Il Diavolo - 10

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limite la più piccola parte di sè, e di non concedere a patto alcuno
cosa che il diavolo potesse chiedergli. Ne andava la vita. Il solito
Cesario racconta di un prete, che adescato a uscire del cerchio, fu
tutto fracassato dal demonio, per modo che in capo di tre giorni morì;
e racconta di uno scolare di Toledo, che avendo sporto fuor del cerchio
un dito, verso un demonio che in figura di leggiadra danzatrice gli
offeriva un anello d'oro, fu subito rapito e trascinato in inferno,
d'onde non uscì se non per le insistenti preghiere del negromante che
l'avea menato a quella festa.
Le formole di evocazione erano molte e strane, alcune lunghissime,
quali più, quali meno efficaci, nè tutte si addicevano a tutti i
diavoli. La più piccola omissione poteva bastare a renderle inefficaci
affatto, se il demonio era svogliato o indispettito. Qui cade in
acconcio una osservazione. Abbiam veduto per esempii assai numerosi che
il diavolo si presenta volentieri, senza farsi troppo pregare, anche a
chi lo chiama così alla buona e nel linguaggio consueto, e che spesso
si presenta senza che altri pensi a chiamarlo. Gregorio Magno racconta
il caso di un prete, che avendo detto al proprio servo: “Vieni,
diavolo, e trammi gli stivali,„ si vide comparire innanzi il diavolo
in persona, a cui non pensava in quell'ora. Altre volte il diavolo
si mostra pigro e restio, e allora bisogna rinforzare e replicar gli
scongiuri, ai quali da ultimo è pur necessario ch'ei ceda, sempre che
non vi sia difetto. L'ultimo dei Carraresi lo chiamò invano quando,
nel 1405, essendo Padova afflitta dalla peste, e stretta d'assedio dai
Veneziani, egli non aveva più uomini da far difesa.
Evocato, il diavolo poteva apparire con accompagnamento di varii
prodigi, e sotto varie forme, salvo che il mago gl'imponesse di
prenderne una determinata. Un cavaliere tedesco, di cui racconta la
storia Cesario, stando entro il cerchio insieme con un negromante amico
suo, vide da prima tutto intorno un'acqua fluttuante, poi udì mugghio
di bufera e grugnito di porci, e, dopo altri portenti, vide apparire,
più alta degli alberi della foresta, la figura del demonio, di così
spaventoso aspetto, ch'egli ne rimase smorto tutto il rimanente di sua
vita.
Nelle formole d'evocazione erano molte parole strane di suono ed
inintelligibili, e quanto più erano strane ed inintelligibili, tanto
maggior virtù si attribuiva loro. Nel qual fatto si rivela una tendenza
assai nota della natura umana, e della quale si potrebbe discorrere a
lungo. La parola _Abracadabra_ si scriveva già dai greci sugli amuleti,
e conservò nel medio evo l'antica riputazione. Lo stesso dicasi
della parola _Abraxas_. Per l'uomo incolto la parola è inscindibile
dalla cosa, s'immedesima con la cosa. Nella coscienza, essa suscita
repentinamente l'immagine di questa, onde la credenza di un misterioso
legame fra le due, e di una potenza quasi creativa di quella. Il suono
è Brama, dicesi in un libro sacro dell'India: Dio disse: Sia la luce
e la luce fu; e in principio era il Verbo. Secondo una superstizione
sparsa su tutta la faccia della terra, certe cose non si debbono
nominare, perchè i nomi si traggono dietro le cose. Coloro che si
convertivano al cristianesimo mutavano il nome, per gettar via con esso
tutto il loro passato, e così lo mutava chi, rinunziando al mondo,
entrava in un chiostro. Virtù magica si attribuiva, oltrechè alle
parole, anche ai numeri, ai caratteri, alle figure, e la più parte di
tali credenze ha origine antichissima.
Di parole, di cifre, di figure era composto il libro magico, altrimenti
detto libro del comando, il quale dava a chi n'era possessore facoltà
di scongiurare i diavoli, di comandar loro e di operare per mezzo loro
ogni maniera di meraviglie. Non v'è mago di qualche reputazione che
non abbia avuto il suo. Gerberto rubò, come abbiam veduto, quello del
proprio maestro, e Fausto n'ebbe uno di grandissima virtù. Secondo
una leggenda che ho già ricordata, presso Norcia era l'antro della
Sibilla, e un lago popolato di diavoli, al quale accorrevano a frotte
gl'incantatori per consacrare i lor libri magici. Col suo, Malagigi fa
miracoli per entro ai poemi cavallereschi. Ordinaria compagna del libro
era la famosa bacchetta.
Ma oltre alla bacchetta e al libro c'erano pure altre cose con le quali
si potevano vincolare e signoreggiare i demonii: tali certe gemme
e certe erbe che si trovano descritte nei lapidarli e negli erbarii
del medio evo. Più di un mago riuscì ad avere un demonio chiuso in
un'ampolla, o dentro un anello, in guisa da potergli comandare come
a uno schiavo; e ciò ad imitazione di Salomone, che molti demonii,
secondo si legge in racconti ebraici ed arabici, ridusse in ischiavitù.
Del famoso medico ed astrologo Pietro d'Abano, morto l'anno 1316 nelle
carceri dell'Inquisizione, si dice avesse chiusi in una fiala sette
diavoli, per tacer di una borsa a cui tornavano fedelmente i denari
spesi; e il famosissimo Paracelso (m. 1541) aveva non so se uno o più
diavoli chiusi nel pomo della spada. Con l'ajuto dell'arte magica poi
e dell'astrologia, si potevano costruire ingegni ed ordigni che, in
parte almeno, rendevano superflua la cooperazione dei demonii, come
quelle teste artifiziate che rispondevano alle domande, e di cui una
costrusse, come s'è già veduto, Gerberto, un'altra Alberto Magno, una
terza Ruggero Bacone, altre altri.

I maghi e le streghe non erano tutti di una valentia e d'una forza:
come in ogni altra condizione umana, anche nella loro c'era disparità
di potenza e di grado. Ciò nondimeno non era così misera fattucchiera,
nè così fallito stregone, che non potesse con l'ajuto dell'arte sua
far cose mirabili, e tali da vincere ogni umano potere ed ogni umano
avvedimento. Chi volesse fare un elenco delle svariatissime operazioni
dell'arte magica dovrebbe comporre un volume, e non riuscirebbe a dir
tutto, giacchè per essa si poteva far presso a poco quanto cade nella
fantasia, quanto può essere oggetto di desiderio. Il mago, con acconci
filtri, o giovandosi dell'opera di accorti demonii, poteva forzare
all'amore, poteva mutare l'amore in odio, poteva strappar l'amata
all'amante, o far che quella volasse di notte tempo, per l'aria, fra
le braccia di questo. Egli si vendicava de' suoi nemici, o dei nemici
di chi ricorreva a lui per ajuto, facendo divampare l'incendio nelle
loro case, rovesciando la tempesta sui loro campi, sommergendo in mare
le navi; o pure li faceva morire, infiggendo in una figura di cera,
fatta a loro immagine, un ago, o uno stiletto, o pure, senz'altro
apparecchio, con una semplice imprecazione, con un'occhiata velenosa.
Per lui non erano distanze, non vie malagevoli e perigliose. In groppa
ai demonii egli volava da una ad un'altra estremità della terra,
spendendo poche ore là dove altri consumavano mesi ed anni, e allo
stesso modo faceva viaggiare coloro cui egli favoriva dell'opera sua.
Fabbricava amuleti e talismani acconci ad ogni uso, armi fatate che
sfidavano il ferro ed il fuoco, e, in una notte, palazzi sontuosi,
castelli inespugnabili, intere città murate. Con una parola oscurava
l'aria, faceva imperversare un'orrenda procella, apriva sopra la terra
le cateratte del cielo; con una parola faceva riapparire il sereno, e
risplendere il sole più sfolgorante di prima. Alzando il dito sgominava
un esercito, o ne faceva saltar su un altro, tutto di demonii sbucati
dall'inferno. Ov'egli s'intrometteva la natura perdeva la sua usanza
e il suo essere. Egli trasmutava le cose l'una nell'altra; faceva
oro del fango e fango dell'oro; e similmente trasformava d'una in
un'altra le creature viventi e sensitive, i maschi in femmine, le
femmine in maschi, gli uomini in bruti. Egli aveva cognizione delle
cose più nascoste; vedeva in un bacino d'acqua ciò che gli premeva
vedere, prediceva senza errore il futuro, e, miracolo più di tutti gli
altri gradito, racquistava egli stesso, e faceva racquistare altrui la
giovinezza perduta.

I maghi maggiori molto si compiacevano di fare stupire le più illustri
assemblee con lo spettacolo dei prodigi che sapevano operare. Nel
cuor dell'inverno, Alberto Magno pregò l'imperatore Guglielmo di
volere andare un giorno, con tutta la corte, a desinare in sua casa.
V'andò l'imperatore, e il buon mago lo menò, insieme col seguito, in
un giardino, dove tra gli alberi sfrondati, in mezzo alla neve ed al
ghiaccio che coprivano ogni cosa, si vedeva apparecchiato il convito.
I cortigiani cominciarono a mormorare, parendo loro uno strano scherzo
quello dell'ospite; ma come il re fu seduto a mensa, e gli altri
similmente, ciascuno secondo il suo grado, ecco splendere in cielo
un sole estivo, ecco disfarsi in un baleno la neve ed il ghiaccio, la
terra e gli alberi germinare e coprirsi di verzura e di fiori, brillar
tra le fronde i frutti maturi, e l'aria d'intorno sonare del soavissimo
canto d'infiniti uccelli. In breve la caldura crebbe di sorta, che
i convitati cominciarono a tôrsi le vesti di dosso, e, seminudi,
ripararono all'ombra delle piante. Fornito il mangiare, i numerosi
e leggiadri valletti che avevan servito, sparvero come nebbia, e di
subito il cielo si rabbujò, e le piante si dispogliarono, e un orrido
gelo coperse novamente ogni cosa, con sì acerba freddura, che gli
ospiti tremando corsero in casa, e si accalcarono intorno al fuoco.
Molte altre simili storie si raccontano. Michele Scotto che, a
testimonianza di Dante,
veramente
Delle magiche frode seppe il gioco,
e che perciò fu da lui posto con gli altri incantatori in inferno,
trovandosi un giorno alla corte di Federico II, illuse sì fattamente
con le sue arti un cavaliere per nome Ulfo, che questi credette d'aver
lasciato Palermo e la Sicilia, e, dopo lunga navigazione, passato lo
stretto di Gibilterra, d'esser giunto in istranie e remote contrade,
e quivi aver vinto ripetutamente in battaglia poderosi nemici,
conquistato un vasto s florido reame, condotto moglie, e avutone
più figliuoli, consumando in tali fatti un tempo che parve a lui di
vent'anni e in realtà non fu se non di poche ore.
Verso il 1400 frequentò la corte del re di Boemia e imperatore
Venceslao, soprannominato il Beone e il Fannullone, un mago di
nome Zito, o Zitek, il quale faceva le più strane gherminelle del
mondo: entrava in un guscio di noce e si faceva tirare a carretta
da due scarafaggi addestrati; mostrava un gallo che attaccato a una
pesantissima trave, se la traeva dietro trionfalmente, come fosse
stata un fuscello; mutava in porci i manipoli di fieno e per porci li
vendeva. Alcune di tali gherminelle si raccontarono poi di Fausto.
Nel secolo XVI un rabbino di Praga per nome Löw giunse a tal segno
di potenza che nemmeno la morte poteva nulla contro di lui. Questa da
ultimo si celò in una rosa, e il rabbino morì fiutandola.

La credenza alla magia fu universale nel medio evo, e continuò
ad essere universale dopo, turante il Rinascimento. Le leggi
ecclesiastiche e civili che condannavano e punivano i cultori dell'arte
diabolica, non facevano se non ravvivare e rafforzare quella credenza,
a cui s'accompagnavano naturalmente il sospetto e il terrore. Come si
vedevano diavoli in ogni banda, così vedevansi streghe e stregoni,
e non vi fu uomo insigne su cui non pesasse l'accusa di magia, a
cominciare dai grandi dell'antichità morti da secoli, da Aristotele, da
Ippocrate, da Virgilio, e a venir giù sino ai contemporanei di Leone
X e oltre. Di magia fu sospettato il Petrarca, e in pieno secolo XVII
si fece un processo ad Alessandro Tassoni, per essergli stato trovato
in casa, entro una boccia di vetro, uno di quei diavoli che servono
a trastullare i fanciulli, e che si chiamano diavoli di Cartesio.
Parecchi papi, come Leone III, il già ricordato Gerberto, Benedetto
IX, Gregorio VI, Gregorio VII, Clemente V, Giovanni XX, soggiacquero
alle medesime accuse. Sul finire del secolo XI, il cardinale Benno
pretendeva nella sua Vita d'Ildebrando (Gregorio VII) che c'era in Roma
una scuola di magia da cui quello ed altri papi erano usciti; e del
secolo XII, e del XIV, ci sono lettere autentiche di Satana, scritte
ai principi della Chiesa, amici e cooperatori suoi. Un dotto francese,
Gabriele Naudè, potè stampare nel 1625 un grosso libro in cui si fa
l'apologia dei grandi uomini d'ogni condizione cui toccò la stessa
sorte.
Ma gl'incantatori illustri non eran più che falange a fronte dello
sterminato esercito degli incantatori minuti, degli stregoni e
delle streghe, e di queste in più particolar modo, giacchè tutti gli
scrittori di sì fatte cose s'accordano in dire che per un maschio
dedito all'arti magiche, si avevano a dir poco dieci femmine. Qualcuno
degli illustri riuscì da ultimo a frodar Satana e a sgusciarli di
mano, e seppe anche adoperare a buon fine l'arte malvagia, forzando
Satana a far più bene che non avrebbe voluto. Tale Ruggero Bacone, il
quale liberò un cavaliere che a Satana aveva venduta l'anima, e sulla
fine della sua vita, bruciati tutti i libri di magia, si chiuse in
una cella, d'onde non uscì più, e dove morì santamente dopo due anni
consacrati alla preghiera e alla penitenza. Ma queste erano eccezioni,
e degli stregoni spiccioli, non si salvò forse nessuno, e tutti
meritarono la mala lor fine, la quale assai volte fu di bruciar vivi in
questo mondo prima di andar a bruciar morti eternamente nell'altro.
Costoro erano il gregge e la mandria del diavolo, tanto è vero che
non nell'anima solamente, ma nel corpo ancora recavano, come pecore
e giovenchi bollati, il marchio del padrone, il così detto _stigma_
o _sigillum diaboli_, il quale era un punto fatto privo, per virtù
soprannaturale, di ogni sensitività. Spesso, in un medesimo corpo,
erano parecchi di tai suggelli, e gl'inquisitori figgendovi un ago
facilmente si assicuravano della colpa o dell'innocenza dell'accusato.
Streghe e stregoni si congregavano in certi tempi e luoghi per rendere
omaggio e far festa al loro signore. Eran quelle le corti bandite del
diavolo. Ogni paese aveva suoi luoghi appositi per così fatte riunioni,
le quali contavano a volte, se i racconti non mentono, migliaja e
migliaja di persone. In Francia il principale era il Puy de Dôme; la
Germania aveva il Blocksberg, l'Horselberg, il Bechtelsberg e altri
assai; la Svezia il Blakulla; la Spagna la landa di Baraona, le sabbie
di Siviglia; l'Italia il famosissimo Noce di Benevento, il monte
Paterno presso Bologna, il monte Spinato presso la Mirandola, ecc. ecc.
Assemblee si tenevano ancora sulle rive del Giordano e sul monte Hecla,
nella remota Islanda. Facevansi di solito una volta la settimana, ma in
giorni diversi, secondo i paesi, e c'erano poi, nell'anno, riunioni più
generali e solenni, le quali ponevansi di preferenza in giorni prossimi
alle maggiori feste religiose. In Germania la principale solennità
delle streghe cadeva la notte di Santa Valpurga, come sanno quanti
hanno letto il _Fausto_ del Goethe.
Le streghe (giacchè degli stregoni era, come ho detto, scarsissimo
il numero) si recavano al giuoco dopo essersi unto il corpo di certi
unguenti, a cavalcioni di granate, di forconi, di pale da forno, di
sgabelli, o anche di caproni, di porci e di cani diabolici. Volavan
per l'aria, non molto alto da terra, e dovevano por mente di non
pronunziare, durante il viaggio, il nome di Cristo, e di non lasciarsi
cogliere dal suono mattutino dell'_Ave Maria_, se non volevano
capitombolar giù, con pericolo grande di fiaccarsi il collo.

Le cerimonie, i riti e gli spassi del giuoco variavano secondo i
paesi, mutarono coi tempi; e chi volesse conoscerli tutti dovrebbe
leggere i trattati speciali, i così detti _Martelli_ o _Flagelli delle
streghe_, scritti dai più gran luminari della Santa Inquisizione, e i
constituti delle streghe medesime negli innumerevoli processi. Satana
si lasciava vedere a' suoi devoti sopra un trono, o sopra un altare,
in figura d'uomo, di caprone, di cignale, di scimia, di cane, secondo
i casi. Se in figura d'uomo, talvolta si mostrava arcigno, uggito,
rabbujato, talaltra ilare e ridente, e in tal caso scherzava con le
streghe, sonava, cantava. Queste gli rendevano omaggio, come a loro
signore, s'inginocchiavano davanti o dietro a lui, gli baciavano i
genitali, o le natiche, o altra parte del corpo, gli si confessavano,
raccontandogli tutte le ribalderie che avevano commesse in suo onore
dopo l'ultimo congresso. Egli ascoltava, lodava o biasimava, e puniva
di bastonate, o con una buona multa, quelle che avessero trascurato
di venire alle assemblee, o in qualche altro modo mancato al loro
dovere. Accoglieva le nuove devote, le battezzava in suo nome, le
istruiva e ammoniva. Diavoli minori in gran numero facevano corona
al principe, partecipavano insieme con le streghe alle cerimonie,
tra le quali spiccava una specie di parodia dei riti ecclesiastici,
della messa, dei sacramenti, con profanazione di ostie consacrate e
altri sacrilegi orribili e turpissimi. Non mancava un'acqua benedetta,
o maledetta che si voglia dire, scura e puzzolente, con cui quegli
strani sacerdoti aspergevano gli astanti. Finite le cerimonie si
banchettava allegramente. Il convivio era rischiarato da streghe, che
stavano carponi, con candele accese confitte tra le natiche: i cibi
erano quando delicati e squisiti, quando orribili e stomacosi, degni
in tutto della infernal cucina. Spesso si mangiavano bambini lattanti,
o cadaveri strappati alle sepolture. Da ultimo si ballava, al suono
di diabolici strumenti; poi ciascun demonio ghermiva la sua strega, e
_coram populo_ si sollazzava con lei. Dico che si sollazzava con lei;
ma le streghe affermano che, per esse almeno, quegli abbracciamenti di
solito non erano troppo gradevoli: una di loro poi, introdotta da Pico
della Mirandola in certo suo dialogo intitolato appunto _La strega_,
entra in particolari ch'io passerò volentieri sotto silenzio.
Le streghe, del resto, non vedevano i loro demonii solamente al
giuoco; ma ne ricevevano visite frequenti nelle proprie lor case,
in quelle tetre officine dov'erano insieme accozzati gli ordigni,
le suppellettili e le mille sozzure dell'arte; andavano con esso
loro a diporto, li tenevano in luogo di mariti, e in segno di cara
dimestichezza li chiamavano con nomi, non diabolici, ma umani, e spesso
carezzevoli, oppure con soprannomi curiosi e bizzarri. Quelli erano
con le drude larghi di donativi, i quali, per altro, mostravansi ancor
essi non di rado pieni di diabolica falsità, convertendosi le monete
in foglie secche e in trucioli, le gemme in mota, se non in peggio.
Ingravidate dai diavoli, le streghe spesso partorivano mostri, i quali
avevano, quando figura umana, e quando belluina. I diavoli poi, non
contenti delle infinite streghe ond'era già pieno il mondo, andavano
in giro facendo i bellimbusti, vestiti da cavalieri, e seducevano,
e traevano ai loro servigi donne e ragazze. Per poter attendere più
liberamente ai fatti loro, le streghe usavano di tramutarsi in gatte,
e così tramutate andavano attorno la notte; onde si diè più d'una
volta il caso che taluna ne rimanesse, trovandosi in quello stato,
ferita, o mutilata, e tornando poi donna, e mostrando la piaga aperta,
o la mancanza di un membro, dèsse a conoscere la sua qualità e il suo
delitto.

Il benedettino tedesco Giovanni Trithemio (1462-1516), grandissimo
teologo e grandissimo storico, scrisse appositamente un libro, da lui
intitolato _Antipalus maleficiorum_, col quale insegna a tutti gli
uomini dabbene a guardarsi dalle streghe e dalle scellerate lor arti. I
ripari e i rimedii da lui suggeriti sono senza numero, e passabilmente
ridicoli: il riparo più serio, il rimedio più efficace era, secondo
l'opinione concorde degl'inquisitori, il rogo.
Nulla v'è che della formidabile potenza di Satana dia così adeguato
concetto come la storia delle streghe, e la storia delle persecuzioni
che Santa Madre Chiesa promosse contro di loro. Poco mancò (se gli
storici dicono il vero) che Satana non trascinasse alle maledette
pratiche, al mostruoso peccato di magia l'intero genere umano, e i
zelantissimi e oculatissimi inquisitori avrebbero volentieri abbruciato
l'intero genere umano, pur di vincere l'iniquità e debellare il nemico.
Io non intendo rinarrar qui cose note, e, benchè note, meritevoli
sempre di meditazione e di studio: qualche rapido cenno potrà bastare
al proposito mio.
Le persecuzioni contro le streghe imperversarono più particolarmente
sul finire del secolo XV e nei due secoli che vennero poi. Non già
che non se ne trovino esempii anche prima, e parecchi; ma, strano a
dire, essi diventano più frequenti e più terribili come più i tempi
procedono, scostandosi dalla barbarie medievale e approssimandosi
alla civiltà nuova del Rinascimento. In uno dei capitolari di Carlo
Magno è detto espressamente che coloro i quali attendono alle arti
fallaci della magia debbono, come seguitatori della superstizione
pagana, essere presi e ammoniti; se perseverano nell'errore, debbon
essere tenuti in carcere fino a tanto che non si sieno emendati. In
altro capitolare il glorioso imperatore dice più saviamente ancora:
“Se alcuno sia che, ingannato dal diavolo, creda, secondo l'usanza
dei pagani, esservi stregoni e streghe divoratori di uomini, e, mosso
da tale credenza, quelli abbruci, o ne dia le carni a mangiare, sia
condannato nel capo.„ Intorno all'800 dunque Carlo Magno giudicava
fallaci le arti della magia e puniva di morte gli uccisori dei presunti
maghi: gl'inquisitori sarebbero stati freschi se egli si fosse trovato
ai tempi loro.
Agobardo, vescovo di Lione, morto nell'840, uno degli spiriti più
illuminati e più liberali che abbia avuto la Chiesa, non pure in
quello, ma in tutti i tempi, biasimava come superstizioni assurde le
credenze volgari attinenti a magia, e deplorava i mali trattamenti
usati dal popolo ignorante ai presunti stregoni. La credenza circa
il viaggio aereo delle streghe, quell'orribil viaggio che doveva
porgere agl'inquisitori argomento di accuse capitali, è antichissimo;
ma antichissimo pure è il giudizio che se ne faceva come di cosa in
tutto illusoria e fantastica; e nel XII secolo, dopo altri, Giovanni
Sarisberiense lo diceva un inganno del demonio, e più recisamente,
nel XIII, Stefano di Borbone lo giudicava una fantasia di donne che
sognavano. Per lungo tempo la Chiesa non adoperò contro i rei di
magia altre pene che le spirituali, e più di un pontefice sorse, come
Gregorio VII, a condannare e vietare qualsiasi procedimento criminale
instruito contro chi non era d'altro colpevole che di una vana e
sciocca superstizione. E la Chiesa non era sola allora a dar prova di
così sano giudizio: Coloman, che dal 1095 al 1114 fu re di Ungheria,
di un paese cioè quasi barbaro, diceva chiaro ed esplicito in un suo
decreto: _Non ci sono streghe, e contro quelle che tali si stimano non
deve farsi procedura alcuna_.
Ma tanta saviezza e umanità di giudizii e di consigli non dovevano,
pur troppo, perpetuarsi. Nel secolo XIII, san Tommaso d'Aquino, quel
san Tommaso che doveva diventar poi e rimanere l'oracolo della Chiesa,
quello stesso che si rimette ora innanzi ai popoli civili stupefatti
quale unico lume della filosofia, dichiarava che, secondo la fede
cattolica, la stregoneria è cosa, non già illusoria, ma reale. In quel
medesimo secolo la inquisizione sopra l'eretica pravità è affidata ai
domenicani, i quali ne fanno l'uso che tutti conoscono, e Innocenzo
IV introduce la tortura, contro la quale un altro papa, Nicolò I,
s'era quattro secoli innanzi scagliato con nobilissime e memorabili
parole. Comincia allora uno strano e doloroso spettacolo. La Chiesa
si fa tutrice e banditrice di superstizione, accarezza i più bassi
istinti della plebaglia, li promuove e li attizza. Confonde insieme,
deliberatamente, e conscia di ciò che fa, eresia e stregoneria, e
crea una mostruosa promiscuità d'interessi, dove l'ignoranza, la
paura, la stupidità, la malvagità, si accordano insieme e si porgono
vicendevolmente la mano. Cominciano i processi contro le streghe,
divampano i primi roghi: col volger degli anni il furore, invece
di scemare, cresce. I pontefici gareggiano di zelo e di ferocia in
quest'opera, ch'essi chiamano una battaglia di Dio contro Satana:
Gregorio IX, Giovanni XXII, sono, tra i più antichi, i più ardenti.
Così si giunge all'anno di grazia 1484, nel quale anno, il 5 di
decembre, il glorioso pontefice Innocenzo VIII promulga la sua famosa
bolla _Summis desiderantes affectibus_, con cui dà ordine e norma
alla inquisizione sopra la stregoneria, ferma e regola i diritti e i
doveri degl'inquisitori, e apre tale un'èra di terrore e di lutto che
non ha riscontro nella storia degli uomini. La Chiesa volentieri ne
tace per parlare a suo agio del Terrore onde va tristamente famosa la
Rivoluzione francese, e questo durò appena due anni, quello più di due
secoli.
Il domenicano inquisitore Jacopo Sprenger scrive allora il suo
insensato e terribile _Malleus maleficarum_, o _Martello delle
streghe_, il quale diventa il Vangelo o il codice degl'inquisitori
di tutta Europa, e a cui molti altri libri consimili, terribili ed
insensati, tengono dietro, che tutti insegnano la santissima arte di
scoprire, esaminare, torturare, arrostire la strega, a dispetto di
ogni ciurmeria e impostura del demonio, suo naturale amico e padrone.
Da indi in poi si moltiplicano i roghi e più non si spengono: i papi
vi soffian su terribilmente, Leone X fra gli altri, l'umanissimo e
magnifico Leone, protettore di letterati e di artisti, amico d'ogni
gentilezza. Nella sola Lorena, in ispazio di quindici anni, si bruciano
novecento persone, e novecento, in ispazio di cinque, nella diocesi
di Vürzburg; cento l'anno se ne bruciano nella diocesi di Como; il
Parlamento di Tolosa ne brucia quattrocento in una volta. Non v'è
nessuno che si possa tener sicuro da un'accusa di stregoneria, e
l'accusa si risolve quasi sempre in condanna, e la condanna è quasi
sempre al rogo: il mostrar di non credere alle malíe è già per sè
stesso un indizio grave, se non a dirittura una prova di colpa. La
tortura fa miracoli, strappa ai più protervi e ai più riottosi la
confessione dello scellerato loro commercio con Satana, provoca sequele
interminabili di denunzie le une legate alle altre, le quali, dal
tribunale del giudice, si protendono, come i tentacoli di uno smisurato
polipo, per mezzo i popoli esterrefatti. Più di un inquisitore si
domanda atterrito se l'umanità tutta intera non sia passata al servigio
del diavolo. Per veder di rendere l'opera riparatrice della giustizia
più sollecita che non sia la stessa propagazione del male, si procede
a precipizio, s'interrogano gli accusati secondo certi formularli che
pongono loro in bocca la confession del delitto, s'inaspriscono e si
moltiplicano le torture, si abbrucia quanto è sospetto d'infezione,
uomini, donne, vecchi, bambini: in qualche luogo i carnefici, oppressi
dal soverchio lavoro, stracchi, istupiditi, rifiutano l'opera consueta,
rinunzian l'officio.
Gli effetti di tale giustizia sorpassano l'aspettazione di coloro
stessi che l'amministrano: Niccolò Remy, giudice in Lorena, esclama in
un accesso di legittimo orgoglio: “la mia giustizia è così ben fatta
che in un anno sedici streghe si sono uccise di propria mano per non
capitarle sotto.„ Bisogna pur dire, a onor del vero, che i protestanti
non si mostravano punto da meno dei cattolici in così fatta bisogna.
Lutero, non solo credeva alle streghe, ma esprimeva il desiderio
che fossero tutte bruciate, e fra coloro che più si adoperarono a
tener deste le false credenze, e a rendere più violenta la procedura,
tiene principalissimo luogo Giacomo I d'Inghilterra, il re pedante e
poltrone. Così in tre secoli, mercè il concorde lavoro di cattolici e
di riformati, furono spente, non decine, ma centinaja di migliaja di
vite umane.

Ora è da por mente che il giudice, nei processi, aveva a fronte,
visibile, la strega, invisibile, il diavolo, giacchè, come di giusto,
il diavolo non abbandonava la sua protetta, la sua amica, la sua druda.
Egli (sono gl'inquisitori che lo affermano, e gl'inquisitori lo devono
sapere) le ajutava a mentire, e a sostenere valorosamente la tortura;
egli faceva perdere la memoria ai testimoni, e ingarbugliava le idee ai
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