Il Diavolo - 11

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giudici, e metteva la stracchezza addosso ai carnefici. Tutto veniva
da lui. Se la strega durante la tortura moriva, era il diavolo che
l'aveva strozzata, per impedirle di parlare; se la strega si uccideva
da sè stessa, era il diavolo che a ciò l'aveva spinta, affinchè non
si potesse più fare il processo. In Lindheim, villaggio dell'Assia,
cinque o sei donne furono accusate d'aver dissotterrato un bambino e
d'essersene servite per la manipolazione della consueta broda delle
streghe. Torturate in regola, esse confessarono il delitto. Allora
il marito di una di esse tanto s'adoperò che potè ottenere si facesse
una visita al camposanto, per meglio accertarsi della cosa. Aperta la
fossa, il corpicino apparve intatto nella sua bara; ma l'inquisitore,
senza punto smarrirsi, disse che quella doveva essere una illusione
del diavolo maledetto, e che essendoci la confessione delle colpevoli
non era da cercar altro, ma era da dar corso alla giustizia, a onore e
gloria della santissima Trinità: e le donne furono bruciate vive.
Per render vane le frodi e le gherminelle del diavolo, si usavano in
varii luoghi varii accorgimenti e rimedii: si vestiva la strega di una
camicia tessuta e cucita in un sol giorno, le si dava bere un intruglio
fatto di cose benedette, si aspergevano d'acqua benedetta gli stromenti
di tortura, si bruciavano certe erbe, ecc. ecc. Fosse in grazia di
tali pratiche, fosse per altra ragione, certo si è che assai di rado
riusciva il diavolo a porgere alle streghe e agli stregoni amici suoi
ajuto veramente efficace e durevole. Lo storico siciliano Tommaso
Fazello (1498-1570) narra di certo mago Diodoro, che ajutato dal
diavolo scappava di mano alle guardie, e volava per l'aria, da Catania
a Costantinopoli. Il giuoco durò un pezzo; ma finalmente il vescovo
Leone potè mettergli le mani addosso, e lo fece gettar vivo in una
fornace ben accesa, d'onde quegli non uscì più, o uscì solo per andar
capofitto in inferno.
Il primo a insorgere contro la odiosa superstizione, e contro gli
orribili effetti suoi, fu nel secolo XVI il famoso Cornelio Agrippa
di Nettesheim, seguito e superato dal suo proprio discepolo Giovanni
Weier (1518-88) il cui libro fa epoca. I difensori della retta ragione
e della umanità si moltiplicarono poi rapidamente; ma la battaglia
da essi combattuta non fu coronata di vittoria se non assai tardi. Le
ultime vittime della superstizione caddero in Europa nella seconda metà
del secolo scorso: fuori d'Europa, nel Messico, due roghi si accesero
ancora nel 1860 e nel 1873.
L'Inquisizione è morta, e sono finiti i processi per istregoneria; ma
non è morta la stolta credenza, nè sono finiti i lamenti di coloro che
la serbano viva; e non passa anno senza che venga alla luce, scritto
da un qualche teologo fallito e frenetico, un libro in cui si grida
che il mondo è nelle mani del diavolo, e che i satelliti del diavolo,
ammaestrati da lui, corrompono con l'arti loro ogni cosa, insidiano e
sopraffanno i buoni. Il mondo è pieno di stregoni, camuffati in altra
maniera, ma non meno tristi e pericolosi degli antichi, e, quel ch'è
peggio, il diavolo, lor buon signore, ha finalmente trovato il modo
d'impedire che sieno bruciati. Se si potessero ancora bruciare, a tutto
ci sarebbe rimedio.


CAPITOLO X.
L'INFERNO.

Immaginate un mondo spartito in tre piani. Nel piano di sopra è
il paradiso, la reggia di Dio, la dimora degli angeli e dei beati,
sfolgorante di luce, risonante d'ineffabili armonie, odorosa di fiori
immarcescibili; è il regno della santità incorruttibile e della eterna
letizia. Nel piano di mezzo è questo mondo terreno, popolato da una
umanità decaduta e dogliosa, che pecca anelando al riscatto, e spasima
sognando beatitudine; è il regno della perpetua vicenda, del cimento
sempre rinovellato nella mescolanza del bene e del male. Nel piano
di sotto è l'inferno, la voragine tenebrosa, dove Satana e gli angeli
suoi, con l'infinito popolo dei dannati, pagano alla divina giustizia
un debito che mai non si salda; è il regno del peccato irreparabile,
della scelleratezza irredimibile, del dolore smisurato, disperato ed
eterno. A quest'ultimo regno è congiunta una regione dove il peccato
si ripara e si purga, dove il dolore è alleviato dalla speranza; è il
purgatorio, vestibolo bujo del cielo radioso.
Il regno di mezzo è come un vivajo immenso di anime, le quali
ininterrottamente ne emigrano, spartite in doppia corrente, l'una che
sale al cielo, l'altra che scende all'inferno. Satana e la innumerevole
sua milizia non intendono ad altro fine, non ad altro usano l'arte e
la malvagità loro, che a trarre all'ingiù quante più anime possono,
a popolare l'inferno a scapito del paradiso. E della loro riuscita in
tale intento non si possono lagnare.

Ma dov'era propriamente l'inferno? Dice sant'Agostino, nel suo libro
della _Città di Dio_, che nessun uomo lo può sapere se Dio stesso
non glielo ha rivelato. Ciò non tolse tuttavia che le più disparate
e le più strane opinioni fossero espresse in proposito; e il regno
dei dannati fu posto nell'aria, nel sole, nella Valle di Giosafat,
sotto i poli, agli antipodi, dentro ai vulcani, nel centro della
terra, nell'ultimo Oriente, in isole remote, perdute in grembo di
oceani sconosciuti, o, a dirittura, fuori del mondo. Qualche esempio a
tale riguardo potrà bastare. Gregorio Magno racconta di un solitario
dell'isola di Lipari, che vide una volta il papa Giovanni e Simmaco
precipitar nella bocca di quel vulcano l'anima di Teodorico. Alberico
delle Tre Fontane, cronista francese morto nel 1241, dice, parlando
dell'Etna, che le anime dei dannati erano quivi portate quotidianamente
a bruciar tra le fiamme. Aimoino, monaco di Fleury sul finire del
secolo X, e Cesario di Heisterbach, narrano fatti e storie consimili.
San Brandano, navigando fuori dei termini del mondo conosciuto, vide
un'isola ignivoma, dove demonii in figura di fabbri ferrai martellavano
sulle incudini le anime arroventate. Nell'_Huon de Bordeaux_, poema
francese del secolo XIII, si dice che l'inferno è in un'isola chiamata
Moysant, e nell'_Otinel_, altro poema pure francese, che esso è
posto sotto la Tartaria. Ugone d'Alvernia trova l'adito infernale
nell'ultimo, favoloso Oriente.
L'opinione più comune tuttavia, e nel tempo stesso più naturale, era
quella che poneva l'inferno nelle viscere della terra, conformemente a
quanto già avevano creduto gli antichi. Così l'abisso era spalancato,
insidia e minaccia perpetua, sotto ai piedi dei peccatori e dei giusti,
e la corteccia terrestre diveniva un tenue solajo che trepidava e
fremeva per l'impeto delle fiamme penaci e pel mugghio degli eterni
tormenti. La terra, illuminata fuori dal sole, lieta di floridi campi
e di selve, rorida di acque, era come un frutto bacato che, sotto vaga
buccia, abbia fradicio il midollo; era com'un di quei pomi che a detta
dei viaggiatori nascevano sulle rive del Mar Morto, e che coloriti e
odorosi di fuori, erano, dentro, pieni di cenere. Il baco che aveva
ròsa e guasta la terra era Satana, cui Dante chiama il _verme reo che
il mondo fora_, e alla cui caduta dal cielo fa seguire, con mirabile
fantasia, la formazione del baratro infernale.
L'inferno doveva avere le sue bocche e i suoi aditi, necessarii, se non
altro, al disimpegno di quelle mille faccende che i diavoli avevano,
al loro andare, venire, frullare perpetuo. Negli Evangeli è cenno
di porte dell'inferno che non prevarranno contro la Chiesa; Cristo,
accingendosi a penetrar nei regni buj, grida ai principi delle tenebre
di aprir quelle porte, e non obbedito, le infrange. Dove fossero non si
sa con certezza. Gervasio di Tilbury dice ch'eran di bronzo, e che si
vedevano ancora, così infrante, in fondo a un lago, presso Pozzuoli.
Dante entra in inferno per una porta senza serrame, su cui si leggono
le parole di colore oscuro. Altre entrate ad ogni modo non mancavano.
Più di una caverna tortuosa e cupa, più di una voragine sprofondante
sotterra, fu creduta una bocca dell'inferno, e se alcuni pensavano
che dentro i vulcani abitassero i demonii e fossero tormentate le
anime dannate, altri dicevano i vulcani essere più propriamente
bocche e spiracoli dell'inferno, d'onde esalavano gli ardori e il fumo
dell'eterna fornace. In Irlanda il famoso pozzo di San Patrizio metteva
in purgatorio e in inferno. Nè mancavano, oltre gli aditi ordinarii
e stabili, gli straordinarii e avventizii. Il suolo si lacerava per
lasciar passare i demonii, o per ingojare vivi gli scellerati maggiori.
L'inferno era come un mostro immane sul cui corpo si moltiplicavano le
bocche, avide di procacciare nuova pastura al ventre voraginoso. Non
senza ragione dunque si vede rappresentato l'inferno, nelle pitture
e nei misteri del medio evo, sotto la forma di una mostruosa bocca di
drago che divora anime e vomita turbini di fiamme e di fumo.

L'inferno è il regno del dolore e del bujo, come il paradiso è il regno
della letizia e della luce. Le tenebre vi sono dense, profonde, fatte
in qualche modo consistenti. La dolorosa valle d'abisso, dice Dante,
Oscura, profond'era e nebulosa,
Tanto, che per ficcar lo viso al fondo,
Io non vi discernea nessuna cosa.
Essa è il _cieco mondo_, il _loco d'ogni luce muto_, la cui eterna
caligine è rotta solo dai sanguigni lampeggiamenti di quei nembi e
vortici di fiamme, dal corruscare delle brage ammontate, dei metalli
colati. Non mancò del resto chi disse il fuoco infernale aver l'ardore
e non la luce, esser nere le fiamme che mai non si spengono.
Il regno _della morta gente_ è vasto e profondo, come si conviene
all'infinito popolo che vi si accoglie. In un antico poema anglosassone
si dice che Cristo ordinò a Satana di misurarlo, e Satana trovò che dal
fondo alla porta correvano 100,000 miglia. Giova per altro avvertire
che il gesuita Cornelio a Lapide (1566-1637), autore di dieci volumi
di commento sopra la Sacra Scrittura, afferma non avere l'inferno più
di dugento miglia italiane di larghezza. Un buon teologo tedesco andò
più in là e calcolò che una capacità di un miglio per ogni verso basta
a centomila milioni d'anime dannate, le quali non hanno già a stare al
largo e a loro agio, ma le une sulle altre, pigiate, come le acciughe
nel barile, o gli acini dell'uva nel tino.
Dante ci descrive un inferno geometricamente costruito, diviso in
cerchi, che facendosi sempre più angusti, vanno digradando verso il
centro della terra. Tale struttura si ritrova in alcuni degli imitatori
del divino poeta, ma non in quelli che si possono in qualche modo
chiamare precursori suoi, negli autori delle Visioni. Qui l'inferno
descritto rassomiglia a una regione terrestre, salvo che è più orribile
assai d'ogni più orribile luogo che conoscano gli uomini, e non vede
mai lume di cielo. Vi si trovano montagne dirupate ed ignude, valli
asserragliate e ronchiose, precipizii spalancati, foreste d'alberi
strani, laghi color di bitume, paludi putride e tetre. Lo traversano
per lungo e per largo fiumi pigri o impetuosi, alcuni dei quali
scaturiti dalle viscere dell'Averno antico, l'Acheronte, il Flegetonte,
il Lete, il Cocito, lo Stige, che anche Dante descrive, o ricorda.
Non mancavano nel doloroso regno le città e le castella. Dante dipinge
la città di Dite, vallata d'alte fosse, con le torri eternamente
affocate, con le mura di ferro. Spesso l'inferno tutto intero è
considerato come una gran città, che prende il nome di Babilonia
infernale, e si oppone alla Gerusalemme celeste, come Satana si oppone
a Dio. Immaginate, dice san Bonaventura, una città vasta ed orribile,
profondamente tenebrosa, accesa di oscurissime e terribilissime fiamme,
piena di clamori spaventevoli e di urla disperate; tale è l'inferno.
Un poeta francescano del secolo XIII, Giacomino da Verona, descrisse in
due suoi poemi assai rozzi, ma accesi di fede, le due città contrarie,
l'una a riscontro dell'altra. La Gerusalemme celeste è cinta d'alte
mura, fondata di pietre preziose, munita di tre porte più lucenti che
stelle, adorna di merli di cristallo. Le sue vie e le sue piazze sono
lastricate d'oro e d'argento; i palazzi risplendono nello sfoggio
dei marmi, dei lapislazzuli, dei metalli preziosi. Acque cristaline
corrono per ogni banda e dànno alimento ad alberi meravigliosi, a
fiori soavissimi: l'aria pervasa da un lume divino, è tutta un olezzo,
e vibra di armonie sovrumane. Ben diversa da quella è la Babilonia
infernale.
La cità è granda et alta e longa e spessa
coperchiata da un irrefrangibile cielo di ferro e di bronzo, murata
tutt'intorno di macigni e di monti, corsa da torbide acque più amare
che il fiele, piena d'ortiche e di spine acute e taglienti come
coltelli, divorata da un furioso e perpetuo incendio. L'aria vi è
pregna d'incomportabile puzzo, sonante di spaventoso fragore.
Tra le cose più notabili di quella terra maledetta è, per testimonianza
di molti, un ponte sottilissimo su cui debbono passare le anime, e
d'onde precipitano nel baratro sottostante tutte quelle cui grava
troppa soma di peccati; immaginosa finzione del lontano Oriente venuta
a cacciarsi, non si sa come, nelle Visioni cristiane del medio evo, se
pure non sorse spontanea tra noi, come sorse spontanea laggiù.
Il doloroso regno ha la sua topografia; ma ha ancora la sua
meteorologia, la sua flora e la sua fauna. Lo infestano venti
impetuosi, gelidi gli uni, gli altri infocati, piogge dirotte che mai
non ristanno, grandine e neve. Le piante cui nutre l'orribile suolo,
sono irte di spine e recan frutti gonfii di tossico. Gli animali, o
sono tali veramente, o son demonii contraffatti, Cerbero, Gerione, cani
rabbiosi, draghi, vipere, rospi, insetti nauseabondi.
In inferno capitavano anime d'ogni qualità e condizione, anime di papi
e d'imperatori, di frati e di cavalieri, di mercanti e di giullari,
di donne impudiche e di fanciulli malvagi; tutte le classi, tutte le
professioni gli pagavan tributo e tributo larghissimo. Il cómpito
principale dell'umanità, il fine de' suoi lunghi travagli pareva
esser quello di vettovagliare l'inferno. Le anime, o erano catturate
e trasportate dai diavoli, o precipitavano nell'abisso come tratte da
una specifica gravità di peccato. Un eremita dell'ottavo secolo, san
Baronto, vide i demonii portar l'anime in inferno con la frequenza
che mostrano le api, quando, fatto il loro bottino, se ne tornano
all'alveare; sant'Obizzo (m. c. 1200) vide cader le anime in inferno
fitte come neve, e santa Brigida dice in una delle sue Rivelazioni che
le anime le quali piombano ogni giorno in inferno sono più numerose
delle arene del mare. Quante ce n'entrano in paradiso? Nessuno lo dice.
Molte volte furono vedute le turbe dei diavoli portare le anime a
volo per l'aria. Così ne fu portata l'anima di Rodrigo, ultimo re dei
Goti di Spagna; così quelle di molti altri scellerati, pari suoi. Ma i
demonii, anche in ciò mutavano modo volentieri. Certi monaci, racconta
Giacomo da Voragine, stavano una volta, prima dello spuntar del
giorno, sulla riva di un fiume, e s'intrattenevano in frivoli ed oziosi
discorsi. A un tratto veggono venir oltre, sull'acqua, una barca piena
di remiganti, i quali remavano con grandissimo impeto. “Chi siete voi?„
chiedono essi. E quelli: “Noi siam demonii, che portiamo all'inferno
l'anima di Ebroino, maggiordomo di Neustria.„ Udendo ciò i monaci
allibiscono di terrore, e gridano: “_Santa Maria, ora pro nobis!_„ —
“Voi fate bene a invocar Maria,„ dicono i demonii, “perchè era nostro
pensiero di lacerarvi e di sommergervi in punizione di questo vostro
cicalar dissoluto e fuor di tempo.„ I monaci non se lo fan ripetere,
e tornano al convento, mentre i demonii si affrettano alla volta
d'inferno.

Del resto i diavoli non si contentavano di portarsi via le anime; ma
spesse volte rapivano vivi gli scellerati, anima e corpo. Cesario di
Heisterbach racconta di un soldato della diocesi di Colonia, giocatore
arrabbiato, il quale una volta giocò a dadi col diavolo e perdette: per
rifarlo della perdita, il diavolo se lo portò via attraverso il tetto
della casa, lasciandone gl'intestini attaccati alle tegole.
Per compiere tali rapine il diavolo prendeva volentieri la forma di
un cavallo nero, o di un cavaliere montato sopra un cavallo nero. Un
giorno Teodorico, vecchio oramai, si stava bagnando, quando udì uno de'
suoi famigli gridare: “Laggiù corre un cavallo nero di tanta bellezza e
vigoria ch'io mai non vidi l'eguale.„ Il principe barbaro balza fuori
dell'acqua, si copre alla meglio e comanda che tosto gli si conducano
il suo proprio cavallo e i suoi cani. Ma tardando i servi a tornare,
egli, impaziente, salta sul cavallo nero, il quale tosto si mette a
fuggire, più rapido di un uccello. Lo insegue, ma indarno, con tutti
i cani sguinzagliati, il miglior cavaliere della scorta. Teodorico,
sentendo essere nel cavallo che lo rapisce alcun che di soprannaturale,
si sforza di scendere, ma non può. Il cavaliere da lungi gli grida:
“Signore, perchè corri tu in cotal guisa, e quando farai ritorno?„ e
quegli: “È il diavolo che mi porta. Tornerò quando piacerà a Dio e alla
Vergine Maria.„
Jacopo Passavanti racconta nel suo _Specchio della vera penitenza_:
“Leggesi iscritto da Elinando, che in Matiscona fu uno conte, il
quale era uomo mondano e grande peccatore, contro a Dio superbo,
contro il prossimo spietato e crudele. Et essendo in grande stato,
con signoria e colle molte ricchezze, sano e forte, non pensava di
dovere morire, nè che le cose di questo mondo gli dovessero venir
meno, nè dovere essere giudicato da Dio. Un dì di Pasqua, essendo
egli nel palazzo proprio attorniato di molti cavalieri e donzelli,
e da molti orrevoli cittadini, che pasquavano con lui; subito uno
uomo iscognosciuto, in su uno grande cavallo, entrò per la porta del
palazzo, senza dire a persona niente; e venendo in sino dove era il
conte con la sua compagnia, veggendolo tutti e udendolo, disse al
conte: Su, conte, lévati su e séguitami. Il quale, tutto ispaurito,
tremando si levò, e andava dietro a questo isconosciuto cavaliere, al
quale niuno era ardito di dire nulla. Venendo alla porta del palazzo,
comandò il cavaliere al conte, che montasse in su uno cavallo che ivi
era apparecchiato; e prendendolo per le redini e traendolosi dietro,
correndo alla distesa, lo menava su per l'aria, veggendolo tutta
la città, traendo il conte dolorosi guai, gridando; Soccorretemi,
o cittadini, soccorrete il vostro conte misero, isventurato. E così
gridando, sparì dagli occhi degli uomini, e andò a essere senza fine
nello inferno co' demonii.„ Prima che dal Passavanti e da Elinando, si
trova narrata una storia in tutto simile da Pietro il Venerabile nel
suo libro _De Miraculis_.
In questo lor mestiere d'acchiappar le anime, o anche gli uomini vivi,
i diavoli non la guardavano tanto pel sottile, e spesso mettevan le
mani addosso a chi non dovevano. Morto l'imperatore Enrico II, un
eremita vide una turba di diavoli portarne l'anima, sotto forma di un
orso, al giudizio, che riuscì favorevole al prigione. Gregorio Magno
racconta la storia di certo uomo nobile per nome Stefano, il quale,
essendo in Costantinopoli subitamente ammalò e morì. Condotto dinanzi
al giudice infernale, il morto udì questo gridare: “Io ho ordinato
di portar giù Stefano ferrajo e non costui.„ Incontanente fa ritorno
al mondo Stefano nobile, e Stefano ferrajo muore in suo luogo. Altri
esempii, e più strani ancora, di anime mandate e rimandate non mancano.
Eccone uno raccontato da Tommaso Cantipratense. Muore un fanciullo
disobbediente, e i diavoli ne ghermiscono l'anima per portarla in
inferno. Sopraggiunge l'arcangelo Michele, che la toglie loro, e la
porta in cielo. Quivi un vecchio (certamente san Pietro) si oppone al
suo ingresso, e ordina a Michele di rimetter l'anima nel corpo suo.

All'inferno era facilissimo andare come inquilino perpetuo;
difficilissimo, per contro, l'andarci come semplice visitatore. Ciò
nondimeno molti lo visitarono, a cominciare dalla Vergine Maria, che
vi andò accompagnata dall'arcangelo Michele, e da numerosa schiera di
angeli, secondo è narrato in certa apocalissi greca. Subito dopo lei
v'andò san Paolo, secondo una leggenda molto divulgata nel medio evo,
e che Dante certamente conobbe. Sì fatte discese nel regno dei dannati
solevano essere effetto della divina grazia, sollecita della salute
di alcun peccatore, o di quella di un intero popolo, dimentico dei
precetti e degli ammonimenti divini; ma non sempre la grazia c'entrava,
almeno in modo diretto. San Gutlaco, di cui ho già ricordato più di una
volta il nome, è assalito nella sua cella, una notte, da una legione
di diavoli, che con molti tormenti lo trascinano a vedere le pene
dell'inferno. Ugone d'Alvernia, l'avventuroso cavaliere, va in inferno
per ordine espresso del suo re, che voleva tributo da Lucifero. L'anno
1218 un conte di Geulch offre gran premio a chi sappia dargli notizia
della condizione del padre, morto poco innanzi. Un intrepido cavaliere
offre i suoi servigi, scende con l'ajuto di un negromante in inferno,
e quivi trova il vecchio conte, il quale dice che le pene gli saranno
alleviate, se si restituiranno alla Chiesa certi beneficii da lui tolti
indebitamente. Quando la grazia divina operava in modo diretto, un
angelo soleva guidare il visitatore.
La visita poteva compiersi in ispirito soltanto, e anche corporalmente.
Nel primo caso si aveva la visione propriamente detta; nel secondo, una
vera e propria peregrinazione. Le visioni toccavano di solito a chi era
in istato di sovreccitazione mentale, o spossato da lunga infermità:
mentre l'anima viaggiava per conto suo, il corpo rimaneva in istato di
profondo letargo, simile alla morte. Io non debbo qui entrar nell'esame
delle condizioni psicologiche e patologiche del fenomeno; mi basta
di recar qualche esempio. San Furseo, monaco irlandese del settimo
secolo, essendo ammalato da tre giorni, fu condotto a vedere le pene
dell'inferno da due angeli, preceduti da un altro angelo, che aveva
una spada sfavillante e uno scudo luminoso. Una notte, Carlo il Grosso
stava per coricarsi, quando udì una voce terribile gridargli: “Carlo,
l'anima tua lascerà il corpo, e sarà condotta a vedere i giudizii di
Dio;„ e così fu. Alberico, figliuolo di un barone della Campania, fu
soprappreso, all'età di nove anni, da un deliquio che durò nove giorni,
durante il qual tempo, guidato da san Pietro e da due angeli, visitò
l'inferno e il paradiso. L'anno 1149, un cavaliere irlandese per nome
Tundalo, uomo empio e di mali costumi, fu pressochè ucciso con un
colpo di scure da un suo debitore. Rinsensato, raccontò ciò che aveva
veduto delle cose dell'altro mondo. Altri invece, come Ugone d'Alvernia
e Guerino il Meschino, già ricordati, e il cavaliere Owen, andarono
all'inferno in carne ed ossa, imitando gli esempii di Ulisse e di Enea.
Dante v'andò allo stesso modo.
Comunque ci si andasse del resto, col corpo o senza il corpo, l'andata
non era senza pericolo: san Furseo portò tutto il tempo di vita sua le
tracce del fuoco infernale che l'aveva tocco. I demonii vedevano assai
mal volentieri aggirarsi pel regno loro chi non doveva restarci, e
si studiavano di nuocere in tutti i modi agli intrusi. Essi tentarono
di uncinar Carlo il Grosso con uncini arroventati, e di afferrare con
ignee tenaglie un buon uomo di Nortumbria di cui narra la visione il
Venerabile Beda. Il giovane Alberico, il cavaliere Owen, altri assai,
furono da loro in varii modi minacciati o tormentati. Senza l'ajuto di
Virgilio e del messo celeste, Dante si sarebbe trovato più d'una volta
a mal partito.


CAPITOLO XI.
ANCORA L'INFERNO.

L'inferno c'è per comun punizione dei dannati e dei diavoli, dei
tormentati e dei tormentatori. Satana ha in se più qualità e più
officii, che pajono, a primo aspetto, non potersi conciliare fra
loro. Cagion prima del male nel mondo, suscitatore instancabile di
peccato, e seduttore perpetuo di anime, egli è nel tempo stesso il
gran giustiziere, egli è colui per la cui opera il male è represso e il
peccato si espia.
Non è così picciolo atto, nè così tenue pensiero, nella vita e nella
mente degli uomini, di cui i demonii non serbino memoria, quando siavi
in quelli alcuna parte, alcun fermento di colpa. Sant'Agostino vide
una volta un diavolo che recava sulle spalle un grandissimo libro,
dove erano notati per ordine tutti i peccati degli uomini. Più spesso
c'era per ogni singolo peccatore un particolar volume, ponderoso e
tetro, che i diavoli portavano ostentatamente in giudizio, opponendolo
al piccioletto ed aureo in cui l'angelo custode aveva amorosamente
descritte le azioni buone e meritorie, e scaraventandolo talora, con
iscalpore e con ira, in uno dei piatti della bilancia divina. In più
chiese del medio evo, come, per esempio nel duomo di Halberstadt, si
vede dipinto il diavolo che scrive i nomi di coloro i quali dormono
nella casa di Dio, o chiacchierano, o in altro modo non serbano
il contegno dovuto. Nella vita di sant'Aicadro si legge che avendo
un pover uomo osato di tagliarsi i capelli in giorno di domenica,
fu veduto, appiattato in un angolo della casa, il diavolo, che
frettolosamente scriveva il peccato sopra un foglietto di pergamena.

Di regola il peccatore indegno di misericordia è punito in inferno;
ma talvolta Satana, coltolo sul fatto, anticipa la vendetta divina e
lo castiga mentre è ancor vivo. Gli uccisori di san Regolo, vescovo,
furono strozzati, l'assassino di san Godegrando fu portato via dal
diavolo; certa donna di mala vita, che voleva trascinare al peccato
sant'Elia Speleota, fu da lui conciata pel dì delle feste. Se non mente
lo storico Liutprando, il pessimo pontefice Giovanni XII fu ammazzato
a furia di legnate dal diavolo, che lo colse in letto, fra le braccia
di una concubina; e sì che il pontefice usava, mentr'era vivo e sano,
di bere alla salute di colui che doveva fargli fare così misera fine.
Fra Filippo da Siena racconta la terribile storia di certa donna
non meno vana che leggiadra, usa di spendere l'ore in lisciarsi ed
ornarsi, la quale fu una bella volta lisciata dal diavolo, e sfigurata
in modo che di vergogna e di paura se ne morì. Ciò avvenne in Siena,
l'anno di grazia 1322. Ai 27 di maggio del 1562, alle sette ore di
sera, nella città di Anversa, il diavolo strangolò una fanciulla,
che invitata a nozze, aveva osato comperare certa tela a nove talleri
il braccio, per farsene uno di quei collari crespi a ventaglio, come
usavano allora. Spesso il diavolo picchia, strozza, o porta via chi si
mostra irriverente alle reliquie, o deride le sacre cerimonie; entra
in corpo a chi assiste distrattamente alla messa; rimprovera ad alta
voce, con gran confusione dei colpevoli, peccati secreti. Spesso il
furore diabolico non si cheta se non dopo essersi esercitato anche
sul cadavere del peccatore, e molte orribili storie si raccontano di
corpi che furono strappati a furia fuor delle chiese, o bruciati negli
avelli, o lacerati a brani.

Santa Teresa chiese una volta a Dio di poter fare, per propria
edificazione, un piccolo saggio delle pene dell'inferno. Le fu
conceduta la grazia, e dopo sei anni il ricordo dello strazio sofferto
la gelava ancora di terrore. Sono molte le storie in cui si narra di
dannati usciti per breve ora dall'inferno, a solo fine di dare a' vivi
alcun segno delle inenarrabili torture a cui vanno soggetti. Jacopo
Passavanti racconta quella di Ser Lo, maestro di filosofia in Parigi,
e di certo suo scolare, “arguto e sottile in disputare, ma superbo e
vizioso di sua vita,„ il quale essendo morto, apparve dopo alquanti
giorni al maestro, e gli disse d'essere dannato, e per fargli conoscere
in qualche modo l'atrocità dei tormenti che pativa, scosse un dito
sovra la palma della mano di lui, facendovi cadere una piccola goccia
di sudore, che “forò la mano dall'uno lato all'altro con molto dolore e
pena, come fosse stata una saetta focosa et aguta.„
Le pene infernali sono, al dir dei teologi, non solo continue nel
tempo, ma continue ancora nello spazio, in questo senso, che non è
nel dannato neppur una minima particella che non soffra intollerabile
strazio, e sempre egualmente intenso. Strumento principale di pena è
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