Il Diavolo - 05

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apparato, e si raccoglieva tutta in un solo momento. Sant'Antonio,
le cui tentazioni sono diventate famose e proverbiali, viaggiando
una volta nel deserto, trovò in terra un disco d'argento: era una
insidia del demonio che voleva fargli nascere in cuore un peccaminoso
rincrescimento delle lasciate ricchezze. Sant'Ilarione, affamato, si
vedeva improvvisamente davanti gran copia di vivande squisite. A santa
Pelagia, che un tempo era stata commediante in Antiochia, ed erasi poi
ritirata a vita contemplativa in una spelonca del Monte Oliveto, il
diavolo offriva, oggetto di desiderii antichi, anelli, monili, gemme
d'ogni sorta. Queste immagini bugiarde si dileguavano così subitamente
come erano apparse.
Alcun'altra volta l'apparato e l'ostentazione eran maggiori, le larve
allettatrici o paurose si moltiplicavano e si variavano, la tentazione
si sceneggiava. Sant'Ilarione, mentre pregava, si vedeva schizzar
sotto gli occhi lupi ululanti, volpi squittenti, assisteva a pugne
improvvisate di gladiatori, vedeva i morenti rotolarsi a' suoi piedi,
e gli udiva implorare da lui la sepoltura. Una notte, mentre vegliava
com'era consueto, cominciò a udire vagito di bambini, belato di greggi,
muglio di buoi, rugghio di leoni, pianto di donne, un murmure vasto,
come di esercito in campo. Conosciuto il diabolico ludibrio, si butta
in ginocchio, si segna in fronte, e si guarda d'attorno, aspettando
nuovo portento. Ed ecco, subitamente, al lume della luna, vede un
cocchio, trascinato da focosi cavalli, farglisi addosso. Invocato
dal santo il divin nome di Cristo, incontanente s'apre la terra ed
inghiotte il fantasma. Il tutto era opera di Satana, voglioso di
stogliere il buon servo di Dio dalla meditazione e dalla preghiera,
e di rendergli incresciosa, popolandola di terrori, la solitudine. Le
storie dei santi riboccano di sì fatti esempii.
Queste, che Satana esercitava col sussidio di larve ingannevoli,
o, come pure accadeva, con quello di cose reali e corporee, erano
tentazioni assai poderose, perchè occupavano i sensi, e attraverso
i sensi investivano l'anima, sempre così pronta a farsi ancella dei
sensi; ma tra esse tutte la più formidabile era quella che toglieva
argomento dai pervicaci istinti della generazione e dell'amor sessuale.
Era questa la tentazione che procurava a Satana i maggiori trionfi.

Il cristianesimo ha maledetto la carne, ha infamato l'amore. L'atto
vario e molteplice ne' modi, ma uno nel principio, per il quale le
creature si riproducono, e a cui gli antichi avevano preposta una delle
maggiori, e certo la più radiosa fra le divinità dell'Olimpo, è, agli
occhi del cristiano, essenzialmente malvagio e turpe, e la malvagità e
turpitudine sua possono a mala pena, nella progenitura d'Adamo, essere
emendate dal sacramento. Il celibato è pel cristiano, se non altro in
teorica, condizione di vita assai più pregevole e degna che non il
conjugio, e la continenza è virtù che va tra le maggiori. Lattanzio
afferma essere la verginità come il fastigio di tutte le virtù, e il
grand'Origene, detto l'adamantino, non aveva aspettato l'affermazion
di Lattanzio per porsi, con le proprie sue mani, nella impossibilità di
perderla.
Non è dunque da stupire se gli asceti consumarono spesso il meglio
delle forze loro nella disperata fatica di spegnere in sè medesimi
ogni favilla di concupiscenza, di sedare ogni benchè involontario
e minimo fremito della carne; ma non è da stupir similmente, se in
cotal opera di ribellione contro alla natura, essi, più di una volta,
furono soperchiati e vinti. Per fuggir le insidie di Venere, riparavano
nei deserti, si muravan nei chiostri; e Venere rinasceva dentro di
loro, dall'orgoglio degli umori, come già altra volta dalla spuma del
mare, e soggiogava le lor fantasie. Per sottrarsi al temuto contagio,
ricusavano di vedere, dopo anni ed anni di separazione, le madri e
le sorelle; ma la donna invadeva le loro celle egualmente, immagine
vagheggiata e detestata ad un tempo. A un accenno fortuito, a un
pensier fuggitivo, la virilità, compressa, ma non vinta, insorgeva
con impeti belluini, mordeva e dilaniava quelle carni esacerbate dalle
mortificazioni. Ed erano battaglie spaventose che lasciavano affranto,
anche se vittorioso, l'atleta di Cristo. Oh quante volte, scriveva
san Gerolamo alla vergine Eustochia, essendo io nel deserto, in quella
vasta solitudine arsa dal sole, che porge ai monaci orrenda abitazione,
immaginava d'essere tra le delizie di Roma! Sedeva solo, piena l'anima
di amarezza, vestito di turpe sacco, e fatto nelle carni simile ad
un Etiope. Non passava giorno senza lacrime, senza gemiti, e quando
mi vinceva, mio malgrado, il sonno, m'era letto la nuda terra. Nulla
dico del mangiare e del bere, essendochè i monaci, anche ammalati,
non bevono se non acqua, e stimano lussuria ogni vivanda cucinata. E
quell'io, che per timor dell'inferno m'era dannato a tal vita, e a non
avere altra compagnia che di scorpioni e di fiere, spesso m'immaginava
d'essere in mezzo a schiere di fanciulle danzanti. Il mio volto era
fatto pallido dai digiuni, ma nel frigido corpo l'anima ardeva di
desiderii, e nell'uomo, quanto alla carne già morto, divampavano
gl'incendii della libidine. Allora, privo d'ogni altro soccorso, mi
gettavo ai piedi di Gesù, li bagnavo di lacrime, li tergevo co' miei
capelli, e la carne ribelle soggiogavo col digiuno di una intera
settimana. Non arrossisco in confessare la mia miseria; anzi piango
di più non essere qual fui. E mi sovviene che assai volte, gridando e
pregando, vidi succedere al giorno la notte, e come non cessassi dal
percuotermi il petto finchè, alla voce di Dio, non fosse in me tornata
la calma.

Sono senza numero i santi a cui il diavolo apparve in figura di
leggiadra fanciulla, o di nobil matrona pomposamente vestita, e non
rarissimi quelli che non seppero vincere la terribile tentazione. Di
solito la falsa e diabolica donna fingeva d'avere smarrita la via,
d'essere stata soprappresa dal mal tempo o dalla notte, ovvero anche,
come l'Abimelech del Boccaccio, d'avere abbandonato la casa e la
famiglia per darsi al servizio di Dio, e con volto dimesso, con grande
umiltà e onestà di parole, chiedeva al sant'uomo asilo e protezione. E
se il sant'uomo, mosso da intempestiva pietà, o troppo fidente nella
virtù propria, accoglieva nella sua celletta, appena capace di due
persone, la bella supplicante, c'era pericolo, ma pericolo grande, che
la cosa andasse a finir male. Ruffino d'Aquileja narra a tale proposito
una storia degna d'essere scelta fra cento.
Viveva nel deserto, e abitava in una spelonca un monaco, uomo di
grandissima astinenza, adorno di tutte le virtù, solito di passare in
orazione i giorni e le notti. Costui, vedendo il profitto che faceva in
santità, cominciò a montare in superbia, e a dare tutto a sè il merito
che solo apparteneva a Dio. Il demonio, ciò conoscendo, non tarda
ad apparecchiare e tendere i suoi lacci. Ed ecco, una sera, giunge
dinanzi alla spelonca del santo uomo una bellissima donna, la quale,
entrata dentro, fingendosi al tutto vinta dalla stanchezza, si getta ai
suoi piedi, e con ogni istanza lo prega di volerle dare ricovero: la
notte l'ha colta in quel deserto; non la lasci, per carità, in preda
alle fiere. Egli, impietosito, l'accoglie benignamente, e comincia
a chiederle la ragion del suo viaggio; ella narra una sua storia,
ingegnosamente ordita, e con arte sparge di blandizie e di lusinghe il
racconto, ora mostrandosi degna di commiserazione, ora meritevole di
difesa, e con la eleganza e soavità del discorso circuisce e soggioga
l'animo di lui. A poco a poco il colloquio si fa più intimo; alle
parole si mescolano il riso e gli scherzi, ed ella, fatta ardita, non
tarda a stendere la mano alla barba di lui, ad accarezzargli dolcemente
la nuca e il collo. Ed ecco, è già vinto il milite di Cristo. Divorato
dalle fiamme della concupiscenza, dimentico del suo passato, non
curante del frutto di tante fatiche strenuamente sostenute, egli,
fatto simile a un bruto (dice Ruffino), già si accinge agli osceni
amplessi. Ma in quella appunto, la menzognera immagine, gettando un
urlo spaventevole, fugge dalle sue braccia, lasciando lui in assai
indecoroso (Ruffino dice più e meglio) e ridicolo atteggiamento. Allora
i demonii, che in grande moltitudine erano ivi congregati nell'aria,
spettatori del turpe fatto, lo scherniscono, gridando a gran voci:
“O tu, che ti estollevi sino al cielo, come sei così precipitato in
inferno? Conosci ora che chi si innalza sarà umiliato.„ Dopo così
dolorosa avventura, il mal consigliato monaco, disperando della
salute, fece ritorno al mondo, e tutto si abbandonò all'impudicizia e
all'iniquità, e si diede irrevocabilmente in preda a Satana.
Avverte Ruffino che il monaco avrebbe potuto con le lacrime del
pentimento lavarsi del peccato commesso, e ritornare, con le astinenze
e le orazioni, nella grazia di prima. In fatti, san Vittorino, vescovo
d'Amiterno, cadde nello stesso peccato; ma seppe con formidabile
penitenza riscattarsi dalle mani del vittorioso nemico. E così fecero
altri parecchi. C'è appena bisogno di dire che quando si trattava, non
di santi, ma di sante, il diavolo assumeva l'aspetto di un bel giovane,
non meno audace che tenero. In tal forma appunto egli si mostrò a santa
Francesca Romana, che molto ebbe a soffrire della sua importunità.
Non sempre il diavolo si piegava a far la parte che in questi racconti
si vede, o non sempre lo giudicava necessario. Egli poteva contentarsi
talvolta di far nascere certi desiderii, perchè i desiderii sono già
peccato per sè stessi, e la sua naturale tristizia poteva trovare una
soddisfazione tutta particolare in far nascere quei desiderii e in non
dare poi modo di appagarli. Narra san Gregorio Magno che il diavolo
accese una volta in corpo a san Benedetto una concupiscenza così
rabbiosa e spasimata che il povero santo, a chetarla, non trovò altro
rimedio che di spogliarsi ignudo e voltolarsi ben bene in uno spineto.
Quando altro non poteva, il diavolo provocava polluzioni notturne, le
quali, tuttochè involontarie, potevano essere peccato, se accompagnate
da immagini lascive e da sentimento di voluttà, e bastavano, a ogni
modo, a tener deste certe energie, a metter la fantasia in subbuglio.

Volentieri il diavolo prendeva questa o quella forma, sia per tentare
più efficacemente, sia per indurre altrui piuttosto in uno che in
altro peccato. Ai santi uomini si lasciava spesso vedere in figura
di angelo, circonfuso di luce, o di santo, o di Cristo stesso, con
in fronte i segni della divinità, e ciò a fine di farli salire in
superbia, provocando in essi un esagerato concetto della lor santità,
o anche per suggerir loro false e malvage dottrine, funesti propositi.
Gli è con quest'arte che egli riuscì, più di una volta, a persuadere
il suicidio ad uomini d'impeccabile vita, che avevano insino allora
respinto vittoriosamente ogni suo assalto. Si narra di un monaco Erone,
che da cinquant'anni menava nel deserto austerissima vita, per modo
che nemmeno il giorno di Pasqua allentava il rigore delle astinenze.
Un giorno il diavolo gli appare in figura d'angelo, e gl'impone di
gettarsi capofitto in un pozzo, ciò ch'egli fa senza indugio, fermo
nella opinione che ne uscirà illeso, e che sarà questa una grande e
irrefragabile prova della sua santità e della grazia divina. Altri
monaci riescono con grande fatica a trarnelo fuori, ed egli in capo di
tre giorni si muore.
Altro esempio. Guiberto di Nogent (m. 1124) racconta la storia di un
giovane che aveva peccato con una donna, e che pentito se n'era andato
in pellegrinaggio a San Giacomo di Gallizia. Un bel giorno gli apparve
il diavolo sotto le sembianze del santo, e gl'impose per penitenza di
tagliarsi, prima ciò che il discreto lettore vorrà indovinare senza
ch'io il dica, e poi la gola. Obbedì l'incauto giovane, e sarebbe
andato senza remissione in inferno, se la beata Vergine non l'avesse
in buon punto risuscitato. Tornò vivo, ma non riebbe più ciò che s'era
tolto con le proprie sue mani.
Certi santi invece, per quanto s'immascherasse, il diavolo non riusciva
a ingannarli. Ho già ricordato san Martino. Una volta il diavolo gli si
presentò con la porpora indosso, la corona in capo, i calzari dorati, e
gli disse: “Non mi conosci? io sono Cristo.„ Ma il santo: “Che Cristo!
Cristo non ebbe nè porpora, nè corona, ed io non lo conosco se non
ignudo, quale fu sulla croce. Tu sei il diavolo.„ Se i papi avessero
meditato questa risposta!
Più raro era il caso che il demonio venisse a tentare sotto l'aspetto
suo proprio, ma anche questo caso si dava. Satana non si trasformò, nè
si travestì per tentar Cristo. Una volta san Pacomio vide una torma
di diavoli trascinare un fastello di foglie e fingere di durarci una
grande fatica, non per altro che per muoverlo al riso. Ora, il riso, se
non era peccato, poteva essere semente di peccato. I migliori monaci
non ridevano mai, anzi piangevano spesso, come quel sant'Abramo di
Siria, che non passò mai un giorno senza piangere.
Non parlo delle mille tentazioni minute e leggiere che intravenivano
pressochè del continuo, e non avevano altro scopo che di distogliere
dalla meditazione e dalla preghiera, o di far rinnegare la pazienza a
chi le pativa; come, per esempio, ripetere, a guisa d'eco, le parole
dei leggenti, fare sternutire ripetutamente un predicatore nel più
bel punto del suo discorso, fare che una mosca importuna si posasse
dieci volte di seguito sul viso di chi stava per abbandonarsi al
sonno, ecc. ecc. Ma abbiasi a mente che non è tentazione così piccola
e lieve la quale non possa divenir principio d'irreparabile caduta.
Mettete un seme in terra, e se non fanno difetto gli elementi e le
condizioni necessarie alla vegetazione, il seme diventa pianta. Così il
diavolo, che sa queste cose, riesce con una prima tentazione, spesso
leggierissima, a porre nell'animo un primo germe di peccato, e questo
germe, ajutato da lui, subito alligna, cresce, si fa pianta e reca
in breve i perniciosi suoi frutti. C'era un eremita, che menava vita
austerissima, e aveva grande riputazione di santità. Un giorno gli
capita innanzi il diavolo, in sembianza di un uom dabbene, e gli dice:
“Voi vivete così solo; perchè non togliete con voi un gallo che vi
serva di compagnia, e vi faccia la mattina levare a tempo?„ Il povero
eremita ricusa da prima, poi esita, ma finalmente segue il consiglio e
toglie il gallo. Che sarà? un gallo non è mica il diavolo. Ma il gallo
a star solo s'annoja, smagrisce di giorno in giorno. Allora l'eremita,
per sentimento di carità, gli provvede una gallina. Non l'avesse mai
fatto! La vista di certi spettacoli ridesta nell'animo suo ardori
antichi, e che egli certamente credeva spenti per sempre. Si innamora
della figlia di un gentiluomo del vicinato, assai giovane e bella, e
pecca con lei; poi per celar la sua colpa e sottrarsi alla vendetta dei
parenti, uccide la giovane, e la nasconde sotto il letto. Ma si scopre
il misfatto, e il colpevole è condannato all'ultimo supplizio. Salendo
il patibolo egli esclama: “Ecco a che termine m'ha condotto un gallo!„
Queste erano tentazioni che davano al diavolo poca faccenda, e che
quasi da sè venivano al fine loro; ma ce n'erano altre che il diavolo
preparava di lunga mano, e a cui attendeva con diligenza indefessa,
con pazienza miracolosa. Una storia che ebbe nel medio evo grandissima
voga, e che fu narrata tra gli altri dal nostro Bernardo Giambullari,
racconta come il diavolo, una volta, si fece bambino, e, in tal
forma, chiese ed ottenne d'essere accolto in un monastero il quale
era in grandissimo odore di santità. L'abate, uomo dabbene, lo fece
istruire, e vedendo che il fanciullo imparava ogni cosa con somma
facilità, ed era di ottima indole, e assai costumato, stimava avere
il convento fatto un grande acquisto e ne ringraziava Iddio. Quando
il fanciullo fu cresciuto, ed ebbe l'età, vestì l'abito, con grande
giubilo dei fratelli; e morto, dopo qualche anno, il vecchio abate,
egli n'ebbe, per voto unanime, la dignità. Ma non andò molto che la
regola del convento cominciò ad allentarsi, i costumi a corrompersi.
Il nuovo abate migliorò assai il vitto, accordò facilmente dispense, e
agevolò in tutti i modi le relazioni dei suoi monaci con le suore di
certo monastero ivi presso. Lo scandalo era grande e si faceva ogni
giorno maggiore. Il papa, informatone, mandò sul luogo due monaci
di santa vita, e di sua fiducia, perchè vedessero e provvedessero.
Costoro cominciarono le loro indagini, e a un certo punto il diavolo,
sentendosi scoperto, gettò le insegne dell'usurpato officio, e si
sprofondò nella terra. I monaci traviati fecero penitenza, e l'antico
ordine fu restaurato. In Danimarca, in Germania, in Inghilterra, fu
notissima un tempo la storia di frate Ruus, Rush, o Rausch, un diavolo
che si pose per cuoco in un convento, fece da mezzano all'abate e
agli altri monaci, fu dopo sette anni ricevuto nell'ordine, e tutto il
convento avrebbe condotto in perdizione, se non fosse stato scoperto
per caso.
Come si vede, il demonio, da quel volpone ch'egli è, non prendeva
sempre la via più diritta per venire ai suoi fini, ben sapendo che
non sempre la più diritta è la più corta, e la più sicura. Anzi, non
di rado, egli prendeva una via che sembrava doverlo condurre ad un
fine affatto opposto a quello che s'era prefisso, ma tanto più sicura
per lui quanto meno sospettata dagli altri. Così, se vedeva un uomo
tutto dedito alle pratiche di devozione, chiuso ad ogni lusinga,
inaccessibile all'errore, egli non perdeva il tempo a stuzzicarlo
con tentazioni di carattere più o meno mondano; ma, all'incontro,
lo esortava a perseverare, lo stimolava a inasprire vie più le
macerazioni, a moltiplicare le preghiere, a esagerare le pratiche tutte
dell'ascetismo, e giungeva persino ad inspirargli una grande conoscenza
delle Scritture, come se ne può vedere esempio nella Vita di san
Norberto, vescovo di Magdeburgo. Di san Simeone Trevirense si racconta
che i diavoli volevano fargli dire la messa per forza, lo toglievano
dal letto, lo menavano davanti all'altare, gli ponevano indosso le
vesti sacerdotali. La conseguenza non insolita di tutto ciò era che il
sant'uomo, meravigliando della propria santità, cominciava a levarsi
in superbia, e a perdere, per questo solo peccato, il frutto d'ogni
sua virtù. Così per voler essere troppo santi si finiva qualche volta
all'inferno.
Ad esercitare questa specie di tentazioni il diavolo di rado si valeva
di argomenti esteriori, che potessero fare impressione sui sensi, ma si
giovava, d'ordinario, della pericolosa facoltà ch'egli ha di sommuovere
gli animi umani e d'influirvi in vario modo. Nè quelle erano, come può
bene immaginarsi, le sole tentazioni che egli, in grazia di quella sua
facoltà, potesse esercitare. Dato che la volontà non patisca violenza
da lui, tutte le altre potenze dell'anima umana soggiacciono al suo
influsso, e questo influsso si risolve in un lavoro di tentazione
continua. Ed anche qui le Vite dei santi abbondano di esempii e di
prove. Sullo specchio dell'anima egli faceva passar l'ombre che più
gli piacevano, e nella viva sostanza di lei spargeva a larga mano i
più svariati fermenti. Suscitava fantasmi fascinatori, evocava ricordi
pungenti, acuiva desiderii, sollevava dubbii, incuteva terrori,
fomentava inquietudini dolorose e profonde, promoveva quell'intimo e
generale turbamento dello spirito entro a cui si forma e si addensa
il peccato come si forma e si addensa la nube negli avvolgimenti della
bufera.
Così il diavolo era sempre attorno alle anime per sedurle e per
rapirle, e gli è perciò ch'ei fu chiamato cacciatore, pescatore,
stupratore, ladrone, omicida delle anime. San Gerolamo ebbe a chiamarlo
pirata, perchè, veramente, questo mondo è come un mare in tempesta,
dolorosamente navigato da noi, e corso trionfalmente da lui. Dico da
lui e dovrei dire da loro. Perchè tutti i diavoli facevano mestiere
di tentatori, ed era anzi opinione ricevuta comunemente che ciascun
vizio avesse suoi particolari demonii, che l'insegnavano e fomentavano.
Costoro ricevevano dal principe gli ordini necessarii e le opportune
istruzioni, poi, compiuta l'opera, tornavano a darne conto, e quelli
che s'erano fatti poco onore trovavano assai brutte accoglienze.
San Gregorio Magno racconta di un così fatto consesso o conciliabolo
diabolico, tenuto in un tempio di Apollo. Nelle Vite dei Santi Padri
è un curioso racconto, il quale prova che i diavoli avevano un bel da
fare a contentare il principe. Il figlio di un sacerdote degli idoli,
entrato un giorno nel tempio, vede Satana in trono, circondato della
sua milizia, e in atto di esaminatore e di giudice. Viene un demonio,
e l'adora, e Satana gli domanda: “Dove fosti, e che facesti?„ Quegli
risponde: “Fui nella tal provincia, e suscitai guerre e turbazioni
grandissime, e feci versar molto sangue.„ “E quanto tempo chiede
Satana, spendesti in tal opera?„ — “Trenta giorni.„ — “Tanto, ti ci
volle?„ dice Satana, e senz'altro ordina che sia bastonato ben bene.
Capita un altro diavolo. — “D'onde vieni, che hai fatto?„ — “Fui sul
mare, e levai grandi burrasche, e sommersi molte navi; feci morire
assai uomini.„ — “In quanto tempo?„ — “In venti giorni.„ — “Troppi!„
esclama Satana, e ordina subito che anche questo sia bastonato.
Sopraggiunge un terzo diavolo, e ricomincia l'interrogatorio: “A
te; dove fosti, e che facesti?„ — “Fui nella tal città, e mentre si
festeggiavano certe nozze, eccitai gli animi, accesi litigi e zuffe,
e procurai molte uccisioni, e ammazzai anche lo sposo.„ — “In quanti
giorni?„ — “In dieci.„ — “Oibò!„ dice Satana, e lo dà in mano ai
bastonatori. Ecco finalmente un quarto diavolo. “D'onde vieni? che
facesti?„ — “Fui nel deserto, dove tentai un monaco lo spazio di
quarant'anni, e solo la scorsa notte riuscii a vincerlo e a farlo
fornicare.„ In udir ciò Satana si leva da sedere e bacia il demonio;
poi la propria corona gli pone in capo, e se lo fa sedere a fianco,
dicendo: “Gran cosa facesti e ti comportasti da valoroso.„
Questa storia lascia intendere, fra altre cose parecchie, che la
tentazione poteva essere qualche volta opera assai laboriosa; ma
quanto laboriosa fosse la resistenza alla tentazione, non dice. I
Dottori affermano, gli è vero, che la tentazione non supera mai le
forze del tentato, così chiedendo la bontà e la giustizia di Dio; ma
gl'infiniti tentati che caddero dovettero essere, in generale, d'altro
avviso. Comunque sia, sta il fatto che resistere alla tentazione non
era, alcuna volta almeno, senza grande pericolo. Cesario racconta il
lacrimevole caso di un brav'uomo, il quale, avendo ricusato di fare
all'amore con un diavolo, fu dal diavolo afferrato per i capelli,
levato in aria, e poi scaraventato in terra, per modo che, dopo un
anno, se ne morì.
Tutti gli uomini erano, come abbiam veduto, esposti alla tentazione, e
la tentazione durava tutta la vita. Il santo, anzichè andarne immune,
la sperimentava più violenta e più assidua di ogni altro: ciò nondimeno
egli aveva un modo di liberarsene del quale non potevano fruire i
miseri peccatori. Quando egli aveva domati in sè tutti gli istinti
e tutte le energie; quando a furia di digiuni, di flagellazioni, di
veglie, di orazioni, aveva uccisa la carne, scombujata la memoria,
spenta la fantasia, assiderato l'intelletto; quando aveva fatto
dentro di sè il silenzio e la immobilità della morte, la tentazione
cessava, come cessa la fiamma, quando più non trovi a che appigliarsi.
Chi abbia, come san Simeone Stilita, passato mezzo secolo in cima a
una colonna, può ridersi di tutte le arti del tentatore. Il santo,
diventato un sasso, ha raggiunto la perfezione.


CAPITOLO V.
BURLE, TRUFFE, SOPRUSI, ANGHERIE E VIOLENZE DEL DIAVOLO.

Ma Satana non si contenta del tentare. Sedurre gli uomini, trascinarli
per mille strade al peccato, e, mercè il peccato, all'inferno, alla
dannazione senza riscatto, non basta all'odio suo, alla sua invidia.
Bisogna ancora che egli, in mille modi, li affligga e li tormenti, ed
amareggi loro la vita con noje infinite, quando, per altri suoi fini,
non gli piaccia di abbellirla loro, allietandola di falsi guadagni e di
gioje bugiarde.
Satana, è, come abbiam veduto, un infaticabile operatore di calamità
e di sciagure: le guerre, i morbi, le carestie, le ruine d'ogni
maniera, le infinite disgrazie grandi e piccole che contrassegnano
ogni istante del tempo che fugge, hanno in lui, il più delle volte,
cagione e principio. Nè questo ancora gli basta. La notte, il dì, senza
intermissione, egli, con l'innumerevole suo popolo, affronta buoni
e perversi, picchia gli uni, strazia ed uccide gli altri, e quanti
più può truffa e defrauda. Egli è, oltrechè un tentatore, anche un
tormentatore di professione, e il suo ufficio di tormentatore esercita
non meno sopra la terra che in inferno. Chi lo chiamò nemico ed
avversario, omicida e ladro, pose mente, senza dubbio, a entrambi gli
offici.
Satana fu chiamato il primo bugiardo, e, sembra, non senza ragione. Gli
esempii delle sue menzogne, e dei danni che mercè loro egli reca a chi
gli crede, sono infiniti. Narra alcun cronista del medio evo che egli
apparve una volta, sotto figura di Mosè, a molti giudei che vivevano
in Creta, e dato loro ad intendere di volerli condurre nella Terra
Promessa, li fece tutti imbarcare, e poi in alto mare li sommerse. Guai
a chi presta fede alle sue promesse ed ai suoi oracoli, o non è più che
guardingo nel giovarsene! E quelle e questi sogliono essere espressi
con parole artifiziose ed equivoche, tali che fanno nascere in chi le
ascolta aspettazione contraria all'evento.
Dice il proverbio che la farina del diavolo va tutta in crusca. Non
sempre, ma molto sovente, le cose ch'egli mostra di fare in servigio
altrui, e quelle che procaccia, riescono ben diverse da ciò che a primo
aspetto sembravano: i denari, di cui suol essere largo donatore, si
convertono in foglie secche, le gemme in carboni spenti, le vivande
in sterco o in sassi. Prudenzio sapeva quel che diceva quando chiamava
Satana un prestigiatore.
Satana si piace di fare alla gente burle e dispetti di molte sorta.
Sono senza numero i pollaj disertati, i granaj votati, le cantine
asciugate da lui. A san Morando monaco strappava la coltre dal letto;
a santa Gudula spegneva il lume mentre era in orazione, e rovesciava
il candelliere a san Teodeberto; a santa Francesca Romana empieva
di mosche l'acqua da bere; ad altri rubava la tonaca, nascondeva
l'uffizio, imbrattava la minestra. Ai monaci di san Dunstano
sparecchiava a dirittura la tavola. I discepoli di san Benedetto
stavano costruendo il cenobio. Bisognava mettere a posto una gran
pietra; ma per quanto ci si affaticassero intorno non c'era verso di
smuoverla: il diavolo ci s'era seduto sopra, e bisognò che venisse il
santo in persona a cacciarlo via. Ma la burla peggiore, la più villana,
a mio avviso, era questa: cogliere uomo e donna in flagrante peccato
carnale e annodarli in indissolubile amplesso, _more canino_.
I santi erano fra tutti i più tormentati, e così doveva essere. Il
diavolo odia i santi, non solo perchè servi di Dio, ma ancora perchè
ogni loro atto, le preghiere, i digiuni, le pie opere, sono a lui
ingiuria e tormento. Inoltre, certe nature d'uomini, inclinate alla
melanconia, e nelle quali la fantasia sormonta, sembrano attirare il
diavolo, e dargli buon giuoco. Dice Amleto che il diavolo ha grande
potestà sopra nature come la sua. Del resto bisogna fare a questo
proposito una distinzione. Il diavolo poteva contentarsi di tormentar
l'uomo esteriormente, moltiplicando le offese e le angherie; poteva
anche tormentarlo interiormente, cacciandosi in lui, invasandolo. Nel
primo caso si aveva la ossessione propriamente detta; nel secondo si
aveva la possessione. Ora, i santi, erano del continuo esposti alla
ossessione, ma dalla possessione andavano, generalmente parlando,
immuni.

La ossessione aveva, come la tentazione, alla quale andava molto spesso
congiunta, forme e gradi infiniti, e a darne un concetto che in qualche
modo si raccosti al vero, bisogna ricorrere senz'altro agli esempii,
i quali, per buona sorte, sono infiniti ancor essi, e ci permettono
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