Il Diavolo - 14

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gl'infermi, salva i pericolanti, conforta i moribondi, affronta il
demonio ogni qual volta è bisogno. Qui viene opportuno un esempio che
Giacomo da Voragine narra presso a poco nel seguente modo.
Un cavaliere di nobile lignaggio e ricchissimo aveva, con indiscreta
liberalità, dilapidato ogni suo avere, ed era venuto in tanta povertà,
che dove prima soleva largheggiare nelle cose massime, ora persin le
minime gli facevan difetto. Avvicinandosi una solennità, nella quale
era uso di fare doni e largizioni grandissime, egli, non avendo più
che dare, si recò, pieno di confusione e di tristezza, in un luogo
deserto, col proposito di starci finchè la festa fosse passata. Ei
v'era giunto appena, quando gli si fece incontro, seduto sopra un
terribil cavallo, un più terribile cavaliere, che gli chiese la ragione
della sua tristezza. Uditala, disse: “Quando tu voglia concedermi
cosa di picciol momento, avrai da me più ricchezze e più gloria che
mai non avesti in passato.„ Promette il cavaliere, e tosto a lui
il principe delle tenebre: “Torna a casa, e nel tale luogo troverai
tanta quantità d'oro e d'argento, e tanta di pietre preziose: tu in
compenso, nel tale giorno, mi condurrai qui tua moglie.„ È da sapere
che costei era donna pudicissima e in sommo grado devota della Vergine
Maria. Tornato a casa, il cavaliere trova ogni cosa come gli era stato
detto, e subito compra palazzi, riscatta fondi, procaccia servi, e dona
altrui largamente, com'era suo costume. Giunto il dì fissato, dice alla
moglie: “Sali a cavallo, perchè bisogna che tu venga con me alquanto
lontano.„ La donna tremando obbedisce, e raccomandatasi devotamente
alla Vergine, cavalca dietro al marito. Cammin facendo passano davanti
a una chiesa. La donna scende da cavallo, entra in chiesa, e mentre il
marito aspetta di fuori, si raccomanda di nuovo alla sua protettrice
e si addormenta. La Vergine allora prende l'aspetto di lei, in modo da
sembrar lei medesima, esce di chiesa, monta a cavallo, e col cavaliere
prosegue il viaggio. Giunti al luogo stabilito, ecco venir oltre, con
grande impeto, il principe dell'abisso, poi fermarsi a un tratto, e
fremendo e tremando esclamare: “O il più infedele degli uomini, perchè
mi hai tu ingannato a questo modo, e perchè tal premio mi rendi de'
miei beneficii? io ti dissi di condurmi tua moglie e tu mi conduci
la madre del Signore; io voleva tua moglie e tu mi conduci Maria.„
Allora la Vergine: “O spirito maledetto, quale temerità fu la tua, che
presumesti di poter nuocere a una mia devota? Torna in inferno, e non
sia mai più in te tanta tracotanza.„ Il demonio fugge ululando, e il
cavaliere si getta pentito ai piedi della donna del paradiso, che gli
ordina di ritorsi la sua fedele compagna, e di sperdere le ricchezze
avute dal maledetto. Così egli fece, e non perciò fu povero, perchè
nuove e maggiori ricchezze ebbe poi dalla Vergine misericordiosa.
Come la Vergine togliesse al demonio le scritture dei malconsigliati
che stringevano patti con lui, abbiam già veduto; ma ella aveva
anche altri modi di riscattar le anime cadute, per una o per un'altra
ragione, in balía del nemico. In più racconti popolari, di origine
certo assai antica, si dice come il diavolo e la Vergine si facessero,
l'uno compare, l'altra comare di un fanciullo, quello per condurlo in
perdizione, questa per salvarlo. Di solito c'è di mezzo una promessa
che il padre fece al demonio, e che favorisce molto la causa di questo;
ma da ultimo, superato ogni ostacolo, trionfa la Vergine.

Molte volte le potenze celesti vincono Satana con solo mostrarsi, o
con ordinargli imperiosamente di cedere il campo e lasciar la preda;
molte altre volte non lo vincono se non dopo un contrasto più o meno
lungo, il quale varia di qualità e di procedimento, e va dalla semplice
discussione, o dal diverbio un po' vivo, sino all'accapigliatura e al
pugilato, o anche alla battaglia ordinata, quando sieno molte le forze
impegnate dall'una parte e dall'altra. Non di rado pure il contrasto
prende le forme e l'andamento di un vero e proprio piato giudiziale. La
vittoria non sempre rimane ai celesti.
Le cause di tali contrasti erano parecchie; ma i più si facevano
per decidere della sorte delle anime novellamente sciolte dai corpi:
gl'infernali avrebbero voluto trascinarle tutte in inferno, i celesti
condurle tutte in paradiso. Cominciava il contrasto intorno al letto
dei moribondi. Venivano i diavoli, recando il libro in cui erano
scritti tutti i peccati commessi da chi stava per uscir di vita;
venivano gli angeli, recando il libro in cui erano scritte tutte le sue
buone opere. Quello era, di solito, un libraccione ponderoso e negro,
tutto vergato di spaventosi caratteri; questo un libriccino nitido e
minuto, scritto di lettere d'oro. Cotai libri, insieme con la giusta
bilancia in cui angeli e diavoli pesavano azioni buone e cattive,
compajono assai spesso nei giudizii ove si decide la sorte delle anime.
È abbastanza conosciuta (ed io l'ho già ricordata) una terribile
istoria narrata dal venerabile Beda, e ripetuta con qualche leggiera
diversità da Jacopo Passavanti nel suo _Specchio della vera penitenza_.
Un cavaliere del re Coenredo, uomo prode e di grande animo, ma vissuto
assai malamente, infermò, ed esortato a confessarsi, non volle farlo,
tanto che giunse presso a morte. Allora, aspettando la fine sua, egli
vide comparire al suo letto due angeli, i quali si posero a leggere
un libriccino in cui erano segnate alcune buone opere fatte da lui
grandissimo tempo innanzi, mentre era giovine ancora. Di ciò egli
si rallegrava e prendeva speranza, quando vide entrare due orribili
demonii, che squadernatogli sul viso il volume de' suoi peccati,
dissero agli angeli: “Che fate voi qui? voi non avete nessuna ragione
in costui, che è nostro.„ E gli angeli, guardatisi l'un l'altro, senza
poter nulla rispondere se ne andarono, e i demonii, presi due coltelli
affilati, cominciarono a tagliare il reo cavaliere da capo e da piede,
tanto che in brev'ora morì e fu dannato.
Ma non sempre il grosso libro dei diavoli la vinceva sul libro piccino
degli angeli; e si diè caso che quello non servì a nulla, sebbene gli
angeli non avessero da opporgli nemmeno una pagina. Nella Visione di
Frate Alberico si narra di un potente malvagio, che prima di morire si
pentì, e chiese perdono a Dio. Al suo letto di morte si presentano un
angelo e un demonio, questi con un gran volume di peccati, quegli con
le mani vuote. Il demonio si crede sicuro del fatto suo; ma l'angelo
sparge sul libro lo lacrime versate dal pentito e tutto il cancella. Il
peccatore ravveduto è salvo.

Spesso i santi vennero in soccorso di anime che i diavoli si forzavano
di trarre in inferno; e bisogna dire che, così facendo, obbedivano
molto più a un sentimento di speciale benevolenza pei loro devoti,
che non ai dettami della stretta giustizia. Gli esempii abbondano.
I diavoli se ne portavano entro una barca l'anima del re Dagoberto,
quando scesero improvvisamente di cielo, fra tuoni e fulmini, san
Dionigi, san Maurizio e san Martino, che senza stare a disputare della
ragione e del torto, la tolsero loro di mano e la menarono in paradiso.
Morto Carlo Magno, l'anima sua fu condotta al giudizio. Viene un
nugolo di demonii che caricano de' suoi peccati l'un dei piatti della
bilancia. Questa trabocca; ma san Giacomo di Compostella e san Dionigi
mettono nell'altro piatto tutte le chiese e tutti i monasteri fondati
da lui, e subito la bilancia trabocca dall'altra parte, in suo favore.
Un monaco, stando in orazione la notte (così racconta Leone Marsicano,
morto nel 1115) vede passare con grande rombo e ruina una turba di
diavoli. Chiamatone uno, gli chiede ove vadano con tanta furia, e
avutone in risposta che vanno a torsi l'anima dell'imperatore Enrico
III, protesta di non credere che Dio possa darla loro nelle mani, e
gl'impone di venirne al ritorno e narrargli tutto l'evento. Passati
due giorni, ecco riapparire il malvagio spirito, con volto dimesso,
con portamento lugubre, e narrare al monaco la disfatta propria e de'
suoi. Già era durata un pezzo la contesa fra gli angeli ed essi, quando
di comune accordo fu deliberato di pesare con una bilancia le buone
e le cattive azioni del morto, e decidere così chi dovesse prenderne
l'anima. Dato mano all'esperimento, già traboccava la bilancia in favor
dei demonii, quand'ecco accorrere tutto anelante quell'abbrustolito di
san Lorenzo, e gettar con grand'impeto nel piatto contrario un calice
d'oro, che tempo innanzi l'imperatore aveva donato a una basilica di
lui. Incontanente la bilancia trabocca da quella parte, e i diavoli
debbono, confusi e scornati, rinunziare alla preda e prendere il volo.
Ma non sempre i santi potevano ricorrere a così ponderosi argomenti,
e allora, qualche volta, finiva che dovevano cedere a chi aveva più
ragione di loro. Quando morì Guido da Montefeltro, resosi frate dopo
aver menato una vita scelleratissima, venne san Francesco in persona
per raccorne l'anima e recarla in cielo; ma uno _de' neri cherubini_
(così dice Dante) gli si levò a fronte garrendo:
Nol portar; non mi far torto:
Venir se ne dee giù tra' miei meschini,
Perchè diede il consiglio frodolente,
Dal quale in qua stato gli sono a' crini;
Ch'assolver non si può chi non si pente,
Ne péntere e volere insieme puossi
Per la contradizion che nol consente.
Il consiglio frodolente cui qui si accenna fu d'aver suggerito al
_principe de' nuovi Farisei_, cioè a papa Bonifacio VIII, il modo di
prendere con inganno la rocca di Palestrina, ch'era dei Colonnesi. San
Francesco non seppe che obbiettare alle ragioni del demonio, il quale,
acciuffando l'anima trista, le disse sbeffandola:
Forse
Tu non pensavi ch'io loico fossi.
Vedremo qualche altro caso in cui il demonio si addimostra _loico_, e
de' buoni.
Bastava invece una lacrima di pentimento sincero per far perdere al
demonio ogni sua ragione, o almeno per indurre i celesti a non tenere
le sue ragioni in conto alcuno. Dice lo stesso Dante che quando il
figliuolo di Guido da Montefeltro, testè ricordato, Buonconte, ferito
alla battaglia di Campaldino, rese l'anima col nome di Maria sulle
labbra, tosto venne l'angelo dì Dio, e prese l'anima del pentito; ma il
demonio, accorso ancor egli, gridò:
O tu dal ciel, perchè mi privi?
Tu te ne porti di costui l'eterno
Per una lagrimetta che il mi toglie;
Ma io farò dell'altro altro governo.
L'angelo non gli bada e non gli risponde nemmeno. Allora il demonio
chiama in suo ajuto i venti, congrega le nubi, suscita una furiosa
procella, e fa che le acque dilagate travolgano l'_altro_, cioè il
corpo di Buonconte, per modo che più non se n'ebbe novella.

Noi abbiamo qui, e nell'esempio precedente, il contrasto nella forma
sua più semplice e temperata, perchè non si può dire che vi sia
propriamente neanche diverbio. In fatti, san Francesco nulla risponde
alle buone ragioni del diavolo _loico_, e nulla risponde l'angelo ai
rimproveri del vinto avversario. Ma una tale forma, appunto perchè
troppo semplice e temperata, difficilmente avrebbe potuto appagare
la fantasia dei mistici e del popolo. Talvolta le parole son molte
fra gli avversarii. In una delle Visioni di san Furseo, i demonii
disputano assai dottamente con gli angeli di peccati e di penitenza,
citano le Scritture, e fanno grande sfoggio di dialettica. Sovente alle
parole tengono dietro i fatti. San Gregorio Magno narra di un'anima
contrastata, che i diavoli tirano per le gambe verso l'inferno, e
gli angeli per le braccia verso il cielo. Per l'anima di Baronto
contrastano due demonii e l'arcangelo Raffaele. Disputano un giorno
intero, senza venire a nessuna conclusione: finalmente l'arcangelo,
perduta la pazienza, taglia corto ai ragionamenti, e tenta di tirar
l'anima in cielo; ma invano, perchè l'uno dei demonii l'afferra e la
tira dal lato destro, mentre il suo compagno, da tergo, la tambussa
di calci. La battaglia dura un pezzo e si fa più aspra, con molta
consolazione di quell'anima tapina. Sopraggiungono altri quattro
demonii in ajuto dei due, altri due angeli in ajuto dell'arcangelo.
Dagli e picchia, finalmente quelli han la peggio e questi trionfano.
Alcuna volta furono veduti angeli e diavoli, sotto forma di colombi e
di corvi, combattere insieme pel possesso di un'anima.
Ho accennato anche a combattimenti più generali, in cui erano impegnate
molte milizie dell'una e dell'altra parte, e che avevano ragioni pure
più generali. Una volta, nel deserto, l'abate Isidoro mostrò all'abate
Mosè, dalla parte di occidente l'esercito dei diavoli, dalla parte
di oriente l'esercito degli angeli, quello in procinto di assaltare
i santi uomini, questo pronto a difenderli. Un tale, di cui narra
la visione san Bonifacio, apostolo della Germania, assistette a una
specie di contrasto generale di angeli e di demonii, questi intesi
ad accusar le anime e gravare i peccati, quelli intesi ad alleviare e
scusare. Non sarà finalmente fuor di luogo avvertire che il più antico
esempio conosciuto di contrasto fra angelo e demonio, è nella così
detta Epistola cattolica di Giuda, che i critici hanno comunemente ora
in conto di apocrifa, ma che si trova già ricordata nel secondo secolo
dell'era volgare.
Talvolta, se angeli e santi non riuscivano a tenere a segno i diavoli,
e a far lasciar loro la preda, veniva in mezzo la Vergine e subito la
contesa finiva. In un esempio recato da san Pier Damiano, i diavoli,
dopo avere disputato a lungo con gli angeli, lasciate le parole,
ricorrono alla violenza, e si sforzano di trascinare l'anima in
inferno. Già è men risoluta la difesa degli angeli sopraffatti, quando
appare improvvisa fra i combattenti, in un nembo di luce sfolgorante,
la Vergine cinta di milizie celesti. Si rinnova la disputa, e la
Vergine, riconosciuto non avere i diavoli tutto il torto, ordina
all'anima di rientrare nel corpo e di confessare un gravissimo peccato,
sempre per vergogna taciuto. Così i diavoli rimangono frodati del
loro diritto. Non senza qualche ragione dunque dice Satana a Maria nel
_Giobbe_ del Rapisardi:
Gelosa
Del mio scarso poter sovra i mortali,
Tu mi contendi ogni vittoria; chiudi
L'umane orecchie a' detti miei; debelli
Le mie schiere, le mie reti dismagli.
Tal che d'ogni conforto e d'ogni preda
Digiuno in mal feconde opre mi scarno,
E meno a Dio che a me stesso rincresco.
I contrasti fra Satana e la Vergine sono assai numerosi, e parecchi
tra essi provocati, non dal disputato possesso di un'anima, ma dallo
stesso antagonismo incessante che è tra il bene e il male, tra il
cielo e l'inferno. Tale, e per più rispetti singolare, è quello che nel
XIII secolo compose, in rozzi versi, un frate del terzo ordine degli
Umiliati, Bonvesin o Buonvicino da Riva. Satana in esso si mostra assai
più _loico_ del diavolo di Dante, e oppone alle invettive della Vergine
certi argomenti che danno assai da pensare. Perchè ella, che a tutti
i peccatori è tanto pietosa, non ha per lui pietà alcuna? perchè, tra
gl'infiniti peccati che si commettono tuttodì nel mondo, solamente il
suo, quello per cui egli fu cacciato dal cielo, non può essere espiato?
perchè si compiace ella di defraudarlo continuamente d'ogni suo giusto
guadagno e di torgli quanto per legittimo diritto gli appartiene? Se
ella è madre di Dio, non è a lui che ne va debitrice? perchè senza dì
lui non vi sarebbe stato peccato, e senza peccato non vi sarebbe stato
bisogno di redenzione, e se di redenzione non ci fosse stato bisogno,
ella non avrebbe partorito il Redentore. E perchè Dio non creò lui
così buono che non potesse peccare? E se di tanta grazia non voleva
essergli largo, perchè, antivedendo il suo peccato, lo creò? Se Dio
non l'avesse creato, egli non sarebbe demonio, e non brucerebbe per
l'eternità, senza speranza, nel fuoco d'inferno. Sembra che Dio gioisca
di sua irreparabile miseria. Cristo mori pel peccatore umano, e non già
per lui, demonio: a lui nulla toccò del beneficio della redenzione, e
lo stesso beneficio del peccato gli è tolto continuamente contro ogni
ragione e giustizia. In qualche altro contrasto tiene il luogo della
Vergine Cristo in persona.
Notisi che Satana ha un concetto assai chiaro e saldo del proprio
diritto; di quel diritto che, mercè il peccato dei primi parenti, egli
acquistò sulla umanità tutta intera, e sulla natura; di quel diritto
che Padri e Dottori della Chiesa ripetute volte riconobbero in lui,
e del quale l'opera della redenzione lo spogliò solamente in parte,
non in tutto. Ora, l'affermazione di un tale diritto da parte sua, le
continue lesioni recate ad esso dagli avversarii celesti, i dubbii
circa la sua vera natura e i suoi limiti, danno luogo a una vera
controversia giuridica e a una formal procedura. Ne nasce il così detto
Processo di Satana, che diede materia a giureconsulti di professione, e
di cui sono varie forme.

L'idea di esso sembra essere molto antica e risalire sino a Marcione,
l'eresiarca del secondo secolo. In una delle già citate Visioni di
san Furseo, il demonio e l'angelo non potendosi accordare sopra il
possesso di un'anima, deliberano di appellarsi a Dio. A forma piena
tuttavia il processo non perviene se non per opera del famoso Bartolo
da Sassoferrato (1313-1357), di cui si ha in latino, un _Trattato della
questione ventilata innanzi al Signor Gesù Cristo, fra la Vergine
Maria dall'una parte e il diavolo dall'altra_. Il demonio accusa il
genere umano, Maria lo difende, Cristo è giudice, Giovanni Evangelista
notajo e scrivano della curia celeste. Il processo comincia con una
regolare citazione, e la prima udienza è fissata, a dispetto di Satana,
pel venerdì santo. Satana tenta di ricusare l'avvocata della parte
avversaria per due ragioni, la prima perchè madre del giudice, la
seconda perchè donna; ma non gli riesce. Invoca allora, in appoggio
del suo diritto, la prescrizione, e dall'una parte e dall'altra si
cita a gara con grandissimo impegno il _Corpus juris_. La sentenza,
favorevole al genere umano e contraria al suo avversario, reca la data
del 6 aprile 1311. Più altri processi consimili si hanno in latino,
in italiano, in francese, in tedesco. In essi il querelante è sempre
il demonio, l'accusato il genere umano, o la Vergine Maria, la quale
talvolta si presenta invece come avvocata, il giudice, di solito,
Cristo. Qualche altra volta l'accusato è Cristo medesimo, a cui il
demonio rimprovera di avere, contro il diritto, salvato il genere
umano e spogliato l'inferno. Nel _Processus Luciferi_ di Jacopo degli
Ancarani da Teramo (m. 1410), la causa va di appello in appello,
giudicata prima da Salomone, poi da Giuseppe, finalmente da Geremia,
Isaia, Aristotile, Augusto imperatore. Lucifero è condannato ai danni
ed alle spese. Il processo si fa sempre più complicato e più lungo.
Quello composto sul finire del secolo XVI dal poeta drammatico tedesco
e dottore in ambe le leggi Jacopo Ayrer, conta, nella edizione del
1680, senza l'indice, 860 pagine in quarto. In tutti il demonio si
mostra valentissimo legulejo, ma senza frutto. In un poemetto francese
del secolo XIV, l'_Advocacie Nostre Dame_, egli, dopo avere addotto
inutilmente in sua difesa molte e ottime ragioni, vedendo che nulla gli
giovano, se ne va esclamando:
Ah! qu'est justice devenue!
Ma per lui non v'è giustizia, come non v'è misericordia. Nemmeno nel
proprio suo regno, nemmeno in inferno, egli può tenersi sicuro dalle
offese degli avversarli. Cristo vi discese una volta, e ne trasse
tutto un popolo di anime: la Vergine, gli angeli, i santi, vi scendono
ancora, come abbiam veduto, di tanto in tanto, e vi turbano gli
ordini stabiliti sotto la sua signoria, concedono, senza chiedergliene
licenza, alleviamento di pena e riposo ai dannati. Anzi fanno assai
più: strappano i dannati all'inferno e, dopo ragionevole espiazione,
o anche senza di essa, li portano in cielo a godere della beatitudine
eterna. Questi casi non sono, se vogliamo, tanto frequenti, ma non sono
nemmen poi tanto rari. A furia di preghiere san Gregorio Magno liberò
dall'inferno l'anima di Trajano imperatore. Sant'Agostino racconta
come Dinocrate fu liberato per le preghiere di sua sorella Perpetua.
Santa Viborada liberò nello stesso modo un fanciullo, e sant'Odilone,
abate di Cluny, rese tale servigio all'anima di Benedetto IX papa,
che veramente non lo meritava. Di un certo Evervach, dannato, a cui
Dio permette di tornare al mondo per farvi penitenza, narra Cesario di
Heisterbach, e sono numerose le leggende in cui tale miracolo si compie
per intercessione della Vergine. In un dramma, o Mistero tedesco della
fine del secolo XV, si vede la stessa papessa Giovanna, di leggendaria
memoria, liberata dall'inferno, e condotta in cielo, per le preghiere
di Maria Vergine e di san Niccolò, e per le mani dell'arcangelo
Michele, che respinge con la spada i diavoli contrastanti. Ma c'è di
più. Nella Visione di un monaco Ansello (sec. X) si dice che tutti
gli anni, nel giorno della Risurrezione, Cristo scende all'inferno, e
libera le anime dei peccatori meno malvagi. In un favolello francese,
un giullare, lasciato dai diavoli a custodia dell'inferno, giuoca le
anime a dadi con san Pietro, il quale vince, e tutte le conduce in
paradiso. Tra esse ci doveva essere anche l'anima di Aristotile, la
quale non aveva potuto prima ottener tanta grazia. Nella Vita di san
Bonifacio vescovo di Losanna (m. 1258 o 1259) si legge che questo santo
aveva gran dispiacere della dannazione di Aristotile, e spesso pregava
Dio perchè volesse salvarlo, finchè un giorno venne una voce dal cielo,
e gli disse che ogni sua preghiera era inutile, giacchè Aristotile non
aveva fondato la chiesa di Cristo, come poi fecero san Pietro e san
Paolo.

Come si vede, se grande era la potenza di Satana e degli spiriti suoi,
più grande era la potenza di Dio, e della Vergine, e dei santi, e
degli angeli. La croce trionfava dell'inferno, era a un tempo stesso
arme e simbolo di vittoria. Cristo era maggior signore di Satana, e la
storia di quel buon gigante che fu san Cristoforo mette questa verità
in azione. Cristoforo era un uomo di terribile aspetto, e alto dodici
cubiti, cui venne in fantasia di voler servire il maggior signore che
fosse nel mondo. Andò a trovare un gran re, di cui diceva la fama che
fosse il più possente di tutti e il più magnifico, e si pose ai suoi
servigi. Avvenne un giorno che uno di quei giullari di corte si mise a
cantare una sua canzone in cui ricorreva frequente il nome del diavolo,
e il re, ch'era cristiano, ogniqualvolta l'udiva pronunziare si faceva
il segno della croce. Stupì Cristoforo, e ne chiese la ragione, e
saputo che il re si segnava a quel modo per difendersi dal demonio,
comprese questo essere maggior signore di quello, e osservando il
suo proposito, subito si partì e andò in traccia del nuovo padrone.
Camminando per certa solitudine, trova uno sterminato esercito, il
cui capitano, fiero e terribile in vista, gli chiede ove vada e la
cagion dell'andare. Io vado cercando, risponde Cristoforo, messer lo
demonio, perchè voglia tormi al suo servigio. “Colui che tu cerchi sono
io medesimo.„ dice il capitano, e Cristoforo, lieto dell'incontro,
gli si obbliga servitore in perpetuo. Se ne vanno in compagnia, e
in certa strada trovano una croce. Vedutala appena, il demonio, pien
di terrore, scappa, e trascinandosi dietro il nuovo servo, passa per
luoghi aspri e deserti, e solo in capo di certo tempo ritorna sulla
strada di prima. Si meraviglia Cristoforo, e vuol sapere la ragione
del fatto. Il diavolo, sebbene mal volentieri, gliela dice: “Sappi che
un uomo, chiamato Cristo, fu appeso in croce, ed io temo assai questa
croce, e fuggo quando la veggo.„ E Cristoforo: “Quel Cristo è dunque
maggiore e più possente di te? Orbene, rimanti in buon'ora, perchè io
voglio servire, non te, ma lui.„ Ciò detto si parte, e dopo avere a
lungo chiesto e cercato di Cristo, trova un'eremita che lo istruisce
nella fede cristiana, e gli fa conoscere quel padrone da cui più non si
partirà.


CAPITOLO XIV.
IL DIAVOLO RIDICOLO E IL DIAVOLO DABBENE.

Satana si mostra sotto due diversi e contrarii aspetti, di vincitore
e di vinto. Vincitore, egli appare terribile, e riempie gli animi
di orrore e di paura; vinto, appar soltanto vituperoso, e provoca il
disprezzo ed il riso. Allora, coloro stessi che hanno tremato al suo
nome, si rinfrancano, e allegramente si fanno beffe di lui. Bisogna
notare ancora che, indipendentemente dalle disfatte cui soggiaceva
troppo spesso, Satana, nel concetto popolare, non poteva serbare
intera la terribilità sua, ma doveva assumere, in certe determinate
condizioni, un carattere più mite, e starei per dire più umano. Il
popolo, tratto dall'indole del suo pensiero, e più da un bisogno
dell'anima, ha sempre famigliarizzato, più o meno, i suoi numi. Le
plebi cristiane fecero scendere di cielo in terra, andar gironi pel
mondo, entrare nelle case degli uomini, assidersi alle lor mense,
attendere a mille svariate faccende, non pure gli angeli e i santi e
la stessa Vergine Maria, ma ancora Gesù Cristo e Dio Padre. Come non
avrebbero esse dato talvolta un consimile carattere di famigliarità
al diavolo, a quel diavolo che essi credevano fosse continuamente in
mezzo a loro, e il cui nome ricorreva così frequente nei loro discorsi?
In un grandissimo numero di credenze e di fiabe popolari noi vediamo
comparire un diavolo profondamente diverso da quello dei teologi e
delle leggende ascetiche, un diavolo che ha figura e indole d'uomo,
ha una casa come hanno gli uomini, faccende e brighe quali potrebbe
avere un agricoltore o un artigiano; un diavolo che mangia, bee e veste
panni, è qualche volta indebitato, qualche altra ammalato, e nulla più,
o ben poco, serba di diabolico. Questo diavolo ammansato non si chiama
più con nomi solenni o terribili, ma con nomi umili, ridicoli gli uni,
quasi carezzevoli gli altri: Farfanicchio, Fistolo, Berlic, Farfarello,
Tentennino, Culicchia, Ticchi-Tacchi in Italia; Old Nick, Gooseberry in
Inghilterra; Don Martin o Martin Piñol in Ispagna, e così via.

Durante tutto il medio evo l'aspetto sotto cui si rappresenta il
diavolo, se ha del terribile, ha più del ridicolo. Veggasi come, non
immaginando di suo capo, ma seguitando la tradizione, Teofilo Folengo
dipinge il diavolo Rubicano nella decimottava maccheronea del _Baldo_:
Ille super lapidem ventosis fertur ab alis,
Quæ sunt de guisa veluti gregnapola gestat.
Quattuor in testam fert stantes vertice cornas,
Instar montonis tortas, dependet aguzzus
Nasus, qui semper vomit atro sulphure flammas.
Plus asini longas hinc inde volutat orecchias.
Deque cavernosis oculis duo brasida volgit
Lumina, nec minor est muso sua bocca lupino,
Extra quam dentes ut porcus grignat aguzzos.
Barba velut becchi marzo de sanguine pectus
Imbrattat, quo testa canis stat ficca tesini,
Quæ semper bau bau faciens sua labra biassat.
Vergognosa caput serpentis pars sua vibrat
Sibila, sed retro dependet cauda leonis.
Gambæ subtiles pedibus gestantur ochinis,
Undique sulphureum da corpore mittit odorem.
Baldo e i compagni, vedendo gli scambietti e sberleffi suoi, schiattano
dal ridere.
Nè i demonii son sempre torvi e dispettosi; anzi ridono volentieri fra
loro, e talvolta eccitano al riso gli uomini, con lazzi e capestrerie
da buffoni. Un sant'uomo, ricordato da san Gerolamo, vide un giorno
un diavolo che sgangheratamente rideva. Chiestagliene la cagione,
quegli rispose che un suo compagno diavolo, il quale stava seduto
sullo strascico di una donna, era tombolato per terra nel momento
che, dovendo passare un luogo fangoso, la donna s'era tirata su
la veste. San Caradoc, essendosi un giorno stancato a lavorare, si
tolse la cintura e la tonaca e le gettò in un canto. Venne il diavolo
furtivamente e tolse la cintura con la borsa che v'era appesa. Andato
il santo per riprenderle, non le trovò, e vide poco lungi il demonio
che ruzzava allegramente.
Il diavolo ridicolo è anche un diavolo rimminchionito, al quale si
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