furono posti sotto gli ordini del conte Giordano d'Anglone,
ed uniti alle altre truppe ch'egli comandava col titolo di vicario
generale del re Manfredi in Toscana.
Premeva ai fuorusciti fiorentini di venire senza ritardo ad un'azione
che decidesse della loro sorte: ma i magistrati di Siena erano troppo
prudenti per seguire così caldi consigli, o per avventurarsi troppo
avanti sul territorio nemico, quantunque spalleggiati dalle truppe
ausiliarie tedesche. D'altra parte credevasi a Firenze che il re non
avesse accordati che tre mesi di paga alle sue truppe, e che, passato
questo tempo, sarebbero sforzati di ritirarsi; talchè si pensava di non
mettersi in campagna che dopo la loro partenza. I due castelli di monte
Pulciano e di mont'Alcino ch'eransi posti sotto la protezione de'
Fiorentini, trovavansi assediati da Sienesi; ma perchè situati molto al
di là di Siena, i Fiorentini non s'attentavano di soccorrerli con una
marcia pericolosa. Per determinarli ad avventurarsi nel cuore d'un paese
nemico con tutte le loro forze, onde si dovesse poi venire
necessariamente ad un fatto d'armi, Farinata intavolò un finto trattato
cogli anziani di Firenze, per opera di due frati minori. Scriveva loro
che il popolo di Siena era scontento del proprio governo; che i
fuorusciti avevano gagliardi motivi di malcontento, e perciò disposti a
riacquistare il favore della loro patria, rendendole un importante
servigio; ch'essi avevano il modo di consegnare all'armata fiorentina la
porta di san Vito a Siena, ma che per riuscire nell'intento dovevasi
loro guarentire la ricompensa di dieci mila fiorini, e fare che sotto
pretesto di soccorrere mont'Alcino si avanzasse sulle rive dell'Arbia
una potente armata. Questa trama si maneggiava da soli due anziani,
uomini presontuosi, che avevano in consiglio maggiore influenza di quel
che si meritasse la loro incapacità.
I due anziani, poi ch'ebbero ottenuto l'unanime assenso de' loro
colleghi, adunarono il consiglio del popolo; e proposero di
vettovagliare Montalcino con una più poderosa armata di quella che in
primavera di quell'anno era entrata nello stato di Siena. La maggior
parte de' gentiluomini guelfi, che nulla sapevano della macchinazione di
Farinata, ma che più de' plebei conoscevano l'arte della guerra,
s'opposero ad un'intrapresa che risguardavano come imprudentissima. Il
conte Guido Guerra, e poi Tegghiajo Aldobrandi rappresentarono come
pericolosa cosa fosse l'attraversare lo stato di Siena guardato da
un'armata di Tedeschi di cui ne avevano sperimentata la superiorità in
altro fatto d'armi, in tempo che sarebbesi potuto vettovagliare
Montalcino coll'ajuto degli Orvietani, senza strepito, senza pericolo e
con piccola spesa; in oltre doversi sperare dal tempo vantaggiosi
cambiamenti. Ma il popolo che diffidava dei nobili, ne rifiutò i
prudenti consigli. Uno degli anziani interruppe l'Aldobrandi,
villanamente rimproverandolo di non aver coraggio quando si doveva farne
uso. Cece dei Gherardini, altro gentiluomo, volle appoggiare l'opinione
di Tegghiajo, ma gli anziani gl'imposero silenzio sotto comminatoria
dell'ammenda di cento fiorini. Il cavaliere offrì subito il pagamento
dell'ammenda per avere il diritto di parlare; fu raddoppiata; indi
portata fino a quattrocento fiorini, senza che perciò rinunciasse alla
domanda di parlare; ma fu ridotto al silenzio dalla minaccia di pena
capitale, se ostinavasi a disubbidire. Intanto il popolo, ciecamente
diffidando de' gentiluomini, e ciecamente abbandonandosi ai consigli di
magistrati inesperti, ordinò la riunione dell'armata.
Affinchè fosse più poderosa, i Fiorentini chiesero ajuto a tutti i loro
alleati; onde i Lucchesi gli mandavano quante forze potevano disporre
sia d'infanteria che di cavalleria; e numerosi corpi di truppa
arrivarono pure da Bologna, Pistoja, Prato, Samminiato, san Gemignano,
Volterra e Colle di val d'Elsa. Le forze proprie de' Fiorentini
consistevano in ottocento cavalieri ascritti ai ruoli delle milizie, ed
altri cinquecento al loro soldo. Giunti sul territorio di Siena vi
trovarono quasi l'intera popolazione d'Arezzo e d'Orvieto; ricevuto il
quale ultimo rinforzo, s'innoltrarono fino a Monte aperto, montagnetta
situata cinque miglia al levante di Siena, sull'opposta riva dell'Arbia.
Colà passarono in revista l'armata, che si trovò forte di tre mila
cavalli e trenta mila fanti.
Gli anziani di Firenze aspettavano inquieti che fosse loro data in mano
la porta di san Vito, come si faceva loro sperare dai messi che d'ora in
ora mandavali Farinata, con segrete istruzioni di sedurre i principali
Ghibellini del campo fiorentino. Finalmente questa porta s'aprì tutto ad
un tratto[194], uscendone impetuosamente la cavalleria tedesca per
caricare i Guelfi, seguita da quella degli emigrati fiorentini, e da
quella che avevano potuto adunare i Sienesi, in numero di circa mille
ottocento uomini d'armi. Tennero dietro alla cavalleria cinque mila
fanti di Siena, tre mila vassalli della campagna, tre mila soldati
mandati dalla repubblica di Pisa, e due mila Tedeschi, in tutto tredici
mila uomini. Quantunque di numero assai più debole della Fiorentina,
quest'armata non era divisa d'opinione come quella de' nemici, dalla
quale staccaronsi i Ghibellini diretti dagli Abati e dai Della Pressa
per unirsi ai fuorusciti; mentre Bocca degli Abati che stava presso al
capitano dei gentiluomini, Jacopo del Vacca de' Pazzi, gli troncò con un
colpo di sciabla il braccio con cui portava lo stendardo[195].
Nell'istante in cui scoppia il tradimento, non potendosi conoscere
l'estensione del pericolo, l'immaginazione di tutti lo rende più grande;
un maresciallo di truppe tedesche, che con quattrocento cavalli aveva
girata la collina di Monte aperto, e che in quell'istante di confusione
attaccò i Fiorentini alle spalle, raddoppiò il loro terrore. La
cavalleria presa da panico timore fuggì a briglia sciolta: faceva più
lunga resistenza l'infanteria, ma trovandosi rotta la sua ordinanza, non
combatteva dietro un piano generale. Un corpo si chiuse nella rocca di
Monte aperto, ma fu ben tosto forzato d'arrendersi a discrezione; i più
valorosi eransi adunati intorno al carroccio, i quali coraggiosamente
combattendo per difenderlo, rimasero quasi tutti morti o prigionieri;
altri finalmente posti sul rovescio del colle, vedendo disfatti i primi
due corpi, cercarono salvezza colla fuga. Solamente di Fiorentini
furonvi più di due mila cinquecento uomini morti, non essendovi famiglia
che non avesse a piangere alcun suo parente: degli ausiliarj i più
maltrattati furono quelli d'Arezzo, d'Orvieto e di Lucca; talchè in
totale il numero de' morti dell'armata guelfa montò a dieci mila, e più
considerabile ancora fu quello de' prigionieri.
[194] Martedì 4 settembre 1260.
[195] La battaglia d'Arbia ebbe così importanti conseguenze, che
tutti gli storici ne hanno parlato. Noi intorno a questa guerra
abbiamo consultato _Gio. Villani l. VI, c. 79. p. 209. — Sabae
Malespinae hist. rer. Sicular. l. II, c. 4. t. VIII, p. 802. —
Ricord. Malesp. hist. Fior. c. 166. 167. p. 989. — Leon Aret, hist.
Fior. volg. d'Acciajuoli, l. II, p. 53. — Coppo de Stef. hist. Fior.
l. II. — Deliz. degli Eruditi t. VII. — Malavolti stor. di Siena p.
II, l. I, p. 17-20. — Flam. del Borgo dell'ist. Pisana Dissert. VI,
p. 357. — Giunta Tommasi hist. Sanese p. I, l. V, p. 323-337. —
Scip. Ammirato hist. Fior. l. II, p. 112-123. — Annal. Ptolomei
Lucensis t. XI, p. 1282. — Breviar. Pisanae hist. l. VI, p. 193. —
Ann. Cenuen. Contin. Caffari l. VI, p. 528. — Andrea Dei Chron.
Sanese t. XV, p. 29. cum notis Uberti Bentivoglienti. — Marangoni
Chron. di Pisa_ ec. ec. Dante allude più volte a questa battaglia, e
pone nell'inferno Bocca degli Abati, fra i traditori della patria.
_Infer. c. XXII, v. 78_, e seguenti.
Questa disfatta distrusse affatto la potenza del popolo fiorentino;
tutta la città quando n'ebbe avviso riempissi di grida di donne che
chiedevano i loro mariti, i fratelli, i figliuoli: pure rientrando i
fuggitivi l'un dietro l'altro, andavano ripetendo, dice Lionardo
Aretino, che non dovevansi piagnere coloro ch'erano morti per la patria
in battaglia, ma coloro ch'erano sopravvissuti, perchè i primi avevano
terminata gloriosamente la vita, gli altri rimasti ludibrio de' loro
nemici. E con queste parole scoraggiarono in modo i loro concittadini,
che tutta la parte guelfa risolse d'abbandonare la città, non perchè non
fosse fortificata, o mancasse di difensori capaci di tenere molto tempo
contro i nemici, ma perchè il tradimento de' Ghibellini alla battaglia
d'Arbia faceva temerne di nuovi; tanto più ch'eranvi ancora molti
Ghibellini in città, i quali tra la comune costernazione mostravano
un'insultante gioja. Un principio di discordia erasi già manifestato tra
i plebei del partito guelfo e la nobiltà, la quale disapprovava
l'imprudente spedizione nello stato di Siena, e la ruina dell'armata.
Mentre i ricchi borghesi che avevano abbracciato con zelo il partito
guelfo, mostrarono la propria ambizione, e s'abbandonarono alla loro
gelosia contro i gentiluomini della stessa fazione, il basso popolo,
straniero al governo, vedeva con indifferenza la tornata dei Ghibellini;
i quali altronde erano pure loro concittadini, la di cui vittoria non
disonorava la gloria nazionale, sicchè non dovevasi, per respingerli,
esporre la patria a nuovi pericoli.
I capi dello stato erano informati di tali sentimenti del popolo, e
tutti i più distinti cittadini del partito guelfo nobili e popolari il
13 settembre, nove giorni dopo la disfatta, uscirono di città colle loro
donne e figli. Alcuni ripararonsi a Bologna, ma i più andarono a Lucca,
ove fu loro dato il quartiere di san Friano, ed il portico che circonda
la chiesa di questo nome. Ritiraronsi egualmente a Lucca i Guelfi di
Prato, di Pistoja, di Volterra, di san Gemignano, e di tutte le città e
terre di Toscana, tranne quelli d'Arezzo, cosicchè Lucca rimase sola
costantemente il propugnacolo di tutto il partito guelfo.
Poi ch'ebbero diviso il bottino fatto sull'Arbia, i Sienesi presero a
sottomettere alcune fortezze limitrofe del territorio fiorentino, mentre
i fuorusciti ghibellini di Firenze avanzavansi verso la loro patria
sotto la condotta del conte Guido Novello, uno de' signori di Casentino,
della medesima famiglia del conte Guido Guerra, ma di opposto
partito[196]. Avevano pure con loro il conte Giordano d'Anglone ed i
cavalli tedeschi che il re Manfredi aveva loro accordati. Quest'armata
ghibellina giunse in faccia a Firenze il 27 settembre e fu ricevuta
senza opporle resistenza. I Ghibellini, postisi alla festa del governo,
abolirono tutte le leggi fatte da dieci anni in poi, per accrescere
l'autorità del popolo; e la repubblica fiorentina, benchè assoggettata
al governo de' nobili, rimase però sotto la protezione di Manfredi, cui
tutti i cittadini furono tenuti di giurare fedeltà. Il conte Guido
Novello fu nominato per due anni podestà di Firenze, ed i soldati
tedeschi del conte Giordano si pagarono colle entrate della città.
[196] Frate Ildefonso di san Luigi, Carmelitano Scalzo, consacrò una
vasta e laboriosa erudizione a fare la storia della famiglia de'
conti Guidi, e della discordia che gli attaccò a diverse fazioni.
Rilevasi da questa storia che questa nobile e potente famiglia
possedeva terre in tutte le parti della Toscana, ma specialmente
nelle montagne di Pistoja e di Arezzo; che ne aveva pure nella
Romagna, e nel ducato di Spoleti, e ch'ebbe in tutto il periodo de'
secoli di mezzo grandissima influenza su la sorte della Toscana.
_Deliz. degli Erud. Tosc. t. VIII, p. 89 a 195._
Intanto si adunò ad Empoli una dieta delle città ghibelline toscane per
trattare dell'amministrazione futura di questa provincia, e dei mezzi di
consolidare il partito ghibellino e l'autorità di Manfredi. Gli uomini
più distinti di ogni città vi si recarono con tutti que' gentiluomini
che avevano qualche dominio territoriale. Il conte Giordano aprì la
dieta colla lettura degli ordini che aveva ricevuti dal suo signore: e
perchè era richiamato nel regno colle truppe tedesche, invitava i
Ghibellini a provvedere alla propria sicurezza, onde non avessero a
soffrire qualche sinistro, in tempo della sua assenza.
Approfittando delle parole del conte, i deputati di Pisa e di Siena
dichiararono che non sapevano vedere alcun mezzo di assicurare la
fazione ghibellina, gl'interessi di Manfredi, e quelli della loro
patria, finchè lasciavasi sussistere Firenze, città ricca e popolata, la
di cui ambizione era ancora più grande delle sue forze, la quale,
essendosi risguardata lungo tempo come la capitale de' Guelfi di
Toscana, non cesserebbe giammai di favorire quel partito; che tutto il
popolo era affezionato ai Guelfi, ed aveva approfittato della morte di
Federico per attaccare i Ghibellini all'impensata; che sarebbe
certamente pronto a fare lo stesso, qualora se gli presentasse
l'opportunità di farlo; che perciò la salute della parte ghibellina era
attaccata all'intera ruina di Firenze, alla demolizione delle sue mura
ove riparavansi i loro nemici, alla dispersione di quel popolo che
adunava forze e ricchezze per vendicarsi un giorno del presente
disastro. I deputati delle città più deboli e delle terre che Firenze
aveva quasi affatto ridotte in suo dominio, sotto apparenza di
proteggerle, appoggiarono la domanda dei Pisani e dei Sienesi; come pure
fecero molti de' gentiluomini fiorentini i quali desideravano di
ricuperare l'indipendenza di cui i loro antenati godevano nelle loro
fortezze, e rompere ogni legame colle città.
Allora alzossi Farinata degli Uberti[197]: «Io non ho stimato mai,
diss'egli, con voce concitata, che dopo la battaglia dell'Arbia, e dopo
una tanta e sì rilevata vittoria, m'avesse a dolere d'essere rimasto in
vita; ora grandemente mi doglio ch'io non sono morto nella battaglia. E
veramente non è cosa alcuna umana che si possa dire stabile o ferma, e
molte volte accade che quello che noi crediamo essere giocondo, è di poi
molesto e pieno di dolore ed angustia. E non è abbastanza il vincere
nella battaglia; ma molto più importa in compagnia di chi tu vinci.
L'ingiuria più pazientemente dell'avversario, che del compagno e
collegato, si sopporta. Questa doglianza non fo al presente perchè io
tema della rovina della mia patria, perciò che in qualunque modo la cosa
passi, mentre che io sarò vivo, non sarà distrutta. Ma bene mi lamento e
con grande indegnazione mi dolgo delle sentenze di coloro che hanno
parlato innanzi a me. E pare appunto che noi ci siamo raunati in questo
luogo per consultar se la città di Firenze si debba disfare, o lasciarla
in quella condizione che ella si trova, e non a fine di pensare in che
modo insieme con l'altre si possa mantenere nello stato della parte
amica. Io non ho apparato l'arte oratoria, nè gli ornamenti del parlare,
come coloro che hanno detto innanzi a me; ma secondo il volgare
proverbio, io parlo come io so, ed apertamente dico quello che io ho
nell'animo. E pertanto io affermo che non solamente la città mia, ma
ancora me ed i miei cittadini riputerei troppo miseri ed abbietti, se a
voi stesse il disfare, o non disfare la nostra patria. E certamente voi
non lo potete fare, e non è posto in vostro arbitrio, perciò che noi con
ragioni uguali siamo venuti nella vostra lega e nella vostra
confederazione, non per disfare le città ma per conservarle. Le vostre
sentenze non so dunque se sono da essere riputate, o più vane o più
crudeli, ma e' si può dire e l'uno e l'altro: conciossiacosachè
confortino prima quello che non è posto in vostro arbitrio, appresso non
dimostrano altro che una somma crudeltà, ed uno acerbissimo odio verso i
vostri collegati. E pareva cosa più tollerabile, essendo tutti convocati
per la salute comune, por da parte gli odj, e le inimicizie antiche, e
non cercare sotto questo colore la destruzion d'altri. Ma egli
interviene che chi consiglia con odio, sempre consiglia male, e chi
desidera di nuocere al compagno non cerca l'utilità comune. Io vorrei
domandare, voi, chi è quello che avete in odio? S'egli è la terra di
Firenze, vorrei sapere che hanno fatte le case e le mura? Se sono gli
uomini, vorrei sapere se sono gli usciti, o noi che vi siamo dentro? Se
siamo noi certamente questo errore è nostro, che ci siamo intesi coi
nemici, stimando che fossero amici e collegati. Ma la vostra è ben
grande iniquità che fingete d'essere amici, e fate con noi
confederazione, e d'altra parte avete gli animi de' nemici. Se gli
usciti sono quelli che più tosto che noi avete ad odio, perchè cagione
perseguitate voi la terra, e le mura, che sono contra loro e per loro
offesa, e non difesa? E per tanto ogni volta che voi pensate della
distruzione di quella, non contra ai vostri nemici, ma contra ai vostri
confederati tornano questi vostri pensieri. Voi potreste dire, Firenze è
capo della parte guelfa. Si risponde, ch'ella era quando essi tenevano
la città, ma ora ch'ella si tiene per noi quale è la cagione ch'ella si
dice essere più della parte de' Guelfi, che de' Ghibellini? perciò che
le mura e le torri sono secondo gli abitatori di quelle. Ancora mi
potrebbe essere detto, il popolo e la moltitudine tiene con la parte
contraria. A questo si risponde che nella battaglia fatta di prossimo al
fiume dell'Arbia, si vide per esperienza, che buona parte de' cittadini
si fuggì dal canto nostro. D'onde si dimostra che il popolo più tosto
con noi tiene, che coi nostri avversarj. Appresso facilmente si può
giudicare che gli avversarj nostri abbandonando di loro propria volontà
la città di Firenze non si rifidavano nel popolo di dentro, che era
fautore della parte nostra. Ma diciamo che la moltitudine che tiene con
la parte nostra per le ragioni assegnate ci sia a sospetto, noi
ch'abbiamo vinto non meritiamo essere a sospetto o ributtati. E voi
avete trovato per rimedio che la nostra città, la quale non è inferiore
ad alcun altra di Toscana, per questo sospetto sia disfatta? Chi è
quello che dia un consiglio di questa qualità? Chi è quello che abbia
ardire un odio concepito nell'animo con la voce sì aperta di mostrare? E
pare a voi cosa conveniente che le vostre città si conservino, e la
nostra sia distrutta? e voi vi ritorniate con grande prosperità nelle
vostre patrie, e noi che insieme abbiamo acquistata la vittoria, in
scambio del nostro esiglio ci sia restituito o retribuito la destruzione
della nostra patria, più acerba e più dolente che la cacciata nostra? Ma
è alcun di voi che mi reputi tanto vile, che io abbia a restar paziente,
non dico a vedere questo, ma solamente ad udirlo? Se io ho portate
l'armi, e perseguitati i miei nemici, da altra parte io ho sempre amata
la mia patria. E non patirò mai che quella che gli avversarj
conservarono, sia per me distrutta, nè consentirò che i secoli futuri
abbiano a chiamare i nostri avversarj conservatori, e me distruttore
della patria. Non sarebbe cosa alcuna di maggiore infamia che questa, nè
cosa più vile, che per paura che non sia ricetto de' nemici disfare la
terra tua. Ma che vo io multiplicando in parole? Finalmente esca di me
una voce degna. Io dico, che se del numero de' Fiorentini non fossi se
non io solo, non patirò mai che la mia patria sia disfatta, e se mille
volte bisognasse morir per questo, mille volte sono apparecchiato alla
morte.»
[197] Questo discorso viene riferito da Leonardo Aretino e forse fu
da lui composto. Abbiamo altrove osservato, che in tutti i discorsi
solevasi prendere un testo, e che quando si permetteva ad un oratore
di parlare gli veniva domandato intorno a quale testo parlerebbe.
Racconta il Villani, ma alquanto oscuramente, che Farinata troppo
occupato dei grandi interessi della sua patria, per isvolgere
ingegnosamente qualche antico testo, propose due proverbi volgari, e
questi ancora confusi in maniera l'uno coll'altro, che non
presentavano alcun ragionevole significato. Questi proverbi sono:
_come asino sape, così minuzza rape._ _Sì va capra zoppa che lupo
non la intoppa_; ch'egli travolse così: _come asino sape sì va capra
zoppa, così minuzza rape se lupo non la intoppa._ Egli seppe non
pertanto farne applicazione al soggetto, come vedesi nello stesso
Aretino. I nemici di Firenze come i vili animali citati nel
proverbio non sapevano innalzarsi al disopra delle corte loro viste
e delle loro miserabili costumanze; zoppicavano ancora dello stesso
piede ed erano disposti a nuocere nella stessa maniera che avevano
tentato di farlo in altri tempi affatto diversi. _Gio. Villani l.
VI, c. 82. — Ricordano Malespini c. 170. — Leonardo Aretino l. II._
Avendo fatto fine al parlar suo, subito uscì di consiglio, ed era tanta
l'autorità del Farinata, che mosse gli animi di tutti gli uditori, e
massimamente perchè era cosa manifesta che nella parte ghibellina non
v'era uomo più eccellente e di più riputazione, e dubitavano tutti che
questo sdegno ch'egli aveva preso, non avesse a fare grandissimo danno
alla causa comune. E per tanto fu prestamente sopito questo ragionamento
di distruggere Firenze; e non si parlò d'altro che di placare
l'indegnazione di questo virtuoso cittadino; al quale oggetto gli furono
mandati i più riputati personaggi del suo partito, per ricondurlo
nell'assemblea, e quando rientrò, tutti i principali Ghibellini,
rinunciando ad ogni spirito di discordia, non trattarono d'altro che di
consolidare la loro fazione in Toscana con mezzi di comune aggradimento.
Convennero di assoldare a carico della lega ghibellina di tutta Toscana
mille uomini d'armi, i quali sarebbero sotto il comando del conte Guido
Novello, oltre quelli che ogni città manterrebbe per proprio conto.
Questi sono precisamente i tempi eroici della storia della moderna
Italia, i quali rimarranno sempre uniti alle memorie poetiche. Dante il
suo maggior poeta ed il più elevato ingegno nacque cinque anni dopo la
rotta d'Arbia, e fissò l'epoca della sua discesa all'inferno
quarant'anni dopo. La generazione de' suoi padri è quella ch'egli
incontra nel mondo di là, ed alla quale accorda lode o biasimo. Abbiamo
detto che Bocca degli Abati, il traditore che atterrò la bandiera
fiorentina, fu uno di coloro ch'egli vide attuffati presso al conte
Ugolino negli eterni ghiacci dell'ultimo cerchio dell'inferno. Trovò
pure nell'inferno Farinata, che il suo attaccamento alla casa di Svevia,
l'inimicizia dei papi, ed il disprezzo delle loro scomuniche, avevano
fatto colpevole d'eresia. In un vasto piano che vomitava fiamme in ogni
lato, innalzavansi qua e là de' sepolcri, a guisa di orribili caldaje
fatte rosse da perpetuo fuoco: erano aperte, ma il coperchio che doveva
chiuderle stava sospeso sopra di loro, e da quelle arche infernali
uscivano spaventose grida e sospiri.
O Tosco, che per la città del foco
Vivo ten' vai così parlando onesto,
Piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto
Di quella nobil patria natío
Alla qual forse fui troppo molesto.
Subitamente questo suono uscío
D'una dell'arche; però m'accostai,
Temendo, un poco più al duca mio.
Ed ei mi disse: volgiti, che fai?
Vedi là Farinata che s'è dritto:
Dalla cintola in su tutto 'l vedrai.
Io aveva già 'l mio viso nel suo fitto,
Ed ei s'ergea col petto e con la fronte,
Come avesse lo 'nferno in gran dispitto:
E l'animose man del duca e pronte
Mi pinser tra le sepolture a lui,
Dicendo: le parole tue sien conte.
Tosto che al piè della sua tomba fui,
Guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
Mi domandò: chi fur li maggior tui?
Io ch'era d'ubbidir desideroso,
Non gliel celai, ma tutto gliele apersi:
Ond'ei levò le ciglia un poco in soso;
Poi disse: fieramente furo avversi
A me ed a' miei primi ed a mia parte,
Sì che per duo fïate li dispersi.
S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogni parte,
Rispos'io lui, e l'una e l'altra fiata:
Ma i vostri non appreser ben quell'arte.
. . . . . . . . . . . . .
E se continuando al primo detto,
Egli han quell'arte, disse, male appresa,
Ciò mi tormenta più che questo letto.
Ma non cinquanta volte fia raccesa
La faccia della donna che qui regge,
Che tu saprai quanto quell'arte pesa:
E se tu mai nel dolce mondo regge,
Dimmi perchè quel popolo è sì empio
Incontr'a' miei in ciascuna sua legge?[198]
Ond'io a lui: lo strazio, e 'l grande scempio,
Che fece l'Arbia colorata in rosso,
Tale orazion fa far nel nostro tempio.
Poi ch'ebbe sospirando il capo scosso,
A ciò non fu' io sol, disse, nè certo
Senza cagion sarei con gli altri mosso:
Ma fu io sol colà, dove sofferto
Fu per ognun di torre via Firenze,
Colui che la difesi a viso aperto[199].
[198] Gli Uberti furono sempre eccettuati dalle tregue concesse
alcune fiate ai Ghibellini.
[199] _Dante, Inferno canto X._


CAPITOLO XX.
_Decadimento e servitù delle repubbliche lombarde. — Rivoluzioni
nelle repubbliche marittime. — Loro rivalità. — Costantinopoli
ritolta dai Greci ai Veneziani ed ai Francesi._
1250=1264.

Ne' primi tempi abbracciati da questa storia le repubbliche lombarde
richiamavano la nostra attenzione più che tutte le altre città d'Italia.
In queste solamente l'amore di libertà produceva quell'eroico coraggio
che fa sprezzare i pericoli e la vita per la difesa e per la gloria
della patria. Nella lunga lotta ch'ebbero a sostenere con Federico
Barbarossa, abbiamo veduto rinnovarsi quelle virtù che altra volta
illustravano la Grecia, e malgrado la barbarie del dodicesimo secolo
abbiamo trovato presso i loro scrittori racconti abbastanza
circostanziati per formarci un'adequata idea del loro carattere, e per
interessare vivamente il nostro cuore ne' loro infelici o prosperi
avvenimenti. Ma quest'epoca gloriosa fu di breve durata; e già in sul
cominciare del tredicesimo secolo abbiamo veduto languire quel nobile
eroismo del secolo precedente; e siamo omai giunti all'epoca in cui
mancò. Nello spazio di tempo che comprende questo capitolo, i signori
della Torre e Pelavicino stesero il loro dominio sopra quasi tutte le
città della Lombardia, nelle quali l'amore di libertà era venuto meno
anche prima che cadessero sotto la loro tirannia.
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