Il Diavolo - 09

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ve ne tornate al vostro Cristo, il quale, buono e misericordioso com'è,
vi accetta novamente per suoi. Però se tu vuoi il mio patrocinio,
bisogna che per iscritto rinunzii a lui e al battesimo, obbligandoti
d'esser meco il giorno del giudizio, e di soggiacere insieme con me
alle pene eterne dell'inferno.„ Promette il servo, e scrive di proprio
pugno ogni cosa. Allora il principe manda alcuni suoi satelliti, i
quali suscitano nell'animo della giovane un incomposto amore, e le fan
detestare la santa vita cui stava per consacrarsi. Ella si getta ai
piedi del padre, e tanto prega, e tanto piange, che quegli, pien di
cordoglio e di amarezza, concede alfine che le nozze si facciano. E
le nozze si fanno. Passato picciol tempo, certuni notano che lo sposo
non entra mai in chiesa, nè mai s'accosta ai sacramenti, e lo dicono
alla donna. Questa si dispera, interroga il marito, viene a cognizione
dell'orribil secreto, e inorridita corre dall'arcivescovo Basilio
a implorare consiglio ed ajuto. Il sant'uomo non perde tempo, e dà
mano ai ripari. Interroga a sua volta il giovane, gli chiede se sia
pentito, se creda in Dio e nella sua infinita misericordia, e vedutolo
in ottima disposizione, lo chiude in una stanza, dove si custodivano
i sacri indumenti, e passa tre giorni in orazione. Intanto i demonii,
stizziti, assediano il fedifrago, lo vituperano, lo percuotono, gli
sciorinano sotto gli occhi la scrittura da lui vergata, rinfacciandogli
la sua mala fede. Passano alcuni giorni, e la diabolica infestazione
a poco a poco va rimettendo della sua furia: il giovane ode ancora le
grida minacciose, ma più non vede i suoi nemici. Scorso il quarantesimo
giorno, l'uom di Dio trae il peccatore fuor del suo carcere, convoca
il clero ed il popolo, narra il caso, esorta tutti a pregare perchè
il demonio sia vinto. Mentre la chiesa risuona di devote preci, ecco
il diavolo farsi addosso al giovane, forzarsi di trascinarlo con sè,
mostrare in prova del proprio diritto la funesta scrittura. Ma il santo
non si perde d'animo per questo, tien testa coraggiosamente al nemico,
e ordina ai fedeli di gridare senza intermissione _Kyrie eleison_,
tenendo le braccia levate al cielo, sino a tanto che non siasi ottenuta
vittoria. Dopo lung'ora si vede volar per l'aria la scrittura, e
posarsi tra le mani del santo, che si affretta a lacerarla. Il giovane
è salvo, e ottenuta la benedizione, e rifatto partecipe dei sacramenti,
torna a vivere lieto con la sua sposa, frodando il diavolo e fruendo
tranquillamente dei suoi beneficii.
In questa istoria, rinarrata con qualche leggiera diversità da Giacomo
da Voragine e da altri, chi fa la più trista figura non parmi sia il
diavolo, il quale, avendo fedelmente mantenuto le sue promesse, vuole
con ragione che l'altro patteggiatore faccia lo stesso. Il suo diritto
è pieno ed inoppugnabile, e san Basilio non può spogliarnelo, se non
carpendogli la scrittura che lo sancisce.

In altra istoria, che ora riferisco, il peccatore pentito non riesce a
riavere la scrittura, e qualche dubbio rimane della salvazion sua. In
che tempo avvenissero i casi vi si narrano non si sa propriamente; ma
e i casi, e l'anonimo racconto greco che li contiene, sono, senz'alcun
dubbio, antichissimi.
Nella città d'Antiochia viveva una vedova dabbene, con una sua
figliuola per nome Maria. Madre e figlia menavano vita esemplare,
tutta consacrata al servizio di Dio, e la buona fanciulla aveva fatto
proposito di serbare illesa la sua verginità e di darsi tutta allo
sposo celeste. Un Antemio, uomo assai denaroso, e dei principali della
città, s'innamora perdutamente di lei, e comincia a tentarla con doni,
a insidiarla con mezzane, e a profferirsele per isposo, quando vede
di non poterla avere altrimenti. Ma nulla gli giova. Respinto da lei
e dalla madre, e sempre più acceso di mala passione, egli giura di
venire a capo del suo disegno, checchè sia per costargli. Fa conoscenza
con un negromante di grandissimo potere, chiamato Megas, cioè Grande,
e narratogli il caso, ne ha promessa che la fanciulla verrebbe a
trovarlo di notte tempo nella propria sua casa e nel proprio suo letto.
E così segue. La fanciulla è con inganno tratta da un demonio nella
camera di Antemio; ma riesce a fuggirgli di mano con la promessa di
voler quanto prima tornare a lui, consenziente o non consenziente la
madre. Veduti gli effetti dell'arte magica, Antemio vuol esser mago
egli pure, e prega Megas che tale lo faccia. Megas, accertatosi prima
ch'egli è pronto a rinnegare Cristo e il battesimo, gli dà una polizza
e gli dice: “Esci dalla città, senz'aver cenato, e nell'ora che la
notte è più cupa, vientene su questo ponticello, e tieni a braccio
teso in alto cotesto breve; ma per cosa che tu veda, bada bene di
non aver paura e di non fare il segno della croce.„ Antemio fa quanto
gli è detto, e stando a mezzanotte sul ponte, vede giungere una gran
cavalcata e un principe seduto in un carro. Porge la lettera; ma il
principe non accoglie subito fra' suoi colui che la reca: egli vuole
un'abjura scritta. La scena si ripete tre volte, e negli intervalli
Antemio si consiglia col mago. La terza volta il principe, ricevuta la
scrittura, grida, levando al cielo le braccia: “O Gesù Cristo, questi
che già fu tuo ti rinnega per iscritto. Di ciò non io sono autore, ma
egli, che con ripetute istanze ha chiesto di poter essere mio. Però
in avvenire non ti curar più di lui.„ Udite queste parole, che il
principe ripete tre volte, Antemio è preso da subitaneo terrore e da
grande ambascia, e ridomanda la sua scrittura. Ma invano: il principe,
senza più dargli ascolto, passa oltre, lasciandolo prosteso a terra,
immerso in lacrime di dolore e di pentimento. Il dì seguente, Antemio,
tagliatisi i capelli, vestito di sacco, va a trovare il vescovo di una
città vicina, gli si getta ai piedi, gli narra ogni cosa, lo scongiura
di ribattezzarlo e di salvarlo. Il vescovo gli dice di non potergli
dare nuovo battesimo, lo esorta ad avere buona speranza in Dio, prega
e piange con lui. Tornato a casa, Antemio libera tutti i suoi schiavi,
distribuisce alle chiese ed ai poveri le sue ricchezze, dona tre libbre
d'oro alla madre di Maria, e mentre Maria entra in un chiostro, egli si
rende tutto a Dio, alla cui misericordia nessuno ricorre invano. Della
scrittura, che il demonio aveva ricusato di restituire, dicendo che la
produrrebbe dinanzi al giudice eterno nel giorno del supremo giudizio,
non si fa più parola.

In entrambe le leggende che precedono, la causa che spinge gli
sconsigliati a ricercare l'ajuto del demonio, e a stringere un patto
che dovrebbe costar loro la salute dell'anima, è l'amore; in altri è
cupidigia di ricchezze e di onori, o brama di un sapere vietato.
La leggenda di Teofilo, non troppo opportunamente chiamato da taluno
il Fausto del medio evo, risale al sesto secolo, e si trova la prima
volta narrata da un Eutichiano, che si spaccia per discepolo di esso
Teofilo, e afferma d'aver veduto co' propri suoi occhi le cose che
narra. In Adana, città di Cilicia, era un vicedomino, o vogliam dire
economo di quella chiesa, uomo adorno di molte e rare virtù, chiamato
Teofilo. Essendo venuto a morte il vescovo, il clero e il popolo di
comune accordo, designan lui per succedergli, di che il metropolitano
si mostra assai lieto; ma egli, allegando la insufficienza e indegnità
propria, ricusa la nuova dignità, nè per esortazioni o preghiere si
lascia smuovere dal suo proposito. È fatto un altro vescovo, il quale,
contr'ogni giustizia e ragione, toglie l'ufficio dell'economato a
Teofilo. Subito il diavolo comincia a usar le sue arti, e nel mite
animo dell'uomo dabbene versa il fermento delle malvage passioni,
suscita un'acre brama di grandezze e di onori. Teofilo va a trovare
uno scelleratissimo ebreo, famoso stregone, gli narra l'ingiuria
sofferta, gli apre l'animo suo, lo richiede di ajuto. A mezzanotte il
mago lo conduce nel circo ch'era presso alla città, e gli dà il solito
avvertimento: “Checchè tu oda o veda, non temere, e non ti fare a patto
alcuno il segno della croce.„ Ecco una grandissima caterva di demonii,
vestiti di clamidi bianche, con molta luminaria, e in mezzo ad essi
il principe in trono. Teofilo bacia i piedi del principe, e stende un
breve, in cui dichiara di rinnegar Cristo e la madre sua, e al quale
appone il proprio suggello. Tosto se ne vede l'effetto. Il vescovo
revoca il precedente decreto, ripone Teofilo nell'antico suo officio,
e lo colma di onori. Ma non passa gran tempo, e Teofilo, considerando
l'enormità del suo fallo, si sente lacerar dai rimorsi. Disperando di
ogni altro soccorso, egli ricorre all'avvocata dei peccatori, alla
benignissima Vergine, si macera coi digiuni, si strugge in lacrime,
passa in ferventissima preghiera quaranta giorni e quaranta notti,
implorando perdono e misericordia. La quarantesima notte gli appare la
Vergine corucciata, e gli rimprovera aspramente il commesso peccato,
non senza versargli tuttavia sul cuore esulcerato il balsamo della
speranza. Teofilo passa altri tre giorni in chiesa a pregare, senza
prender cibo, e la Vergine gli appare una seconda volta, e gli porge
il lieto annunzio dell'ottenuto perdono. Trascorsi ancora tre giorni,
la Vergine, in una terza apparizione, gli restituisce il chirografo
maledetto. Il dì seguente, giorno di domenica, Teofilo fa manifesto
al vescovo e a tutti i fedeli congregati in chiesa il memorabile
avvenimento; poi inferma, e indi a poco, distribuito ai poveri ogni suo
avere, devotissimamente si muore e va a fruire della gloria eterna del
paradiso. A sant'Egidio la cosa non riuscì così agevolmente. Lasciata
la magia, e fattosi domenicano, egli stentò sett'anni prima di poter
riavere, con l'ajuto della Vergine, la sua scrittura.
La storia di Teofilo, tradotta di greco in latino, nel settimo secolo,
da Paolo, diacono di Napoli, messa nell'undecimo, se non nel seguente,
in versi leonini da Marbodo, vescovo di Rennes, godette, durante tutto
il medio evo, di un favore grandissimo, e porse in molte province
d'Europa argomento a drammi devoti. In uno di tali drammi, composto
dal trovero francese Rutebuef, che morì verso la fine del secolo XIII,
Teofilo, perduto l'officio, e venuto in povertà, si scaglia contro Dio,
e si duole di non poterlo giungere e conciare a suo talento.
Ha! qui or le porroit tenir
Et bien batre à la retornée,
Mult auroit fait bone jornée;
Mès il s'est en si haut leu mis
Por eschiver ses anemis
C'on n'i puet trère ne lancier.
Se or pooie à lui tancier,
Et combatre, et escremir,
La char li feroie frémir!
E infine la Vergine minaccia il diavolo, che non vuol restituire la
scrittura, di pestargli la pancia coi piedi.

Non meno famosa, anzi più, è la storia di quel Gerberto che fece
stupire con la sua dottrina il secolo X e fu papa sotto il nome di
Silvestro II. La credenza ch'egli dovesse al diavolo, non solo la
scienza miracolosa di cui diede molteplici prove, ma ancora la suprema
dignità ecclesiastica, e che avesse col diavolo stretto un patto in
regola, s'andò formando a poco a poco, s'andò allargando, e nel XII
secolo fiorì in una meravigliosa leggenda che numerosi storici ripetono
a gara. Il benedettino inglese Guglielmo di Malmesbury dice nel libro
II delle sue Storie dei re d'Inghilterra, che le cose ch'ei narra di
Gerberto volavano allora di bocca in bocca. Gerberto nacque in Gallia,
e fanciullo ancora si consacrò al monacato; ma presto fastidito del
chiostro, oppure invaso da riprovevole cupidigia di gloria, fuggì
di notte tempo in Ispagna, e stando coi saraceni attese a studiare
astrologia e magia. In poco tempo diventa dottissimo in ogni maniera
di scienza, così lecita come illecita. Ruba ad un filosofo saraceno,
che l'ospitava in sua casa, un libro magico e fugge. Evoca il demonio,
stringe con lui un patto, e si fa portare oltre il mare. Di ritorno
in Francia, apre scuola, acquista gran nome, e ha molti discepoli, fra
cui Roberto, che divenuto re di Francia lo fa vescovo di Reims. Quivi
costruisce, con mirabile artificio, un orologio e un organo. Essendo
in Roma penetra in un sotterraneo incantato, dove sono accumulati e
gelosamente custoditi i tesori di Ottaviano imperatore, poi divien
papa. Fabbrica una testa magica, la quale ad ogni sua domanda risponde,
e lo assicura ch'ei non morrà insino a tanto che non celebri messa in
Gerusalemme. Esulta il pontefice, e fa proponimento di non veder mai
la terra bagnata del sangue di Cristo; ma in capo di certo tempo va
a celebrare, senza sospetto alcuno, in quella delle basiliche di Roma
che appunto è detta di Santa Croce in Gerusalemme. Ammala di subito,
e consultata la testa loquace, scopre l'inganno, e conosce imminente
la propria fine. Allora, convocati innanzi a sè i cardinali, confessa
pubblicamente i gravissimi suoi peccati, in espiazion dei quali, vivo
ancora, si fa tagliare a pezzi, e gettare, come immondizia, fuori della
casa di Dio.
Altri narrano alquanto diversamente, o aggiungono a tale racconto
qualcosa. Il diavolo, sotto forma di un cane nero, accompagnava
sempre Gerberto, e da lui direttamente, non da una testa artefatta,
ebbe questi l'insidioso responso. La morte imminente è annunziata al
pontefice da un gran tumulto di diavoli, che vengono per torne l'anima.
Egli ordina che i brani dello scellerato suo corpo sieno posti sopra
un carro tirato da buoi, e seppellito nel luogo dove gli animali
spontaneamente si fermeranno. Le ossa di lui si squassano nell'arca
marmorea, e questa suda acqua in copia, quando sta per morire alcun
pontefice. Taluno, come il cronografo Sigeberto, morto nel 1113, non
sa nulla di penitenza, e riferisce una voce secondo la quale il pessimo
vicario sarebbe stato accoppato dal diavolo.
Non fu, del resto, Silvestro II il solo pontefice di cui la leggenda
abbia narrato la colpevole pratica col demonio; Giovanni XII, Benedetto
IX, Gregorio VII, Alessandro VI, furono essi pure accusati d'essersi
venduti a colui, dal cui malvolere e dalle cui insidie appunto
avrebbero dovuto difendere il gregge alle loro cure affidato.
La leggenda di Gerberto ci porge esempio di una di quelle frodi onde il
diavolo si serve per trarre in inganno chi a lui si affida, senza però
mancare formalmente alle promesse, anzi serbandosi fedele alla lettera
di quelle: un altro esempio, degno d'esser ricordato, ce ne offre una
leggenda cresciuta addosso ad una delle vittime illustri della Santa
Inquisizione, Cecco d'Ascoli, l'autor dell'_Acerba_, l'emulo di Dante.
Non è questo il luogo per rinarrar la sua triste istoria: e come egli
fu condannato una prima volta in Bologna dall'inquisitore fra Lamberto
del Cingolo, che gl'ingiunse di non più leggere astrologia, nè quivi,
nè altrove; e come venutosene egli in Firenze, fu da frate Accursio
novamente citato, sotto l'accusa d'insegnare astrologia giudiziaria,
di aver dato, per astrologia, ragione di tutta la vita di Cristo,
di avere asserito che con l'ajuto dell'astrologia può l'uomo venire
in cognizione di tutte le cose, e negato il libero arbitrio; e come
finalmente, avendo sempre risposto alle accuse: _Così dissi, così
insegnai e così credo_, fu dato in potestà del braccio secolare, e arso
pubblicamente l'anno della salute 1327. La leggenda cui accennavo,
formatasi alquanto più tardi, afferma che Cecco s'era accordato col
diavolo, il quale gli aveva esplicitamente promesso ch'ei non morrebbe
se non tra Africa e Campo di Fiori. Condotto al supplizio, Cecco
mostrava animo intrepido, e di non curar punto la morte, tenendo per
fermo che all'ultimo momento l'amico suo sarebbe venuto a liberarlo;
ma saputo, quand'era già sul rogo, ch'ivi presso era un fiumicello
chiamato Africo, e pensato che Campo di Fiori dovesse essere la città
che dai Fiori appunto deriva il suo nome, cioè Fiorenza, intese il
diabolico inganno e morì disperato.
Il diavolo, come gli oracoli dell'antichità, volentieri si serviva di
parole equivoche per meglio assicurar gl'interessi suoi; ma quando,
stringendo il patto, aveva promesso di lasciar passare tale o tal
numero di anni prima di valersi del suo diritto, osservava la promessa
fedelmente, e non anticipava di un'ora il termine pattuito. Non così
scrupolosi si mostravano, come abbiam potuto vedere per parecchi
esempii, coloro che ricorrevano al suo ajuto; e però bisogna dire che
egli non avesse tutto il torto se contro i mancatori usava di qualche
avvedimento e di qualche trappola. Comunque sia, i più gli sfuggivano
di mano con opportuno ravvedimento; ma qualcuno anche ci rimaneva, e
questi pagava per sè e per gli altri. Un monaco, di cui narra la storia
san Pier Damiano, aveva pattuito che il diavolo dovesse annunziargli
la morte tre giorni prima, pensando di potere così provvedere in tempo
alla salute dell'anima. Il diavolo osserva il patto; ma il monaco,
appena tenta di confessarsi, cade in letargo, e ripetendosi il fatto
più volte, muore senza confessione. Per più notti la tomba di lui è
custodita da negri cani.

Nell'immortale dramma del Goethe Fausto si salva; non si salva invece
nella storia popolare, divulgatasi la prima volta per le stampe l'anno
1587; e al nostro bisogno ora fa più questa che quello. Fausto è mosso
al patto da sete di scienza e da bramosia di piacere. Egli verga col
proprio sangue la scrittura in cui sono espressi i reciproci impegni
e le condizioni della loro osservanza: _Io, Giovanni Fausto, Dottore,
dichiaro quanto segue, in questa lettera scritta di mio proprio pugno.
Messomi a scrutar gli elementi, vedendo che le facoltà graziosamente
largitemi dal cielo non son sufficienti a penetrar la natura delle
cose, e che dagli altri uomini non può essere appagato il mio
desiderio, io mi sono dato a questo spirito ch'è qui presente, il quale
si chiama Mefostofile, ed è un servitore del principe dell'inferno,
perchè m'insegni ciò ch'io desidero di sapere, e mi sia, come
promette, sottomesso e obbediente. Da canto mio prometto, che passati
ventiquattro anni dal giorno della presente scrittura, io lascerò
ch'egli faccia di me, dell'anima mia e della mia carne, del mio sangue
e de' miei averi, ciò che gli sarà in piacere, e questo per l'eternità.
A tal fine io rinnego gli esseri tutti che vivono, sia nel cielo, sia
sulla terra. In fede di che scrivo e sottoscrivo di mia propria mano e
col proprio mio sangue._
Fausto fruisce largamente dei beneficii che gli assicura il contratto.
In compagnia di quel suo Mefostofile (che sarà poi ribattezzato
in Mefistofele), o ajutato da lui, egli viaggia tutta la terra,
percorre i cieli, ha al piacer suo le più belle donne che si trovino,
sguazza nelle ricchezze, opera ogni sorta di meraviglie. In Erfurt
legge pubblicamente l'Iliade di Omero, e fa comparire dinanzi agli
uditori stupefatti gli antichi eroi, vestiti di loro armi, e negli
atteggiamenti che lor si convengono; e ai dottori di quell'Università
offre di metter loro tra mani tutte le commedie perdute di Plauto e di
Terenzio, beneficio che essi, per timore di qualche diabolico inganno,
rifiutano. Scorso il diciassettesimo anno, Fausto, che aveva lasciato
scorgere qualche intenzione di ravvedimento e di penitenza, verga col
proprio sangue, e forzato dal demonio che minaccia di farlo a pezzi se
non obbedisce, una seconda scrittura che conferma la prima. Il tempo
vola e il termine della terribile scadenza si approssima. Durante
l'ultimo anno, il demonio, per istordirlo e consolarlo, gli dà per
concubina Elena greca. Giunge finalmente il dì fatale. Fausto invita
tutti gli amici suoi ad un banchetto, narra loro la sua storia, e li
prega di non partirsi, ma di andare a dormire intanto ch'egli aspetta
la fine sua inevitabile. Poco oltre la mezzanotte, gli amici sentono
una folata di vento impetuoso investir la casa e scuoterla come se
dovesse spiantarla dalle fondamenta, odono sibili orrendi e le grida
disperate di Fausto che chiama soccorso. Inorriditi, esterrefatti, non
ardiscon di muoversi. Venuta la mattina, entrano nella camera di lui,
e la trovano tutta imbrattata di sangue: le cervella dello sciagurato
vedevansi sprazzate sulle pareti; gli occhi, strappati dall'orbite, e
alcuni denti giacevano in terra. Il corpo, tutto pesto e stracciato, fu
poi rinvenuto fuori della casa, sopra un letamajo. Cristoforo Marlowe,
il precursore dello Shakespeare, recò sulla scena le spaventose angosce
di Fausto aspettante la morte e la dannazione.
Di poco posteriore a Fausto è il polacco Twardowsky, autore anch'egli
di molte meraviglie, e finito malamente al par di lui. Egli aveva
scritto il patto funesto col proprio sangue, sopra una pelle di bue.
Un giorno, mentre in un'osteria faceva stupire gli astanti co' suoi
prodigi, ecco il demonio, che gli ricorda esser giunto il termine
pattuito. Lì per lì lo sventurato si salva avvicinandosi ad un bambino
che dorme in una culla; ma avendogli il demonio rimproverata la sua
malafede, e dettogli che parola d'uomo nobile non dee mutarsi, egli fa
animo risoluto e indi a poco gli si dà nelle mani. Bisogna riconoscere
che un tale sentimento dell'onore fu assai raro tra coloro che si
obbligarono al diavolo e largamente si valsero dell'opera sua.


CAPITOLO IX.
LA MAGIA.

Coloro che facevano patti col diavolo molto spesso li facevano per
potere esercitare le arti illecite della magia; ma il patto non sempre
importava quell'esercizio, e quell'esercizio poteva andar senza il
patto. Mi spiego. C'erano casi in cui il demonio volenterosamente si
obbligava di fare quanto dal mago gli fosse richiesto, a patto che
questi gli desse l'anima in premio; e c'erano casi in cui il mago,
in virtù dell'arte propria, forzava il demonio a fare ciò che per sè
stesso il demonio non avrebbe nè dovuto, nè voluto. C'erano, come si
vede, due magie, che gli scrittori non distinguono abbastanza, ma che
quanto alle origini, se non quanto agli effetti, erano profondamente
diverse; l'una prodotta da un volontario assoggettamento della potenza
diabolica all'arbitrio dell'uomo, l'altra nascente da un vero e proprio
dominio acquistato dall'uomo su quella potenza, e acquistato (si ponga
mente) non in grazia di un consentimento divino, ma in grazia di una
scienza e di un'arte, che avevano i loro canoni, che si studiavano
con certo tirocinio, che si potevano possedere più o meno; la scienza
e l'arte di magia. I teologi e i dottori affermano, gli è vero, che
di questa scienza malvagia e fallace, di quest'arte perniciosa, era
inventore lo stesso Satanasso, uso a giovarsene pel conseguimento dei
fini suoi; ma nasce dubbio che nella opinione loro vi possa essere
qualche errore, quando si vede quella scienza e quell'arte imporsi
al presunto inventore per modo che questi non può non obbedire a chi
per esse gli comanda. Molta parte della magia presuppone l'esistenza
in natura, e la cognizione per parte dell'uomo, di virtù arcane che
hanno forza di muovere e di legare i demonii. Ma comunque il mago
avesse acquistato la sua formidabile potestà, l'esercizio di essa era
colpevole e vietato, e conduceva da ultimo i trasgressori in inferno.
Generalmente parlando, e guardando agli effetti, maghi e streghe
possono considerarsi come alleati e coadiutori di Satana.
Le sorgenti della magia sono nella passione e nella ignoranza, che
fanno quasi tutto l'uomo. Il desiderio sempre rinascente, e che non
riesce a saziarsi nelle ordinarie condizioni della vita, suscita
nella mente il sogno di una potenza incontrastabile per la quale
ogni appetito si appaghi; e l'ignoranza delle leggi inflessibili che
governano la natura lascia credere che il corso di questa possa essere
signoreggiato e mutato in conformità di quel sogno; il quale, quando
abbia raggiunto un certo grado d'intensità, spontaneamente tende a
trasformarsi in azione. L'amore, l'odio, il desiderio della sanità,
delle ricchezze, del potere, della scienza medesima, sono cause
produttrici della magia, e suoi perpetui stimoli, ond'è che noi vediamo
questa praticata dovunque son uomini, nell'antichità più remota,
nel medio evo, e presentemente ancora, non solo fra le popolazioni
barbariche o selvagge, ma fra le stesse genti che si dicono civili.
Cesario racconta di uno scolare, il quale non imparando nulla con lo
studio, si procacciò una pietra che dava a chi la teneva in mano ogni
sapere: è questa in iscorcio tutta la storia della magia.
Col crescere e con l'afforzarsi della credenza in Satana la magia
doveva acquistare nuovo credito e nuovo vigore. Tutto quanto si sapeva
o si credeva sapere di lui, della sua natura, de' suoi costumi, de'
suoi propositi, doveva tendere a produr questo effetto. Egli era la
potenza sempre viva ed inquieta che circuiva e penetrava tutte le cose,
il principe di questo mondo, il dominatore della natura pervertita;
egli era in ogni luogo, e aveva sotto ai suoi ordini una milizia
innumerevole, sempre parata ad ogni cimento. Con l'ajuto dell'opera
sua non era così difficile impresa, non era miracolo che non si
potesse compiere, e l'ajuto di quell'opera egli porgeva senza troppo
farsi pregare. Si sapeva che di buon grado egli s'associava all'uomo
per venire più facilmente a capo de' suoi disegni. La Chiesa stessa,
a furia di predicare la potenza e l'astuzia di Satana, a furia di
mostrare, con infiniti esempii, gli effetti della sua dominazione sul
mondo, e più popolato assai l'inferno che il paradiso, era riuscita
dove non credeva nè voleva riuscire, aveva lasciato germogliare negli
animi come una vaga credenza che il padrone foss'egli e non Dio,
aveva, qua e là, alla paura e all'orrore, sostituita l'adorazione.
Nel XIII secolo i Luciferiani furono accusati di adorare il diavolo, e
la stessa accusa fu lanciata contro i Templari, contro gli Albigesi,
contro i Catari, contro parecchie altre sètte. Molte volte, senza
dubbio, l'accusa fu calunniosa, dettata da astio religioso e da
perfidia ecclesiastica; ma alcuna volta dovette pur cogliere nel segno.
La spaventosa istoria dei processi contro le streghe ne porge prova
incontestabile, e la diabolica assemblea ch'ebbe in Francia il nome
di _sabbat_, e in Italia quello di giuoco della signora, suppone un
vero e proprio culto satanico, del quale dovrò dire qualche cosa più
oltre. Finalmente non si dimentichi che le condizioni della vita furono
sovente nel medio evo così dure ed insopportabili, sotto la duplice
oppressione ecclesiastica e baronale, da spingere intere classi di
uomini derubati, affamati, disperati, a cercare nella magia, o alcun
sollievo agl'infiniti lor mali, o alcun'arme di vendetta. Per costoro
darsi al diavolo era la suprema via di salvezza, era trovare un amico
e un ajutatore, qual ch'ei si fosse. Satana era men tristo del barone e
del prete.
La più parte diventavano stregoni e streghe con solo mettersi nel
gregge di lui, e con fruire dì quei beneficii e di quel tanto potere di
cui egli voleva farli partecipi; ma, come ho detto, oltre a questa più
bassa magia, prodotta da una specie di delegazione di potestà, c'era
una magia più alta, frutto dello studio e del volere, una magia fondata
sulla cognizione di forze a cui gli stessi demonii obbedivano, ma che
nulla avevano di divino.
Di questa erano tenuti gran maestri i saraceni e gli ebrei, e v'erano
scuole famose, in cui dicono s'insegnasse, come Salamanca e Toledo in
Ispagna, Cracovia in Polonia. La più celebre nel medio evo fu quella
di Toledo, dove la leggenda fece studiare Virgilio, trasformato di
poeta in mago, Gerberto, il beato Egidio di Valladares prima della sua
conversione (m. 1265) ed altri assai.
La prima delle magiche operazioni, quella che avviava a tutte l'altre,
era l'evocazione, con cui si forzava Satana, o alcuno de' diavoli
suoi, a comparire; operazione non difficile quando se ne conosceva
il modo, ma pericolosa a chi vi procedesse sbadatamente, senza le
opportune cautele. Si faceva più comunemente di notte, anzi nel punto
di mezzanotte; ma poteva farsi anche di pien mezzogiorno, essendo
quella l'ora in cui ha più vigore il diavolo meridiano. Facevasi nei
bivii, nei trivii, nei quadrivii, nel fondo di selve cupe, sopra lande
deserte, tra rovine antiche. L'evocatore si chiudeva in un cerchio, o,
per più sicurezza, in tre cerchi, tracciati in terra con la punta di
una spada, e doveva badar bene di non lasciar cogliere fuor di quel
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