Il Diavolo - 12

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il fuoco. Origene, Lattanzio, san Giovanni Damasceno, credettero che
il fuoco infernale fosse un fuoco puramente ideale e metaforico; ma la
grande maggioranza dei Padri tenne contraria opinione, e sant'Agostino
disse che se i mari tutti della terra confluissero in inferno non
potrebbero temperarvi l'ardore delle orribili fiamme che perpetuamente
vi divampano. Oltre il fuoco v'è il ghiaccio, vi sono i venti impetuosi
e le piogge dirotte, vi sono animali orribili, e mille qualità di
tormenti, che i diavoli inventano e adoprano. San Tommaso prova che
i diavoli hanno il diritto e il dovere di tormentare i dannati; che
essi fanno quanto possono per ispaventarli e torturarli, e che per
giunta li deridono e li scherniscono. La pena maggiore ad ogni modo
viene ai dannati dall'esser privi in eterno della beatifica visione di
Dio, e dall'aver conoscenza della letizia dei santi. Su quest'ultimo
punto per altro gli scrittori non troppo si accordano, essendovene
alcuni i quali affermano che i santi vedono le pene dei reprobi, ma
questi non vedono il gaudio di quelli. San Gregorio Magno assicura
che le pene dei dannati sono agli eletti gradito spettacolo, e san
Bernardo di Chiaravalle si scalmana a dimostrare che i beati godono
dello spettacolo che i tormenti dei dannati offrono alla lor vista,
e ne godono per quattro ragioni propriamente: la prima, perchè quei
tormenti non toccano a loro; la seconda, perchè dannati tutti i rei,
non potranno i santi più temere malizia alcuna, nè diabolica, nè umana;
la terza, perchè la loro gloria apparirà, per ragion di contrasto,
maggiore; la quarta, perchè ciò che piace a Dio deve piacere ai giusti.
E certo lo spettacolo era tale, per varietà ed intensità, da appagare
qualsivoglia più difficile gusto. Procuriamo di farcene spettatori
anche noi un istante, almeno con la fantasia, e a tal fine mettiamoci
dietro a qualcuna di quell'anime pellegrine ch'ebbero in sorte di
visitare il _regno della morta gente_.

Un monaco per nome Pietro, di cui fa memoria Gregorio Magno in uno de'
suoi Dialoghi, vide le anime dannate immerse in uno sterminato mare
di fiamme. Furseo vide quattro gran fuochi, alquanto distanti l'uno
dall'altro, nei quali penavano quattro diverse classi di peccatori,
e molti demonii affaccendati intorno ad essi. Queste visioni sono
tra le più antiche, appartenendo esse al VI ed al VII secolo, e ne
mostrano una pena non ancora differenziata, una pena semplice ed unica:
nelle visioni de' tempi che seguono cresce a poco a poco la varietà
e la complicazion dei castighi, e l'inferno si rivela in tutta la
molteplicità degli orrori e de' terrori suoi.
Il monaco Wettin, di cui narrò la visione in sul principiare del
secolo IX un abate del monastero di Reichenau, giunse, scortato da un
angelo, a certi monti d'incomparabile altezza e bellezza, che parevano
essere di marmo, e cui cingeva da piede un grandissimo fiume di fuoco.
In quell'onde era immersa una innumerevole moltitudine di dannati,
e altri dannati erano in mille altri modi tormentati. In un gran
fuoco si vedevano molti ecclesiastici, di vario grado, legati a certi
pali, ciascuno rimpetto alla propria concubina, similmente legata, e
l'angelo disse a Wettin che quei peccatori erano flagellati nelle parti
genitali tutti i giorni della settimana meno uno. In un castello tetro
e fuligginoso, dal quale denso fumo esalava, stavano prigioni alcuni
monaci, ed un di loro era, per giunta, rinserrato in un'arca di piombo.

Ben più vario l'inferno veduto dal monaco Alberico in principio del XII
secolo, quand'era ancora fanciullo. In una valle spaventosa molte anime
stavano immerse nel ghiaccio, alcune sino alla caviglia, o sino al
ginocchio solamente, altre sino al petto, altre sino al capo. Sorgeva
più oltre un terribile bosco, formato di alberi alti sessanta braccia,
e irti di spine, da' cui rami aguzzi e taglienti pendevano per le
mammelle quelle triste donne che ricusarono di nutrire del loro latte i
bambini orfani di madre; due serpi suggevano a ciascuna il mal ricusato
seno. Per una scala di ferro rovente, alta trecentosessantacinque
cubiti, salivano e scendevano coloro che nelle domeniche e nelle
feste dei santi non seppero astenersi dalla copula, e quando l'uno,
quando l'altro di essi precipitava in una gran caldaja piena d'olio,
di pece e di resina, che bolliva da basso. In terribili fiamme, simili
a quelle di una fornace, erano puniti i tiranni; in un lago di fuoco
gli omicidi; in uno smisurato tegame, pieno di bronzo, di stagno, di
piombo in fusione, mescolati con zolfo e con resina, i parrocchiani
poco zelanti che tollerarono le scostumatezze dei loro parroci. Si
spalancava più oltre, simile ad un pozzo, la bocca del più profondo
baratro infernale, pieno di tenebre orrende, di fetore e di strida.
Ivi presso era legato con una catena di ferro un serpente smisurato,
dinanzi a cui stava, sospesa in aria, una moltitudine di anime; ed ogni
volta che traeva a sè il fiato, il serpente ingozzava di quelle anime,
non altrimenti che se fossero mosche, e quando emetteva il fiato, le
vomitava accese a guisa di faville. I sacrileghi bollivano in un lago
di metallo liquefatto, le cui onde si agitavano crepitando; in un altro
lago, formato d'acqua sulfurea, pieno di serpenti e di scorpioni,
annegavano in perpetuo i traditori e i falsi testimoni. I ladri e i
rapinatori erano legati con gran catene di ferro arroventate, e loro
pendevano dal collo gravi pesi, similmente di ferro.

Ma di quante descrizioni dell'inferno ci tramandò il medio evo, la
più terribile, quella in cui più grandeggia la poesia dell'orrore,
e in cui è maggior dispendio di fantasia inventiva, è la descrizione
che si legge nella Visione di Tundalo, ricordata più sopra. Sfuggita
dalle mani d'infiniti demoni, l'anima di Tundalo, guidata da un
angelo luminoso, giunse, attraverso fittissime tenebre, in una orribil
valle, piena di carboni ardenti, e coperchiata da un cielo di ferro
arroventato dello spessor di sei cubiti. Su quell'immane coperchio
piovono senza intermissione le anime degli omicidi, e quivi, penetrate
dallo spaventoso calore, si struggono come il lardo nella padella, e
liquefatte, colano attraverso il metallo, come fa la cera attraverso
il panno, e sgocciolano sui carboni sottostanti, dove tornano nel
primo stato, rinnovate all'eterno tormento. Più oltre è una montagna
di meravigliosa grandezza, piena d'orrore in vasta solitudine. Vi si
accede per un angusto sentiero, che dall'una parte ha fuoco putrido,
sulfureo e tenebroso, e dall'altra grandine e neve. Il monte è pieno
di demonii, armati di roncigli e di tridenti, i quali demonii assalgon
le anime degli insidiatori e dei perfidi che si mettono per quel
sentiero, e le travolgono giù, e con perpetua vicenda le scaraventano
dal fuoco nel ghiaccio e dal ghiaccio nel fuoco. Ecco un'altra valle,
tanto cupa e tenebrosa che non se ne vede il fondo. L'aria vi mugghia
pel rombo di un fiume sulfureo che corre laggiù, e per l'incessante
ululo dei dannati, mentre la ingombra un fumo d'incomportabil fetore.
Unisce le opposte pareti di quella voragine un ponte lungo mille
passi, largo non più di un piede, e impervio ai superbi, che da esso
precipitano nei tormenti senza fine. Dopo lungo e malagevol cammino,
si scopre all'anima esterrefatta una bestia, più grande che le più
grandi montagne, e piena in vista d'intollerabile orrore. Gli occhi
suoi pajono due colline ardenti, e la bocca è così smisurata che
vi potrebbero capire novemila uomini armati. Due giganti tengono, a
guisa di colonne immani, spalancata quella bocca, d'onde erompe un
inestinguibile incendio. Sollecitate e sforzate da un esercito di
demonii, le anime degli avari si precipitano contro le fiamme, entrano
nella bocca, e dalla bocca sono travolte nel ventre del mostro, d'onde
si sprigiona l'urlo di miriadi di tormentati. Vien poscia uno stagno,
grandissimo e procelloso, pieno di bestie muggenti e terribili,
attraversato da un ponte lungo due miglia, largo un palmo, irto di
acutissimi chiodi. Le bestie si raccolgono lungo il ponte, sbuffando
vampe di fuoco, e inghiottono le anime tutte che ne cadono, le quali
sono di ladri e di rapinatori. Da un edificio smisurato, rotondo,
e simile a un forno, guizzano fiamme che a mille passi di distanza
mordono e brucian le anime. Davanti alle porte, in mezzo all'incendio,
stanno carnefici diabolici, muniti di coltelli, di falci, di trivelle,
di scuri, di zappe, di vanghe, e d'altri strumenti, coi quali scojano,
decapitano, forano, squartano, frastagliano, per poi darle al fuoco,
le anime dei golosi. Più là siede sopra uno stagno gelato una bestia
disforme da tutte l'altre, la quale ha due piedi, due ali, lunghissimo
collo, e un rostro di ferro che erutta fiamme inestinguibili. Questa
bestia divora quante anime le vengono a tiro, e le digerisce, e
digerite che l'ha, come si fa del cibo le espelle. La poltiglia delle
anime cade sullo stagno gelato, dove ciascun'anima si rintegra, e
rintegrata, subito ingravida, sia femmina o maschio. La gravidanza
segue il naturale suo corso, e durante quel tempo le anime stanno sul
ghiaccio, e si sentono lacerare le viscere dalla prole concetta. Venuto
il termine partoriscono, così gli uomini come le donne, e partoriscono
bestie mostruose, che hanno capi di ferro rovente, e rostri acutissimi,
e code irte di uncini. Tali bestie escono da qualsivoglia parte del
corpo, e nell'uscire stracciano e si traggono dietro le carni e le
viscere, graffiando, azzannando, ruggendo; e questa è la pena dei
lussuriosi, e più specialmente di coloro che, entrati al servigio di
Dio, non seppero signoreggiare la carne. In altra più remota valle
son molte fucine, e innumerevoli demonii in figura di fabbri ferrai,
i quali afferrano le anime con tenaglie ardenti, e le gettano sulla
bragia perpetuamente avvivata dal soffio dei mantici; poi, quando
quelle son fatte roventi e malleabili, con gran forconi di ferro
le traggon dal fuoco, e ammassatene insieme venti o trenta, o anche
cento, gettano quella massa ignea sopra le incudini, e con i magli
la percuotono a gara, e così martellata e compressa la scaglian per
l'aria ad altri non meno terribili fabbri, che riafferratala con le
ferree tenaglie ricominciano il giuoco. Lo stesso Tundalo è sottoposto
al supplizio, il quale è preparato a coloro che cumulano peccato sopra
peccato. Sostenuta la formidabile prova, l'anima perviene alla bocca
dell'ultima e più profonda voragine infernale, simile in figura ad una
cisterna quadrangolare, d'onde esala un'altissima colonna di fuoco e di
fumo. Un'infinita moltitudine di anime e innumerevoli demonii salgono
dentro quella colonna a guisa di faville, poi ricadon nel baratro.
Ivi, nella più remota e spaventosa profondità dell'abisso, stassi il
principe delle tenebre, steso e legato sopra una enorme graticola di
ferro, e assiepato di demonii, che attizzano sotto a quella, e avvivano
coi mantici, i carboni crepitanti. Esso è di smisurata grandezza,
negro come le penne del corvo, e mille mani, armate di ferrei artigli,
agita nelle tenebre, e divincola una lunghissima coda, tutta aspra di
dardi acutissimi. Freme e si torce l'orribile mostro, e furiando di
dolore e di rabbia, avventa quelle mille sue mani per l'aria tenebrosa,
tutta impregnata di anime, e quante ne coglie tante si spreme
nell'arsa bocca, come dì un grappolo d'uva fa il villano assetato;
poi, sospirando, le soffia fuori e le sparpaglia, e quando riprende
il fiato, tutte a sè le ritrae novamente. Così sono puniti coloro che
non isperarono nella misericordia di Dio, o in Dio non credettero, e
così pure gli altri peccatori tutti, i quali, sostenuti alcun tempo
gli altri tormenti, sono da ultimo assoggettati a quello, supremo ed
eterno.

Altri descrisse l'inferno più propriamente simile a un'immensa e
orrenda cucina, e a uno spaventoso tinello, dove i diavoli fanno da
cuochi e da banchettanti, e le vivande sono di anime di dannati, in
varii modi preparate ed acconce. Il già ricordato Giacomino da Verona
dice che il cuoco Belzebù, mette l'anima ad arrostire _com'un bel porco
al fogo_, la condisce con una salsa fatta di acqua, sale, fuliggine,
vino, fiele, aceto forte, e uno schizzo di veleno buono, e così
appetitosamente concia, la fa servire in tavola al re dell'inferno, il
quale, assaggiatala, tosto la rimanda indietro, non parendogli cotta
abbastanza. Un trovero francese dei tempi di Giacomino, Radulfo di
Houdan, descrive in certo suo poemetto intitolato _Le songe d'enfer_,
un gran banchetto infernale, cui gli fu dato di assistere, un giorno
che il re Belzebù teneva corte bandita e generale concilio. Appena
entrato in inferno, egli vide una gran moltitudine affaccendata in
apparecchiar le tavole. Entrava chi voleva, e non si rimandava indietro
nessuno. Vescovi, abati e chierici lo salutarono caramente; Pilato e
Belzebù gli diedero il benvenuto; e, giunta l'ora, tutti sedettero
a mensa. Più pomposo banchetto, e più rari cibi non vide mai corte
di re. Le tovaglie erano fatte di pelli di usurai, e i tovaglioli di
pelli di vecchie bagasce: serviti e inframmessi non lasciavan nulla a
desiderare: usurai grassi lardellati, ladri e assassini in guazzetto,
baldracche in salsa verde, eretici allo spiedo, lingue fritte di
avvocati, e più manicaretti d'ipocriti, di frati, di monache, di
sodomiti, e d'altro buon selvaggiume. Il vino mancava; chi aveva sete
beveva spremitura di villanie.

I diavoli avevano officio di aguzzini e di carnefici. Ad essi toccava,
come si è veduto, arrostire, lessare, scorticare, squartare le
anime. Tale officio aveva le sue suddivisioni e i suoi gradi; e come
i tormentati erano distribuiti per le regioni infernali secondo il
peccato loro chiedeva, così erano distribuiti i tormentatori, secondo
chiedeva il castigo alle speciali loro cure affidato; e come ciascuna
colpa aveva proprii diavoli instigatori, così aveva proprii diavoli
punitori. Ma i punitori, mentre attendevano a quell'ufficio, sentivano
essi il castigo meritato dalla malvagità loro? erano essi straziati nel
tempo stesso che straziavano?
Intorno a ciò sono varie opinioni. Non mancano scrittori, e di gran
credito, i quali affermano che i diavoli non soffrono delle pene
infernali, perchè se ne soffrissero, assai di mal animo potrebbero
attendere all'officio di tentare e di tormentare, officio ch'essi
mostrano, per contro, di esercitare con singolare compiacimento. Nelle
Visioni, come nel poema di Dante, Lucifero suol essere assoggettato
nell'ultimo fondo d'inferno, e in conformità di quanto è detto
nell'Apocalissi, ad asprissimo supplizio; ma degli altri demonii non
si dice, di solito, che patiscano gravi tormenti. Che alcuna volta
si tormentassero a vicenda, si azzuffassero e si picchiassero, sembra
più che naturale, e se ne può vedere esempio nella visione stessa di
Tundalo e nella _Divina Commedia_, là dove è descritta la bolgia dei
barattieri. Nè ai maledetti mancavano svaghi e godimenti. Come ogni
opera buona era loro cagion di tormento, così era cagion di letizia
ogni opera rea, e quanto sappiamo dell'andamento delle cose umane
lascia supporre ch'essi avessero assai più frequente occasione di
rallegrarsi che di dolersi. Spesso, nelle pietose leggende, si veggono
i diavoli far grande tripudio intorno all'anima che diventa loro
concittadina. Dice Pietro Cellense (m. 1183) in uno de' suoi sermoni
che il diavolo, sommerso nelle fiamme infernali, sarebbe morto di fame
da un pezzo, se non lo rifocillassero i peccati degli uomini; e Dante
assicura che egli in inferno si placa vedendo le cose di questo mondo
andare a modo suo. Anche ammettendo che la pena dei diavoli fosse
gravissima, refrigerio non le mancava.

I teologi sono comunemente d'accordo nel dire che in purgatorio non ci
sono demonii a tormentare le anime; ma moltissime Visioni rappresentano
il purgatorio pieno anch'esso di diavoli, intesi a farvi il consueto
officio di tormentatori. La Chiesa, che solo nel 1439, nel concilio
di Firenze, fermò il dogma del purgatorio, la cui dottrina era stata
innanzi svolta da san Gregorio e da san Tommaso, non si pronunziò sopra
questo punto particolare. Dante, che quanto alla situazione e alla
struttura del purgatorio ha immaginazioni e concetti tutti proprii,
quanto alla relazione di esso coi demonii tiene la opinion dei teologi
e lascia quella dei mistici. L'antico avversario tenta, gli è vero, di
penetrare nel purgatorio del poeta in forma di biscia,
Forse qual diede ad Eva il cibo amaro;
ma gli angeli, gli _astor celestiali_, lo volgono in fuga. Sia qui
notato di passaggio che le pene del purgatorio furono da taluno credute
più aspre che non quelle dell'inferno, e ciò perchè non duravano
eterne, come l'altre duravano.

L'inferno era l'ordinaria dimora dei dannati, e il luogo dov'essi
soffrivano regolarmente il meritato castigo; ma non si creda che la
regola fosse a dirittura senza eccezione. Lasciando stare per ora certi
dannati avventurosi che per ispecialissima grazia divina furono tratti
dall'abisso e ammessi in cielo, dei quali avrò a parlare più oltre,
si vuol notare che i dannati potevano in certi determinati casi, e
per un tempo più o meno lungo, uscire dalla lor prigione, e che c'era
pure, se così può dirsi, un inferno fuori dell'inferno. Apparizioni di
dannati erano, come s'è veduto, frequenti; ma nulla giovava ad essi
l'essere fuori del luogo consueto di pena, perchè la pena li seguiva
lo stesso, come l'ombra il corpo. Altri dannati non erano ricevuti
in inferno, ma penavano in qualche strano luogo della terra, forse
perchè potessero essere di salutare ammaestramento a chi, peregrinando,
s'imbatteva in loro. Così è che san Brandano, navigando alla scoperta
del Paradiso terrestre, trovò in un gran gorgo di mare il massimo dei
rei, Giuda Iscariote, perpetuamente sbattuto dall'onde infuriate; e
che uno degli eroi della leggenda epica carolingia, Ugone di Bordeaux,
errando in Oriente, trovò Caino chiuso in una botte di ferro, irta
dentro di chiodi, la quale andava senza posa ruzzolando per un'isola
deserta. Giovanni Boccaccio, rifacendo a modo suo più antichi racconti,
narra la paurosa storia di quel Guido degli Anastagi, che uccisosi di
propria mano per disperazione d'amore, e dannato agli eterni castighi,
insegue ogni giorno, quando per questa, quando per quella campagna,
montato sopra un cavallo nero, con uno stocco in mano, e due mastini
innanzi, la donna spietata e crudele, dannata ancor essa, la quale
a piedi e ignuda gli fugge davanti, finchè raggiuntala, egli con lo
stocco la trafigge, con un coltello la spara, e il cuore e gli altri
visceri getta in pastura ai cani affamati. Stefano di Borbone (m.
c. 1262) parla di certi fantasmi che, in luogo prossimo all'Etna, si
vedevano, tutta la settimana, affaccendati a costruire un castello, il
quale precipitava nella notte del sabato, e per opera loro ricominciava
a sorgere dalle fondamenta la mattina del lunedì; ma sembra fossero
piuttosto anime purganti che dannate.
Più d'una volta fu veduto, nel colmo della notte, l'intero popolo
infernale andare a processione, per l'aria, o passar per un bosco, con
ordinanza come di sterminato esercito in marcia. Il monaco Otlone,
vissuto sin verso la fine del secolo XI, racconta di due fratelli,
che cavalcando un giorno, videro improvvisamente nell'aria una turba
grandissima, la quale passava non molt'alto da terra. Esterrefatti,
chiesero, facendosi il segno della croce, a quegli strani viaggiatori
chi fossero. Uno, che pel cavallo che montava e per le vesti, sembrava
cavaliere di conto, si diede loro a conoscere, dicendo: “Io sono
il padre vostro, e se voi non rendete al convento, cui lo tolsi
ingiustamente, il fondo che sapete, sarò irremissibilmente dannato, e
con me saranno tutti i successori miei che terranno il maltolto.„ Il
padre dà ai figliuoli un saggio degli orribili tormenti che soffre,
e i figliuoli riparano la colpa di lui, e in tal modo lo liberano
dall'inferno.
Ma una storia più meravigliosa e spaventosa di questa trovasi narrata
da un altro monaco, il cronista Orderico Vital, vissuto sin verso il
mezzo del XII secolo. Un prete di nome Gualchelmo, curato di Bonneval,
tornava una notte dell'anno 1091 dall'aver visitato un infermo, lungi
un buon tratto dalla sua casa. Mentr'egli attraversava i campi deserti,
illuminati dalla luna che alta splendeva nel cielo, gli percosse
l'orecchio un rumor vasto e formidabile, come di grandissimo esercito
che valicasse. Preso dallo spavento, fa per nascondersi tra certe
piante, che quivi erano, quand'ecco un gigante, armato di una smisurata
mazza, gli vieta il passo, e senza altrimenti nuocergli, gl'ingiunge di
non muoversi. Il prete resta come inchiodato, e assiste a uno strano e
terribile spettacolo. Passa da prima una turba innumerevole di pedoni,
i quali trascinano con sè grande quantità di bestiame, e vanno carichi
d'ogni sorta di masserizie. Si lamentano tutti in grave modo, e l'un
l'altro sollecita. Segue una torma di sotterratori, i quali recano
cinquanta feretri, e su ciascun feretro siede un orribile nano, con
capo enorme, a guisa di dolio. Sopra un gran tronco, che due tenebrosi
etiopi recano in ispalla, è strettamente legato un malvagio uomo, il
quale empie l'aria di orrendi ululati. Un mostruoso demonio gli sta
sopra a cavalcioni, e con isproni affocati gli lacera il tergo ed i
lombi. Viene dopo una cavalcata senza fine, tutta di donne peccatrici:
il vento solleva ogni tratto quegli aerei lor corpi all'altezza di un
cubito, e subito li lascia ricader sulle selle irte di chiodi roventi.
Alla cavalcata s'accoda una schiera di ecclesiastici d'ogni condizione,
e a questa tien dietro un esercito di cavalieri, vestiti di tutte
le armi, cavalcanti corsieri grandissimi, e spieganti all'aria negri
vessilli. Il prete ha con uno di quei cavalieri un colloquio che qui
non importa riferire: il cronista Orderico afferma d'avere udito dalla
stessa bocca di lui l'intero racconto.

Nell'Apocalissi detta di san Giovanni si legge che lo strazio dei
dannati durerà nei secoli, e non avrà lenimento nè di giorno, nè di
notte, e gli scrittori ecclesiastici sono unanimi in affermare che
Dio abbandona affatto i dannati e si scorda di loro. San Bernardo dice
esplicitamente, in uno de' suoi sermoni, che in inferno non è luogo a
indulgenza, come non è possibilità di penitenza. È questa la opinione
fermata dalla rigida teologia dogmatica; ma ad essa un'altra opinione
contrasta, suggerita da una teologia più tollerante e più umana, da
una teologia che ignora le sottigliezze della dialettica, e vien dal
cuore per andare al cuore; e secondo quest'altra opinione la infinita
misericordia di Dio non si ferma dinanzi alle porte dell'inferno,
ma, come un raggio di luce benefica, penetra nell'abisso, e consola
di alcun blandimento e di alcuna requie le torture inenarrabili dei
dannati.
Il poeta cristiano Aurelio Prudenzio (c. 348-408?) parla, in un
suo inno, di riposo conceduto alle anime dannate, la notte della
risurrezione di Cristo. In un'apocrifa apocalissi di san Paolo,
composta verso la fine del quarto secolo da un qualche monaco greco, si
racconta una discesa dell'apostolo delle genti nel regno dell'eterna
perdizione. Guidato dall'arcangelo Michele, l'apostolo ha già tutto
percorso il _doloroso regno_, ha veduto i varii ordini di peccatori e
gli aspri castighi a cui li assoggetta la divina giustizia, ha versato
a quella vista lacrime di pietà e di dolore. Egli sta per togliersi
all'orror delle tenebre, quando i dannati gridano ad una voce: “O
Michele, o Paolo, movetevi a compassione di noi; pregate per noi il
Redentore!„ L'arcangelo dice loro: “Piangete tutti, ed io piangerò
con voi, e con me piangeranno Paolo e i cori degli angeli: chi sa che
Dio non v'usi misericordia.„ E i dannati gridano: “Miserere di noi,
figliuolo di David!„ ed ecco scende dal cielo Cristo incoronato, e
rinfaccia ai reprobi la malvagità loro, e ricorda il sangue inutilmente
per essi versato. Ma Michele, e Paolo, e migliaja di migliaja di
angeli, s'inginocchiano dinanzi al figliuolo di Dio, e chiedono
misericordia; e Gesù, mosso a pietà, concede alle anime tutte che sono
in inferno tanta grazia che abbiano requie, e sieno senza tormento
alcuno, dall'ora nona del sabato all'ora prima del lunedì.
Questa, che è forse la più bella tra quante leggende divote nacquero
dalla fantasia cristiana, ebbe più tardi, volta di greco in latino, e
di latino in varii volgari d'Europa, grande divulgazione e celebrità,
e gli è più che probabile che Dante l'abbia conosciuta e n'abbia fatto
ricordo nel suo poema divino; ma il pensiero che la informa non le
è così proprio che anche in più altre leggende del medio evo non si
ritrovi. San Pier Damiano racconta sulla fede dell'arcivescovo Umberto:
Presso a Pozzuoli sorge, fra acque fetide e negre, un promontorio
sassoso e ronchioso. Da quell'acque pestifere sogliono levarsi, a tempi
determinati, uccelli spaventosi, i quali si lasciano vedere dal vespro
del sabato sino al mattino del lunedì. Durante questo tempo volano
come emancipati, di qua e di là intorno al monte, spandono l'ale, si
ravviano col becco le piume, e pajono godere di alcun refrigerio e
di alcun riposo loro conceduto. Nessuno mai li vide cibarsi, nè v'è
cacciatore che possa, per qualunque ingegno v'adoperi, insignorirsene.
Come appar l'alba del lunedì, ecco sopraggiunge un corvo, di grandezza
simile a un avvoltoio, e comincia con un gracchiar grave a sollecitar
quegli uccelli, e a cacciarseli innanzi. Essi, gli uni dopo gli altri,
s'immergono tutti nello stagno, e più non si lasciano vedere sino al
sabato seguente; onde da alcuni si crede sieno anime di dannati, alle
quali, ad onore della risurrezione di Cristo, è largita la grazia
dì poter riposare la domenica e le due notti ancora che fra sè la
comprendono.
Ma con o senza temporanea mitigazione e temporaneo riposo, le pene
infernali duravano per l'eternità. La dottrina propugnata nel terzo
secolo da Origene, uno dei più grandi spiriti per certo ch'abbia
prodotto l'antichità cristiana, la dottrina cioè della salvazione
finale di tutte le creature, e del ritorno a Dio di tutto quanto venne
da Dio, pure insegnata, nel secolo successivo, da Gregorio di Nazianzo
e Gregorio di Nissa, era caduta sotto la riprovazione dei più gelosi
custodi della verità dogmatica, sotto l'anatema dei concilii, e aveva
in tutto ceduto il luogo alla dottrina della dannazione eterna ed
irrevocabile. La spaventosa minaccia era perciò perpetuamente presente
agli spiriti, e di ogni mezzo si usava perchè fosse rincalzata a dovere
e impressa con più forza, più addentro. Le arti a gara ajutavan la
fede; e Giotto nell'Arena di Padova, l'Orcagna sopra una parete di
Santa Maria Novella in Firenze, un pittore non accertato nel Campo
Santo di Pisa, in luogo consacrato all'eterno riposo, altri altrove,
ritraevano con pennelli di fiamma i terrori e gli orrori dell'abisso
infernale. Nei Misteri drammatici si vedeva comparir sulla scena la
bocca voraginosa del simbolico drago, trangugiatore di anime. Dante
descriveva alle universe genti il regno delle tenebre, sulla cui
orribile porta scolpiva:
Lasciate ogni speranza, o voi ch'entrate.
Dal pulpito il frate, levando con l'una mano il crocifisso a testimonio
delle sue parole, noverava, una per una, le torture dei maledetti
caduti in signoria di Satana, e quand'egli aveva finito, l'organo
cominciava a muggire, e sotto le volte profonde, nel crepuscolo delle
marmoree navate, risonava un terribil canto, e narrava gli orrori della
spaventosa voragine,
Ubi tenebræ condensæ,
Voces diræ et immensæ,
Et scintillæ sunt succensæ
Flantes in fabrilibus.
Locus ingens et umbrosus,
Fætor ardens et fumosus,
Rumorque tumultuosus,
Et abyssus sitiens.


CAPITOLO XII.
LE DISFATTE DEL DIAVOLO.

Satana aveva, come s'è veduto, numerosi fautori; ma aveva anche
numerosi avversarii: quelli in inferno e sulla terra, questi sulla
terra e nel cielo. Fautori suoi erano tutti gli altri demonii, e
tutti gli uomini malvagi, specialmente gli eretici e gli stregoni;
avversarii, tutti gli uomini buoni, e in più particolar modo i santi,
vivi e morti, e gli ecclesiastici, in grazia, se non di loro virtù, di
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