Il Diavolo - 07

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mattina alla sera, nel viso, nel petto, e col pollice della mano destra
nella palma della sinistra, e consigliava di segnarsi tutto il corpo,
fin dove fosse possibile di giungere con le mani. Confessava per altro
che, stante la grande ressa dei demonii, il segno della croce rimaneva
inefficace talvolta, come un'arma di cui per troppa calca di nemici più
non si possa far uso. Ciò spiega come anche l'angelo custode, sebbene
non abbandoni mai l'uomo, ma con tutte le forze anzi si adoperi in
sua difesa, possa alle volte dar poco ajuto. I diavoli, dice Ricalmo,
sono nell'aria come è il pulviscolo in un raggio di sole; anzi l'aria
stessa è come una gelatina di demonii, nella quale l'uomo è immerso
e sommerso. Si può anche dire che i diavoli involgono l'uomo come
il guscio la testuggine, o che gli stanno addosso come uno strato di
cenere. Un frate, essendo ancora novizio, vide una sera, dopo compieta,
venir giù dal cielo una gran pioggia di diavoli, e correre l'onda
impetuosamente, rigurgitando, per tutto l'atrio, e durar l'acquazzone
finchè egli ebbe recitato per intero quattro volte il salmo _Beati
quorum_. Come si vede, non colsero tutto il vero quei cabalisti i quali
dissero che ciascun uomo aveva 1000 diavoli da man destra e 10,000 da
mano manca; ciascun uomo ne aveva pure dinanzi e di dietro e di sopra;
e che l'aria ne fosse tutta pregna è anche provato dalla testimonianza
dell'anacoreta Gutlaco, il quale se li vedeva schizzare in cella
attraverso le fessure dell'uscio.

Secondo alcuni gnostici la natura è opera di angeli maledetti, e la
materia è il male, il contrario di Dio. Gli Albigesi professarono la
stessa dottrina. Senza giungere a una affermazione così categorica,
la credenza ortodossa del medio evo le si raccosta, in quanto inclina
a considerare la natura tutta intera come contaminata, come caduta
in potestà di Satana dopo il peccato dei primi parenti. La natura è
indemoniata; lo spirito di Satana la pervade e la soggioga. Il frate,
che vive murato nel suo convento come in una fortezza, la contempla
con vago senso di terrore, e vede in essa quasi l'accampamento
degli innumerevoli suoi nemici. Le selve profonde e nereggianti, le
accigliate creste dei monti, una rupe smisurata, pendente sull'orlo
del precipizio, una valle orrida e cupa, un lago immobile in mezzo a
una pianura deserta, un torrente che balza spumeggiando e mugghiando
fra travolti macigni, sono per lui come gli aspetti di una scena
minacciosa, dietro alla quale si trama un'immensa e formidabile
insidia, e d'onde prorompe ogni poco e penetra nello stesso asilo di
lui la potenza impetuosa del male. Se quello che noi diciamo sentimento
della natura sembra nel medio evo pressochè estinto, non bisogna
farsene meraviglia. Satana è nelle nuvole procellose che s'incalzan
per l'aria, nella nebbia che si stende sulle terre e sui mari, nella
pioggia che fa straripare i fiumi, nella grandine che distrugge i
raccolti, nel vortice che inghiotte la nave; Satana rugge nel vento,
divampa nella fiamma, si diffonde nella tenebra, urla nel lupo,
gracchia nel corvo, fischia nel serpe, si cela in un frutto, in un
fiore, in un granello di sabbia, è in ogni luogo, è l'anima delle cose.
Ma sebbene la giurisdizione di lui si stendesse sopra tutta la natura;
sebbene egli potesse in ogni parte della terra fermar la sua sede ed
esercitare la sua potestà, pur nondimeno v'erano luoghi nei quali
egli e il suo popolo dimoravano più volentieri che altrove, e che
parevano essere da loro in più particolar modo occupati e dominati.
Tali erano i luoghi deserti in genere, certe foreste, certi cucuzzoli
di montagna, certe isole, alcuni laghi e fiumi, le città abbandonate,
i castelli smantellati, le chiese diroccate. San Peregrino confessore,
capitato un giorno in una tenebrosa foresta, ode improvvisamente un
fragore spaventoso, e si vede accerchiato da una infinita moltitudine
di demonii, che tutti gridano a squarciagola: A che sei venuto? questa
selva ci appartiene, e serve all'esercizio della malvagità nostra.
Gervasio di Tilbury racconta in sul principio del secolo XIII che in
Catalogna è un monte dirupatissimo, sulla cui cima si raccoglie un
lago quasi nero e d'imperscrutabile profondità, e sorge, invisibile
al comune degli uomini, un palazzo abitato da demonii. San Filippo
d'Argirone cacciò i diavoli dal monte Etna. San Cutberto liberò l'isola
di Farne dai demonii che l'occupavano; e nelle storie della fondazione
di molti conventi si legge come fu necessario di togliere il luogo ai
nemici, i quali non lo lasciarono se non dopo lunga ed ostinata difesa.
Nella storia dei miracoli di San Guglielmo di Orange è ricordato un
fiume, di cui i diavoli s'erano fatti padroni. Ugone d'Alvernia trovò
in Oriente, durante la sua lunga e faticosa peregrinazione, una città
tutta intera popolata di diavoli. San Sulpizio, andato a pregare
una notte, mentr'era ancor fanciullo, in una chiesa diroccata, fu
villanamente assalito da due diavoli neri che ci stavano di casa.

Se c'erano luoghi preferiti dagli spiriti malvagi e frequentati più
volentieri da loro, non c'erano, per contro, luoghi in cui essi non
potessero penetrare e attendere alle loro faccende. Le alte e spesse
mura, le porte ferrate e munite di ponderosi catorci, non impedivano
loro d'irrompere nei chiostri; e le chiese stesse, debitamente
consacrate e regolarmente officiate, non erano sicure dalle loro
invasioni. Il chiostro e la chiesa erano come due fortezze, rimaste in
mano dei legittimi padroni in mezzo a un paese già corso e conquistato
dai nemici.
I monasteri, reputati luoghi di salvazione, erano cinti di perpetuo
assedio, e per quanto quei di dentro s'ingegnassero di far buona
guardia, non era possibile sempre vietar l'ingresso a quegli avversarli
così leggieri e spediti. Dov'erano frati e monache era sempre una
gran ressa e un grande rimescolamento di diavoli d'ogni generazione.
San Macario d'Alessandria, vissuto nel quarto secolo, vide una volta
nella sua propria città una moltitudine di piccoli diavoli, simili
a fanciulli neri, aggirarsi affaccendati tra i monaci, e tentarli in
varii modi. Alcuni accarezzavano ai servi di Dio le palpebre per farli
dormire; altri cacciavano loro in bocca le dita per farli sbadigliare.
Pietro il Venerabile narra le tribolazioni d'ogni maniera che i diavoli
davano ai santi abitatori dell'abbazia di Cluny. Cesario racconta di
un abate Ermanno, il quale vedeva i diavoli balzar fuori dalle pareti,
gironzar pel convento, mescolarsi coi monaci, correre a guisa di
picciolissimi nani su e giù per il coro, schizzando faville, o trarre
in volta gran corpi tenebrosi, con volti affocati, come di un ferro
rovente. Turbato da tali visioni, chiese per grazia a Dio d'esserne
liberato, e gli fu concesso; ma il capo di quei demonii gli si mostrò
un'ultima volta, in forma di un occhio aperto e luminoso, grande come
il pugno, pieno di vita e di malizia. Come l'occhio di Dio, l'occhio
del diavolo era per tutto, vedeva tutto. Non avevano dunque il torto
quegli antichi monaci, che a tutela dei chiostri e di sè ponevano la
notte, di contro al nemico, scolte e sentinelle: l'apostolo li aveva
messi in sull'avviso: _Vigilate!_

Nelle sculture e nelle pitture che adornano le chiese del medio evo,
i diavoli sono ritratti infinite volte, in tutti i modi, sotto tutti
gli aspetti; ma, oltrechè scolpiti e dipinti, ci si lasciavano vedere
vivi e sani, allegri e sfacciati, come in casa loro. Quanti monaci,
stando a pregare in coro, non videro i diavoli ruzzar davanti l'altare,
correre in questa banda e in quella, fare a rimpiattino tra le
panche, rotolar per terra, spenzolarsi dai capitelli, spegnere i ceri,
rovesciar le lampade, metter sozzure nei turiboli, voltar sottosopra
i messali, senza un timore, senza un rispetto al mondo! Quante volte
i maledetti non frastornarono gli oranti, non guastarono le sacre
funzioni, frammettendo ai canti sacri stonature risibili, arruffando
e confondendo nelle bocche innocenti le parole dei salmi, troncando
sul più bello il fiato agli organi, mentre il demonio Tutivillo,
serbato a quest'officio, andava raccogliendo di sulle bocche ogni
error di lettura, ogni sfarfallone di pronunzia, e ne faceva fardello,
da tirar poi fuori e sciorinare a suo tempo, nell'ora del giudizio,
dinanzi all'anime intontite! La fanciulla, nel cui seno s'agitava una
prima vampa d'amore; la moglie che non ogni pensiero aveva dato al
marito; la suora cui terribili e pur cari fantasmi turbavano i sonni,
s'accostavano tremando al confessionale, presso a cui, dietro il
bruno pilastro, era acquattato il demonio, consigliero di peccaminose
reticenze, e di più peccaminose menzogne. Forse, chi sa? quel monaco
oscuro, immobile sotto la tonaca, perduto il volto nell'ombra del
cappuccio, quel monaco silenzioso ed austero, dalle cui labbra doveva
venire la santa parola dell'esortazione e del perdono, era egli stesso
un diavolo camuffato. Se n'eran veduti di questi casi, e si ricordavano
con raccapriccio.
Racconta il già citato Gregorio di Tours come Eparchio, vescovo degli
Alverni ai tempi del re Childeberto, trovasse una notte la chiesa
sua piena di diavoli, seduto il principe loro, in figura di laida
meretrice, sulla cattedra episcopale. Cesario narra, giustamente
sdegnato e scandalizzato, di una torma di diavoli, i quali entrarono
in certa chiesa sotto forma di un branco di porci, sozzi e grugnenti.
Moltissimi indemoniati furono invasi in chiesa. Non ebbe dunque torto
l'antico ed ignoto artefice, che nella loggia esterna della chiesa
di Nostra Donna in Parigi, pose una statua di demonio, appoggiata al
parapetto, in postura di persona che stia a tutto suo agio, in luogo
non vietato, ma familiare; e non ebbe torto il Lessing, quando immaginò
di cominciare certo suo dramma non finito di Fausto con un conciliabolo
di diavoli in una chiesa. Nel dramma del Longfellow intitolato _La
leggenda aurea_, Lucifero, vestito da prete, entra in una chiesa, si
genuflette per ischerno, si meraviglia che luogo così scuro ed angusto
abbia il nome di casa di Dio, pone alcuna moneta nella cassetta delle
elemosine, ben sapendo a quale uso queste si serbino, filosofeggia
e deride, si siede nel confessionale e confessa il principe Enrico,
assolvendolo con una maledizione, poi se ne va pei fatti suoi.

Il mondo fisico era in preda a una vera infestazione diabolica; ma così
ancora era il mondo umano. In tutti i fatti della storia Satana era
immischiato, sia per promuovere, sia per contrastare e confondere. Egli
suscitava le eresie, egli poneva la tiara in capo agli antipapi e la
superbia in cuore agli imperatori, egli sommoveva i popoli, preparava
e capitanava le ribellioni e le invasioni. Le armi e le vittorie di
quei saraceni che misero in periglio la cristianità, erano armi sue,
vittorie sue. Della interminabile e varia tela della storia egli era
il tessitore più operoso e più industre. I mali costumi e le cattive
leggi, il fasto ed il lusso, gli spettacoli profani, il denaro per
cui tutto si compra e si vende, erano sue invenzioni. Gli istrioni,
i giullari, i bagatellieri, lavoravano per lui, sotto i suoi ordini.
L'uomo che si mena in casa gl'istrioni e i saltimbanchi, dice Alcuino
in una sua lettera, non sa quanto gran turba di spiriti immondi li
segua. Le danze erano un trovato di Satana, ed ogni agio che altri
potesse concedersi, ed ogni spasso, anche innocentissimo a primo
aspetto, poteva celare, e celava quasi sempre, una diabolica insidia,
e apriva l'adito alle diaboliche prepotenze. San Francesco d'Assisi,
un giorno che era fieramente travagliato da un gran male di capo e
di denti, chiede un guanciale di piuma per adagiarvi il capo; ed ecco
subito farglisi addosso il diavolo e non dargli requie fino a tanto che
il santo non abbia gettato lungi da sè il guanciale. Guiberto di Nogent
narra la storia di certi cacciatori, che credendo d'inseguire un tasso,
inseguono un demonio, lo prendono e lo mettono in un sacco; ma tosto
assaliti da una infinita moltitudine di demonii, lo lasciano andare,
e giunti a casa muojono. Finalmente Satana era bellezza, ricchezza,
ingegno, scienza: egli era in ogni vizio e poteva celarsi dietro ogni
virtù. Aveva ragione Salviano quando esterrefatto gridava: _ubique
daemon_, il diavolo è per tutto.
Con giurisdizione così larga, con tanti svariati ufficii, i diavoli
poco potevano stare in ozio. La vita loro era un perpetuo scorazzare i
mari e le terre in busca di preda, un perpetuo affaticarsi in provocar
peccati e preparare occasioni di peccato, un travagliarsi senza posa
in mille opere di nocumento. Notte e giorno la bocca dell'inferno
vomitava sopra la terra, sopra la misera umanità, le legioni dei
diavoli arrabbiati, smaniosi di far nuovo male, e ringojava le
legioni di quelli che, tentando, seducendo, insozzando, scompigliando,
distruggendo, avevano fornito il cómpito. La tresca non aveva nè fine,
nè tregua.
Al pensiero di una potenza malvagia così diffusa in ogni luogo, vigile
sempre, sempre operosa, e per giunta invisibile, gli animi dovevano
empiersi, e veramente si empievano, di terrore. La storia del medio evo
è tutta intera come aduggiata dall'ombra immane che getta sopr'essa
il nemico implacabile. Secondo una immaginazione degli arabi, in
quella estrema e sconosciuta parte dell'Oceano Atlantico che aveva
nome di Mar Tenebroso, mare seminato di portenti e di perigli, si
vedeva sorgere di mezzo all'acque, all'orizzonte, la mano smisurata
e nera del principe dei demonii, minaccia formidabile a' troppo
temerarii navigatori. Così di mezzo al mondo medievale, sopra le
città che si raccolgono intorno alle chiese cuspidate come il gregge
intorno al pastore, si leva tenebrosa e terribile, quasi in segno di
dominazione, la mano di Satana. E quel terrore che ingombra gli animi
prende forma e colore e plasticità nelle bieche visioni, nelle fosche
leggende, e in tutta un'arte tormentata e mostruosa. Chi dicesse che
nel medio evo la più gran moltitudine dei credenti fu governata assai
più dal terrore di Satana che non dall'amore di Dio, assai più dal
raccapriccio dell'inferno che dal desiderio del paradiso, non direbbe
se non il vero. Mille spedienti e mille mezzi erano stati immaginati
per contrastare alla potenza del terribile avversario, e per eludere
le sue arti; ma si andò anche più oltre, e si cercò modo di mitigare
la ferocità sua, di placarne il furore, come si userebbe con un
dio malvagio sì, ma strapotente. Satana ebbe preghiere, oblazioni e
vittime. Un benedettino francese, Pietro Bersuire (m. 1362), racconta,
in un suo libro di esempii morali, la seguente istoria. Fra certi
monti prossimi alla città di Norcia, in Italia, è un lago, abitato
da demonii, che prendono e rapiscono chiunque si avvicini ad esso,
meno gli stregoni di professione. Tutt'intorno al lago fu costruita
una muraglia, vigilata da custodi, affinchè non possano andarvi
i negromanti e consacrare i libri loro al nemico. Ma la cosa più
terribile è, che in ciascun anno, quella città deve mandare in tributo
ai demonii, sulla sponda del lago, un uomo vivo, che incontanente da
quelli è fatto a brani e divorato. La città sceglie ogni anno, a tal
fine, alcuno scellerato, degno di così miserabile morte; chè se nol
facesse, se volesse mancare del consueto tributo, sarebbe in punizione
devastata e distrutta dalle procelle.
Ad aumentar quei terrori squillava di tanto in tanto, simile al
clangore delle novissime trombe, in mezzo alla cristianità stupefatta,
l'annunzio della prossima fine del mondo. Ora, si sapeva che per un
tempo, prima della fine del mondo, la potenza di Satana, sarebbe, Dio
concedente, cresciuta a dismisura. Il bene doveva trionfare da ultimo;
ma il suo finale trionfo sarebbe stato preceduto da tale strabocco
di perversità e di mali di ogni sorta, quale non s'era veduto innanzi
sulla faccia della terra, e quale la più fervida fantasia non avrebbe
potuto immaginare. Satana doveva esser vinto; ma non senza aver dato a
Dio e alla sua Chiesa un'ultima e disperata battaglia.


CAPITOLO VII.
AMORI E FIGLI DEL DIAVOLO.

Tentando, tormentando, invadendo le anime come rocche espugnate,
Satana e gli spiriti suoi erano in perpetuo commercio con gli uomini
e stringevano con essi legami varii e molteplici. La possessione
era il legame più intimo, e comunque lo si spiegasse, riusciva pur
sempre un connubio, una specie di copula, da cui poteva seguitare una
fecondazione maligna, e una proliferazion di peccato. Ma la possessione
era una semplice copula spirituale, e i diavoli, sempre intenti a far
guadagno, con tutti i mezzi e per tutte le vie, dovevano desiderare
anche l'altra, dovevano tentare di congiungersi carnalmente con gli
uomini, di fondere in mostruose geniture l'umano e il diabolico, e
procrear figliuoli, che fossero, sino dal concepimento, consacrati
all'inferno. E procrearono figliuoli, e il mondo li conobbe, e più
d'una volta sentì il peso di lor malvagia potenza.
La cosa, per altro, non è al tutto chiara. Come fanno i diavoli a
generare? Che ne avessero facoltà pareva accertato da un luogo del
Genesi, dove sembra si dica che gli angeli ebbero commercio con le
figlie degli uomini, e generarono i giganti; e da molti si credeva
che i demonii fossero per l'appunto quegli angeli peccatori, che la
celeste loro natura avevano bruttata del fango della sensualità. Ciò
nondimeno molti dubbii si mossero, e molte difficoltà si fecero su
questo proposito da teologi di grande e di piccola levatura, e le
opinioni loro non sono gran fatto concordi. Secondo i cabalisti, i
demonii s'accoppiano regolarmente fra loro, e si propagano al modo
stesso degli uomini. In Germania è spesso ricordata tra il popolo
la nonna del diavolo, una signora non troppo cattiva, provveduta di
novecento teste; e tra gl'italiani del mezzogiorno è conosciuta, e
torna spesso nei discorsi, la mamma di lui. I rabbini nominano le
quattro mogli di Samaele, madri d'infiniti demonii. Il greco Michele
Psello, segretario dell'imperatore di Costantinopoli, monaco del Monte
Olimpo in Bitinia, filosofo, matematico, medico, oratore, alchimista
e teologo, vissuto sin verso la fine dell'XI secolo, afferma in certo
suo trattato delle operazioni dei demonii, che questi possono benissimo
generare, provveduti come sono di quanto si richiede al bisogno. Ma qui
appunto le opinioni discordano. San Tommaso d'Aquino, san Bonaventura
e infiniti altri teologi, dicono risolutamente che i diavoli non hanno
seme proprio, e perciò non generano, nel vero senso della parola; ma,
facendosi succubi, ricevono il seme dell'uomo, e poi trasformandosi
in incubi, impregnano di quel seme la donna con cui si accoppiano,
e così generano. La loro sarebbe dunque una peculiar maniera di
paternità putativa, la quale tuttavia non esclude la trasmissione di
certe qualità diaboliche alla prole generata in tal modo. Aveva torto
dunque Lodovico Dolce, quando a certo Fra Girolamo di una sua commedia
intitolata _Il Marito_ faceva dire con troppo dogmatica sicumera:
.... i demonii non possono concipere,
O per dir meglio ingravidar le femine,
Perchè non hanno seme; nè l'Altissimo
Permetteria che donna con battesimo
Ingravidata fosse dal dimonio.
Lascia pur ch'altri ciarli, che i teologi
Tutti d'accordo quant'io dico affermano.
Ma l'Altissimo permetteva al diavolo tant'altre cose; perchè avrebbe
dovuto vietargli questa? E le donne che non erano _con battesimo_?
Il popolo, che poco intende e meno gusta le distinzioni, le arguzie e
gli arzigogoli dei signori teologi, credette da senno, e senza volersi
torre la briga di venire in chiaro del modo, che i diavoli potessero
procreare figliuoli, e così séguita a credere ancora oggi giorno, per
tutto dove non abbia scosso un pochino da sè le antiche superstizioni e
l'antica ignoranza.
E perchè non avrebbero potuto i diavoli generare, se fantasmi di
donne morte potevano concepire e partorire? L'inglese Gualtiero Mapes
(m. c. 1210) racconta in certo suo libro _De nugis curialium_, ossia
_Delle frascherie dei curiali_, la mirabile storia di un cavaliere di
Brettagna, che cavalcando una notte per una valle recondita, trovò in
mezzo a una schiera di donne che si sollazzavano al cheto lume della
luna, la propria moglie, già morta da un pezzo, la rapì, come si fa di
un'innamorata, visse con lei molt'anni felicemente, e n'ebbe parecchi
figliuoli, che per soprannome furono detti i figliuoli della morta,
_filii mortuæ_.

I diavoli facevano quando da incubi, quando da succubi; quando cioè
da maschi e quando da femmine, secondo il gusto e l'opportunità; ma
mi affretto a dire, senza pretendere di darne le ragioni, che essi
volevano essere piuttosto maschi che femmine. Tommaso Cantipratense
assicura d'avere ricevuto assai volte la confessione di donne che si
dolevano d'essere state violate da incubi; e nella vita di san Bernardo
si narra la scandalosa istoria di un incubo sfacciatissimo, il quale
per più anni di fila giacque cotidianamente con certa femmina, senza
un ritegno o rispetto al mondo, tanto che si cacciava in quello stesso
letto in cui anche il povero marito dormiva.
Che la natura umana potesse essere profondamente turbata e sconvolta
da quegli spaventosi contatti; che gli amplessi diabolici potessero
tornare alle volte mortali, non parrà strano a nessuno, e chi ne
voglia gli esempii può trovarne a bizzeffe negli scrittori. Tommaso
Walsingham, monaco di sant'Albano d'Inghilterra circa il 1440, racconta
la terribile storia di una fanciulla, che contaminata da un diavolo,
morì in capo di tre giorni, enfiata per tutto il corpo, spandendo
intorno orribile fetore. Cesario va più in là e racconta di una donna,
la quale abbracciata (non altro che abbracciata) da un diavolo vestito
di bianco, impazzì subitamente e morì poco dopo; e di un'altra, cui un
diavolo travestito da servo toccò la mano, e che ebbe la stessa sorte.
Ben più strano parrà, credo, che donne di carne e d'ossa potessero
reggere per anni ed anni a quei connubii senza troppo risentirsene: e
pure anche di ciò sono prove ed esempii; celebre tra gli altri quello
di un diavolo e di una donna i cui amori durarono un quarto di secolo.
E sembra che alle volte i diavoli innamorassero per davvero, a dispetto
dei teologi, i quali pretendono che in quella loro depravata natura
l'amor non alligni. Gervasio di Tilbury, gran conoscitore di tutti
questi secreti, dice chiaro: certi demonii amano con tanta passione le
donne, che per possederle ricorrono ad ogni arte e ad ogni inganno.
Ardori nefandi, ma rispondenti ai loro, si producevano poi in certe
donne, nelle cui anime l'idea di soprannaturali abbracciamenti
suscitava strani fantasmi e concupiscenze mostruose. A quante non
dovette sembrare terribile, ma pure invidiabile ventura avere amante
un angelo del fuoco! Alvaro Pelagio, vescovo di Silva, che circa il
1332 compose in latino un libro _Del pianto della Chiesa_, dice d'aver
conosciuto molte monache, le quali volentariamente si sottoponevano
al diavolo. Le streghe erano le concubine ordinarie e volenterose dei
diavoli, che nelle assemblee e nei bagordi di cui dovrò parlare più
oltre, usavano con loro pubblicamente. Sono senza numero quelle che
nei processi confessarono apertamente e senza vergogna i turpi amori, e
sul rogo ne pagarono la pena; e più d'una ebbe a svelare questa strana
particolarità, che il seme dei diavoli è freddo come il ghiaccio.
Michele Lermontov, uno dei maggiori poeti che abbia avuto la Russia
in questo secolo, morto a ventisett'anni in duello, nobilitò il tema
di tante fosche leggende in un poema ch'è tra i suoi più belli, e
s'intitola appunto _Il demone_. Satana s'innamora perdutamente, là,
fra le aspre e meravigliose solitudini del Caucaso di una fanciulla
bellissima, per nome Tamara. Costei, mortole il fidanzato, si
seppellisce in un chiostro; ma l'innamorato demone anche quivi la
persegue, e ottiene ch'ella s'innamori di lui, e giura di voler per
quell'amore rinnegare il suo passato e rendersi a Dio. Gli amplessi del
superbo caduto uccidono la fragile creatura, che perdonata e benedetta
è dagli angeli assunta in cielo, mentre quegli, non ravveduto, si
risommerge nelle tenebre sempiterne.

I demonii succubi non erano meno sfacciati e pericolosi degl'incubi.
Cesario racconta di un converso, che abbracciato e baciato in letto da
un diavolo vestito da monaca, infermò e in tre giorni morì; e ricorda
il caso di un uomo dabbene, che non avendo voluto consentire alle
lubriche voglie di un succubo, fu da questo tratto a volo per l'aria
e scaraventato in terra, così che, dopo avere stentato un anno, se ne
andò all'altro mondo. Ma di quanti succubi vide il medio evo, il più
fascinatore fu Venere, quella Venere che mutata, come le nuove credenze
volevano, di nume in demonio, innamorò di sè il gentil cavaliere e
poeta Tanhäuser, ed altri assai, cui fu larga de' suoi favori. Fu amata
da molti e taluno forse anche amò, come in antico; certo era gelosa
dei diritti o bene o male acquistati e s'ingegnava di farli valere.
Lo prova il seguente caso narrato da parecchi, e che io riferisco,
voltando in volgare il forte e colorito latino di un cronista inglese,
Guglielmo di Malmesbury, che nel XII secolo ne fece primo il racconto.
Un giovane cittadino romano, ricco di molto censo, e nato d'illustre
famiglia senatoria, avendo condotto moglie, invitò gli amici a
banchetto. Levate le mense, e stimolata coi vini più generosi
l'ilarità, uscirono i commensali in un prato, desiderosi di alleggerire
danzando e sbalestrando, in altri giuochi esercitando il corpo, gli
stomachi aggravati dal cibo. Lo sposo, re del convito, e maestro del
giuoco, chiese una palla, e trattosi l'anello nuziale, questo pose
in dito a una statua di bronzo ch'era ivi presso. Ma poichè tutti i
compagni, giocando, in lui solo inveivano, egli, affannato ed acceso,
si ritrasse primo dal campo, e volendo riavere il suo anello, trovò
piegato sulla palma della mano il dito della statua, che prima si
vedeva disteso. Avendo quivi penato un pezzo, senza potere nè strappare
l'anello, nè frangere il dito, taciuta la cosa ai compagni, affinchè,
lui presente, nol deridessero, o, assente, non involassero l'anello,
in silenzio se ne partì. Tornatovi poi con alcuni familiari a notte
scura, ebbe a stupire vedendo raddrizzato il dito e sparito l'anello.
Tuttavia, dissimulato il danno, si lasciò dalle carezze della sposa
rasserenare, e giunta l'ora di coricarsi si adagiò accanto a lei.
Ma, come appena si fu adagiato, sentì alcun che di nebuloso e denso
voltolarsi fra sè e lei, la qual cosa si poteva sentire, ma non
vedere. Vietatogli da tale impedimento l'amplesso conjugale, udì una
voce che diceva: “Giaciti meco, dacchè oggi pure tu m'hai sposata. Io
sono Venere, a cui tu ponesti l'anello in dito: l'anello è in poter
mio, e più nol renderò.„ Spaventato da tanto prodigio, nulla osò,
nulla potè rispondere il giovane, e passò insonne l'intera notte,
esaminando tacitamente nell'animo il caso. Corse gran tempo, e in
qualunque ora tentasse egli di accostarsi alla sposa, sempre sentiva e
udiva il medesimo: del rimanente era validissimo e atto a checchessia.
Alla fine, mosso dalle querele della moglie, scoperse ogni cosa ai
parenti, i quali, avuto consiglio fra loro, ne informarono un prete
suburbano per nome Palumbo. Aveva costui virtù di suscitare per arte di
negromanzia figure magiche, e d'incutere terror nei demonii, facendoli
obbedire come più gli era a grado. Pattuita pertanto la mercede, che
doveva esser grande, e tale da riempirgli d'oro la borsa quando fosse
riuscito a far congiungere gli sposi, usò quegli il supremo dell'arte
sua, e composta una espistola, diedela al giovane dicendo: “Va alla
tale ora di notte al crocicchio, dove la via si spartisce in quattro,
e poni mente a ciò che tu vedrai. Passeranno di colà molte figure
umane, d'ambo i sessi, d'ogni età, d'ogni grado e condizione, alcune
a cavallo, altre a piede, quali con la fronte volta alla terra, quali
col ciglio superbamente levato; e quante sono insomma le forme, e le
sembianze dell'allegrezza e della tristezza, tutte le potrai vedere nei
volti e nei gesti loro. Non favellare a nessuna, quando pure quelle
favellassero a te. Seguirà alla turba uno di maggior statura degli
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