Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 19

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stroncato e abbattuto gli alberi, esse hanno rovesciato sui tronchi
atterrati eruzioni di zolle e di sassi. Non v'è più un filo d'erba;
ogni vita vi è estinta. Il Podgora è il sinistro cadavere d'un colle
cosparso di cadaveri d'uomini. Il nostro lavoro di zappa ha dovuto
qualche volta deviare perchè scavava sotto ad un carnaio di nemici.
Sulla groppa della collina, dove nessuno dei due avversari resiste,
rimane in piedi qualche decina di fusti nerastri, senza rami, un po'
inclinati qua e là, scossi dalle esplosioni come da una tempesta, e
sulla vetta principale, sconvolta, non ci sono che tre tronchi, tre
soli, equidistanti, che ricordano le croci del Golgota e che l'hanno
fatto battezzare Monte Calvario.
S'incontrano per la strada da Cormòns a Mossa degli uomini che tornano
dal Calvario o che ci vanno sereni e contenti, non trovando niente
di specialmente terribile in quella posizione, sulla quale si sono
scatenati assalti senza numero. Dei gruppi di volontari triestini vi
hanno compiuto prodigi di valore insieme alla truppa della più vecchia
Italia. Tutta la costa dell'altura era difesa da una successione di
trincee blindate, protette da reticolati e da mine, e sono state prese
ad una ad una, a colpi di zappa, a colpi di esplosivi, a colpi di
baionetta. Ogni possibilità offensiva del nemico è stroncata; la testa
di ponte è ancora un ostacolo ma non è più un pericolo; non sporge
più verso di noi la minaccia di una base di concentrazione, non ha più
sfogo.
Sul fiume, Podgora, come il Sabotino, scende con un declivio
precipitoso e breve, e su quel pendìo ripido gli austriaci sono
ridotti, ad onta dell'appoggio delle batterie d'ogni calibro nascoste
sul Monte Santo, sul monte di San Gabriele, sulle colline di San Marco,
al di là di Gorizia. Vi si tengono arrampicati in trincee massicce,
sotto blindature di acciaio, in mezzo a un dedalo di cunicoli,
di gallerie, di tane. Sopra la vetta sgombra, battuta dai cannoni
delle due parti, passano di qua e di là bombe lanciate da apparecchi
speciali, e la notte essa è vividamente illuminata da un vigilante
incrocio di proiettori, percossa da granate.
Verso la linea estrema della nostra occupazione, per gl'incamminamenti
coperti, si ode spesso un lieto abbaiamento di cani, come se una caccia
si svolgesse nel dedalo delle trincee, e per i sentieri scavati nella
terra vanno e vengono strani equipaggi che ricordano certe carrettelle
dei contadini fiamminghi. Sono piccoli veicoli che dei cani robusti,
volonterosi, di quei cani da gregge e da pagliaio, bastardi, grossi e
vellosi, trascinano ansimando, la lingua penzoloni, con una vivacità
consapevole nello sguardo dolce, come se comprendessero l'importanza
e l'urgenza del loro lavoro. Un conducente accompagna due o tre cani
alla volta, li incoraggia, li chiama per nome, li aiuta nei passi
difficili. Giunte alla trincea le brave bestie si accucciano fra le
stanghe dei loro carrettini, col petto affannato e arruffato sotto al
finimento di cuoio, e guardano il soldato che le guida, attente, il
muso di traverso, le orecchie sollevate, la coda agitata, aspettando la
carezza. In qualche settimana gl'intelligenti animali hanno imparato,
conoscono la strada; il frastuono del combattimento non li spaventa più
e vanno al fuoco come veterani.

Mentre osservavamo il Podgora, gli austriaci ci bombardavano Capriva,
un villaggio fra Gorizia e Cormòns. Da alcune settimane devastano ora
l'uno ora l'altro dei paesi sul piano. Credono forse di demolire i
nostri quartieri d'inverno. Un fumo denso e scuro passava sui tetti.
Bombardavano anche Villanova, ai piedi del Monte Fortin, lieve altura
sulla riva destra dell'Isonzo. Lontano, una grande colonna di fumo
bianco: un deposito nemico ardeva, incendiato da una granata nostra,
nel sobborgo goriziano di San Pietro. Spesso un rumore di battaglia
scendeva dal cielo.
Era un tempestare rapido di esplosioni altissime nell'azzurro. Il fuoco
dei cannoni antiaerei inseguiva aeroplani nemici. La caccia ci fermava
attenti, pieni di crudeli speranze. Le nuvole degli _shrapnells_ si
seguivano in fila; creavano una lunga, strana punteggiatura bianca
sul sereno, cancellata con lentezza dal vento fino a formare una
scìa pallida e confusa, una specie di via lattea striata e diafana.
Minuscolo, chiaro, lontano, veloce l'aeroplano filava avanti ai colpi,
più in alto.
Appena lasciato con gli occhi era perduto nella luce. Nuove nuvolette
ce lo indicavano, più in là. Pareva una corsa fra il volo e i colpi
di cannone. La macchina alata fuggiva dai tiri di una batteria e
incontrava i tiri di un'altra. A intervalli il bombardamento del cielo
cessava, per ricominciare più remoto. In un certo momento, quattro
aeroplani austriaci volteggiavano sulla zona di Cormòns.
Si difendevano sollevandosi. È ben raro che il tiro dei cannoni
possa abbattere un aeroplano da guerra, che solca lo spazio a cento o
centoventi chilometri all'ora, ma lo costringe a fuggire in elevazione,
a cercare la salvezza nelle altezze gelate dell'atmosfera da dove la
visione della terra si confonde e l'osservazione perde accuratezza.
Poi dei grandi uccelli tricolori sono sopravvenuti. Alcuni tornavano
dalle ricognizioni e scendevano a motore spento come scivolando
vertiginosamente sopra un immenso invisibile pendìo; altri si levavano
allora con un roteare largo e solenne. Per un minuto il cielo è apparso
tutto solcato dai voli. Qualche boato profondo ha scosso l'aria, e
nembi densi e foschi si sono sollevati dalla terra. Il nemico lasciava
cadere delle bombe.
Voleva forse colpire dall'alto qualche convoglio che passava sulla
strada vicina. Le bombe scoppiavano sui campi. I conducenti guardavano
con indifferenza il fumo che scorreva sull'erba e fra i filari di
alberi; il convoglio proseguiva con lentezza il suo cammino. Ad uno
ad uno gli aeroplani sono scomparsi. Il cielo si è di nuovo fatto
silenzioso e limpido. Abbiamo allora udito brontolare il cannone in
fondo alla pianura, sulle lontananze azzurrognole del Carso.
Oltre Capriva, ai piedi del Podgora, vedevamo le case sventrate di
Lucinico. Il bombardamento e gl'incendî vi hanno tutto diroccato e
distrutto. Lucinico è così prossimo a Gorizia che, visto da lontano,
si confonde con la città. Ne è quasi un sobborgo, separato appena
da un chilometro di strada e da un ponte. A Lucinico la battaglia ha
infuriato.
Aprirsi un varco a Lucinico verso Gorizia voleva dire aggirare il
Podgora, far cadere la possente difesa delle alture, voleva dire
sfondare lo sbarramento frontale di Gorizia. Mentre il martellare degli
assalti percuoteva e sfasciava successivi trinceramenti sul pendìo
occidentale del Podgora, il nostro attacco, fiancheggiando a destra
questa azione, si sferrò su Lucinico.
Le prime difese all'entrata del villaggio furono spazzate via. Successe
un combattimento all'antica, da casa a casa, da angolo ad angolo, da
porta a porta, una battaglia da pittura di guerra. Appena il villaggio
fu nostro, cominciò il bombardamento austriaco, furibondo; tutto era
fuoco e fumo; si udiva lo scroscio dei crolli dopo ogni esplosione; le
macerie si sparpagliavano con una violenza da proiettili sollevando
opachi e persistenti nembi immani di polvere, e alla notte, sopra
a questo tumulto danzava il riflesso vivo e sanguigno degl'incendî.
L'attacco continuava.

Le grandi opere di trinceramento preparate dal nemico erano al di
là. Lavori in cemento, blindature in acciaio, linee successive di
posizioni e di ostacoli, tutto quello che la scienza e l'esperienza
hanno trovato di più formidabile per lo sbarramento di un piano, era
ammassato su quello sbocco. La difficoltà più grave all'assalto non
era l'invulnerabilità delle trincee nemiche, non era l'intensità del
loro fuoco, era il reticolato, quella cosa che appariva così lieve
nella distanza, così leggera e sfumata come una bruma azzurrastra.
Sulle trincee si arriva, contro al fuoco si avanza, ma nessuna volontà
e nessun eroismo potevano far valicare le sterminate barriere di fili
di acciaio intessute sopra uno spessore di cinquanta metri. Allora i
mezzi efficaci che abbiamo trovato per la distruzione dei reticolati
non esistevano. Le grosse forbici a tenaglia, che così bene avevano
servito ai giapponesi in Manciuria, si spezzavano. Per renderle inutili
il nemico aveva adoperato dei fili grossi come cordicelle. I reticolati
di Lucinico parevano inattaccabili. Si pensò al cannone.
Avvenne qualche cosa di gigantesco. Nella prima luce scialba, livida
di un'alba, l'ora dei silenzi anche sul campo di battaglia, si vide
un cannone uscire al galoppo dalle nostre posizioni. Si era dovuto
lavorare a spianare un tratto di trincea per aprirgli il passo. Pareva
che si lanciasse solo all'assalto.
Fra le due linee nemiche, in una fredda, pallida, tragica solitudine,
imperterrito, il cannone galoppava alla morte. Andava lungo la strada
bianca e diritta verso le trincee austriache. I suoi sei cavalli
si allungavano vigorosamente nella corsa, sferzati dai conducenti
saldi in sella, e il rombo metallico delle ruote si spandeva sulla
quiete. L'ufficiale cavalcava a fianco del pezzo. Vi fu un minuto di
sospensione, di sorpresa, di ansia, di ammirazione.
Pareva che il nemico stesso fosse tenuto immobile da un senso di
rispetto e di stupefazione. Forse non capiva, non si rendeva conto,
di quella sublime audacia. Ma subito dopo la fucileria austriaca
cominciò, intensa, scrosciante, allarmata, da tutti i punti, di fronte
e di fianco, dalla strada di Gorizia, dalla strada di Gradisca, dalle
pendici del Podgora.
Il cannone si fermò a centocinquanta metri dai reticolati. Si
potè scorgere qualche cavallo già ferito che si abbatteva agitando
convulsamente le zampe. Poco dopo, distaccati dal pezzo, gli altri
pure cadevano, tentavano di risollevarsi, ricadevano. Gli artiglieri
eseguirono la manovra della messa in posizione, presero i loro posti,
tuonò il primo colpo. Vi fu una pausa per regolare il tiro, poi il
fuoco riprese, rapido, regolare. La trincea battuta scomparve nel fumo,
ma si intravvide al di là una confusione di fuga, uno sparpagliamento
di gente in corsa verso i fianchi. Il nemico abbandonava la posizione.
La fucileria austriaca infuriava sempre dalle trincee laterali. Su
quell'affaccendamento di pochi uomini intorno ad un cannone, su quel
minuscolo gruppo vivente nell'immobilità grigia della zona scoperta,
era una grandine di piombo. Qualche servente di tanto in tanto si
accasciava colpito. Allora dalla trincea nostra partiva di corsa un
artigliere a sostituirlo. E il fuoco continuava.
L'artiglieria nemica si destò. Dei proiettili cominciarono a scoppiare
intorno, vicino, ad avvolgere il cannone in cumuli di fumo. Ma si udiva
sempre il suo tuono impetuoso, eguale, insistente, ostinato, furibondo.
Ad un certo momento una voce ingigantita dal megafono gridò da là,
dal fumo: «Granate! Portateci granate!». Un cassone con trentotto
granate uscì dalle posizioni e si slanciò al galoppo in quell'inferno.
Il fuoco del pezzo non aveva avuto che una breve sospensione. Con le
nuove munizioni il tiro ricominciò veloce. Il cannone affrettava la sua
opera quasi presentisse la brevità del tempo che gli restava a vivere.
Era circondato da un balenare di scoppi, da un fragore ininterrotto.
Un albero vicinissimo, sul margine della strada, cadeva schiantato.
Su quel punto convergeva il furore di batterie intere. Nell'uragano
delle esplosioni si distinguevano i colpi del cannone nostro, regolari,
serrati.
Poi il suo tiro a poco a poco rallentò. Si fece ineguale, ebbe
delle pause. Gli ultimi colpi erano separati da lunghi, angosciosi
intervalli. Ma il fuoco moribondo del pezzo, che si comprendeva
manovrato da qualche ferito, continuò finchè tutte le granate furono
scagliate contro l'ostacolo, tutte. Allora soltanto, definitivamente,
il cannone tacque. Imperversò ancora su di lui la tempesta del
bombardamento. Quando anche essa languì e il fumo si dissipò, sulla
strada deserta non c'erano più che delle cose informi.
Il cannone, colpito ad una ruota, con l'affusto sfasciato, era rotolato
nel fosso. Cominciò allora una lotta per non lasciar cadere quei
gloriosi rottami in mano al nemico.

L'eroico sacrificio di quel pezzo aveva costretto l'avversario a
rivelare tutte le sue posizioni. Una breccia era aperta sulla strada,
ma inoltrarsi era impossibile in mezzo ai fuochi incrociati di
fucileria e di artiglieria che convergevano da ogni parte, risvegliati
dall'allarme, provenienti da trincee delle quali soltanto allora
poteva valutarsi l'importanza e scoprirne la disposizione. Non potevamo
muoverci, nessun assalto sarebbe arrivato in quelle condizioni. Nuove
disposizioni si meditavano, la situazione poteva essere studiata nella
sua realtà. Nelle trincee i soldati non pensavano che al cannone che
bisognava riprendere.
Per tutto il giorno fu tenuto lontano il nemico. Gli artiglieri della
batteria erano in trincea con i fucilieri. E furono gli artiglieri che
alla fine vollero uscire, sotto al fuoco, inoltrando lungo gli argini
della strada. Essi riportarono indietro i cadaveri degli uomini e il
pezzo.
In ogni combattimento, sul tumulto oscuro di innumerevoli eroismi si
solleva gigantesca, solenne, possente, la bellezza terribile di qualche
fatto leggendario, come un monumento sulla folla. In nessuna guerra
come in questa il valore è arrivato a così sovrumane grandezze. Sugli
orizzonti della storia le generazioni da secoli vedono torreggiare
il ricordo di gesta che non arrivano alle altezze di episodî che si
svolgono ora, per tutto, senza incitamento di gloria, con la ineffabile
semplicità dell'impensato, dell'istintivo, dell'inconsapevole. Son
pochi i fatti che arrivano ad essere conosciuti, e nessun nome rimane
scolpito su queste vette dell'epopea. I protagonisti non sono più
degl'individui, hanno una personalità più grande, sono il popolo, sono
la razza.
Per questo gli episodî eroici acquistano qui un colore di naturalezza
e non meravigliano più. Per uno di essi che arriva alla nostra
conoscenza, cento restano ignorati, passano e scompaiono dalla
memoria come le onde di una tempesta, varie, imponenti, mosse tutte
dalla stessa forza, fatte tutte della stessa materia, che lasciano
l'impressione di una cosa sola: il mare in furia.
Oscuri e sublimi sacrifici volontari crearono il varco ad ogni
avanzata, e di avvenimenti che avrebbero gonfiato di orgoglio il cuore
della nazione, rimangono tre righe di rapporto richiamate da un numero
di archivio. Percorrendo la fronte si scopre che gli ardimenti più
grandi non sono isolati, che scaturiscono in ogni settore nelle stesse
circostanze. Il cannone eroico di Lucinico ha dei confratelli per
tutto, a Gradisca, a Sagrado, sul Carso....
A Lucinico dopo quella battaglia la nostra fronte sostò, mentre
varcava l'Isonzo a nord e a sud, a Plava e a Sagrado, e la conquista
si affermava sull'altra riva. Gorizia si vede vicina, pittoresca,
intatta dalle trincee di Lucinico. I suoi edifici più nuovi e più
bianchi, senza una ferita sulle loro facciate, avanzano verso il fiume,
lungo viali alberati, e alla sera tutti i suoi vetri si accendono dei
bagliori del tramonto, con un'apparenza di illuminazione e di festa.
I campanili delle chiese numerose si affacciano incontaminati dalla
guerra al di sopra dei tetti. Soltanto la stazione di San Pietro,
che serviva ai trasporti di materiale da guerra ed era circondata
di depositi, è stata danneggiata dalle nostre granate. Contro ad una
grande tettoia da locomotive il tiro fu sospeso perchè sorse il dubbio
che potessero esservi raccolti dei rifugiati.
I cannoni del nemico devastano, i nostri combattono soltanto. Non
colpiscono che i punti dei quali è accertata l'importanza militare. Non
fanno la guerra agli inermi, alle case, ai monumenti. Da una parte è
la rovina, un paesaggio da terremoto, dall'altra continua rispettata la
vita passiva e silenziosa delle città spopolate che aspettano.
Il nemico, che spesso finge di arrendersi e massacra, che alza bandiera
bianca e fa fuoco, che copre con la croce rossa convogli di munizioni,
che spara sulle ambulanze e sui portaferiti, che fa prigionieri dei
medici, che bombarda villaggi abitati, potrà trarre qualche beneficio
della nostra lealtà. Ma noi sentiamo in noi stessi l'immensa forza di
una superiorità morale, la coscienza di rappresentare la formidabile
nobiltà del diritto.


SULL'ISONZO E SUL CARSO.
UNA MIRABILE IMPRESA GUERRESCA.
_5 ottobre._

Chi si avvicina adesso all'Isonzo, attraverso la pianura friulana,
prima ancora di arrivare all'antica frontiera cerca in fondo
all'orizzonte l'altura strana e terribile che è il terreno della lotta
più ardente, il campo delle più vaste battaglie della guerra. Il suo
profilo si distacca a poco a poco dal confuso e sbiadito sollevamento
lontano delle Alpi Giulie, si precisa, prende rilievo, e lo sguardo non
lo lascia più. È l'ultima propaggine del Carso, l'immane gradino sul
quale la nostra offensiva è salita.
Non ha l'imponenza di quelle montagne guerriere che s'offrono ai
combattenti delle posizioni turrite, non ha l'aperta e fiera ostilità
del Rombon e del Monte Nero. È una singolare collina, lunga, adagiata,
senza sbalzi di vette, senza quell'imperioso levarsi di una cima che
mette ad ogni monte come una testa dominatrice. Sembra accucciata,
il suo dorso ha una immobilità rettilinea. Bisogna avvicinarsi per
scorgervi qualche ondulazione. Allora si osserva che quella barriera
va innalzandosi a sinistra, e sale senza vigore fino ad una specie
di protuberanza terminale: il monte San Michele. Si distinguono meno,
dal lido opposto, altre piccole onde: il Monte Sei Busi, poi il Monte
Cosich più lontano. Nell'insieme l'altura si disegna con la regolarità
di un oscuro bastione.
È un bastione lungo dodici chilometri, alto qualche centinaio di
metri, che avanza a saliente, che penetra ad angolo nella pianura
come lo sperone di una prodigiosa fortezza. Il fiume gira alla base
di questo spalto immane, ne lambe le pendici per un lungo tratto,
poi se ne discosta e scende tortuoso al mare. Ai piedi delle alture
è un affollamento chiaro di cittadine e di villaggi, Gradisca
a sinistra, quasi sotto al San Michele, Sagrado alla punta più
avanzata del saliente, poi Fogliano, poi Redipuglia, poi Ronchi, a
destra Monfalcone, disordinate mandrie di case che sembrano fermate
dall'ostacolo del Carso e adunate là sotto in una perenne attesa. Ora
il cannone austriaco le macella.
Avvicinandosi al Carso la pianura si fa triste. Su dei campi
abbandonati il calpestamento dei bivacchi ha aperto larghe plaghe
di sterilità; altrove la campagna inselvaggisce in una invasione
rigogliosa di vegetazioni parassite. Tutta la vita è sulla strada,
polverosa e fangosa, percorsa da convogli e da truppe, animata da
squadre che lavorano al rafforzamento di argini o allo scavo di
fossati. Passato il fiume comincia la visione pietosa dei villaggi
bombardati. Erano rimasti intatti e viventi fino ad un giorno recente
nel quale il nemico ha aperto le ostilità contro di loro.

La popolazione emigra sotto alle granate, ma poi quasi sempre ritorna
e si riannida tenace nelle case sconnesse, presso la chiesa crollata.
Così a Turriaco, sgretolato qua e là dai colpi, abbiamo ritrovato un
po' di vita. Dei bambini giuocavano vicino alle rovine di un edificio
che aveva bruciato tutta la notte e che mandava ancora fumo e calore
dalle sue macerie calcinate. A San Canziano, sulle soglie di case
sfondate sono comparse delle donne. Il paesello è stato bombardato con
i grossi calibri, come una fortezza.
Qualche casa è scomparsa. Una granata da trecentocinque ha distrutto
interamente l'abside della vecchia chiesa, e dall'immane breccia si
vede l'interno bianco del tempio sventrato, pieno di rottami, invaso
dal vento che agita lembi di paramenti sulla devastazione degli altari.
Siccome le granate non parevano sufficienti a sconfiggere il terribile
San Canziano, degli aeroplani sono arrivati carichi di bombe, e,
abbassando il volo per non sbagliare il colpo, hanno gettato i loro
esplosivi.
Le case rimaste in piedi sono butterate di schegge, con delle imposte
sfondate, con i tetti disfatti. Agli angoli, i lampioni di ferro
della illuminazione pubblica pendono in informi grovigli dai bracci
di sostegno. Fu a San Canziano che un cavallo fece un famoso volo,
arrivato fino alle colonne dei giornali. La povera bestia, attaccata ad
un carretto da battaglione, stava in un cortile quando, a due passi,
scoppiò un proiettile da trecentocinque. Il carretto si sfasciò, il
cavallo sparì. Per il momento fu creduto annientato dall'esplosione;
ma alla sera si scoprì che, lanciato in aria dallo scoppio, il cavallo
era ricaduto sopra una casa vicina, aveva sfondato il tetto, ed era sul
pavimento d'una camera, morto ma senza ferite, coperto di polvere e di
tegole rotte. C'è rimasta ancora la selletta col sottopancia.
Più avanti, Staranzano è quasi distrutto. Dobbia è in rovina. Le
antiche case di Monfalcone si disfanno sotto ad un bombardamento
inesplicabile e feroce, che non ha ragioni militari. Granate
incendiarie appiccano il fuoco, completano la devastazione, e le fiamme
sono vedute alla notte fino da pescatori che remano nella quiete buia
delle lagune di Marano. Begliano è morta. Due facciate di case ancora
in piedi illudono chi arriva. Prima di entrarvi il villaggio pare
quasi intatto, e non c'è più. Ha l'aspetto di un paese abbattuto dal
terremoto. Rimangono dei muri con delle finestre, isolati come quinte
di teatro. Anche qui ha cannoneggiato il trecentocinque.
Uno dei giganteschi proiettili è arrivato attraverso i muri ad un
pianterreno, senza esplodere, e dalla strada si vede il terribile
intruso nell'interno della casa. La finestra è spalancata, e chi passa
scorge nell'ombra la granata enorme e nera, adagiata sopra un letto
di calcinacci, allungare il muso aguzzo e formidabile nell'angolo di
una modesta cameretta adorna di oleografie, piena di tristezza e di
rassegnazione. Il resto della casa è crollato per altri colpi. Ancora
pochi passi, e in una piazza cosparsa di rottami fumano ancora le
macerie di una vecchia villa.

L'hanno colpita con granate incendiarie. Un grande avanzo della fronte,
annerita dalle fiamme, tiene come sospesi dei lembi di adornazione
classica, che l'immaginazione prolunga nel vuoto completando le linee
del palazzo secolare. In alto, due statue di pietra settecentesche,
rimaste sole in piedi sul coronamento, avvolte con grazia in lievi
drappeggi, hanno un gesto leggiadro di danza, una posa da minuetto, e
sorridono. Qualche granata passa nel cielo rombando e soffiando come
un'elica da aeroplano, diretta chi sa dove, e il suo rumore si spegne.
Va forse alla ricerca dei nostri ponti.
Il Carso appare vicino. Da Begliano si distingue bene la prominenza del
Monte dei Sei Busi. Nella luce di un tramonto vedevamo tutto ardente
quel baluardo fortificato che domina la pianura e ne comanda ogni
approccio. Come le nostre truppe hanno potuto avvicinarlo, come hanno
potuto attraversare il fiume sotto ai suoi cannoni, forzare il passo,
salire all'assalto, insediarsi sul ciglione? L'immane spalto di pietra
è stato preso per un miracolo di abilità, di pertinacia, di eroismo.
L'Isonzo è stato varcato a viva forza sotto alla fucileria e alle
cannonate, col nemico trincerato di fronte, a poche centinaia di
metri. Più volte i nostri ponti appena gettati sono stati distrutti
dalle granate. Mancato un tentativo si ricominciava. Si è preso piede
sulla riva sinistra a poco a poco in virtù di un'audacia inflessibile,
tenace, magnifica. Il passaggio dell'Isonzo è uno dei fatti più
meravigliosi nella storia delle guerre.
Oltre alla difficoltà che è nella disposizione del terreno, oltre
alla preparazione del nemico, avevamo contro di noi una ostilità
imprevedibile di circostanze. Il fiume stesso pareva cospirasse ai
nostri danni. Mentre stavamo per tentare il primo passaggio, l'Isonzo
si mise in piena. Il piccolo corso d'acqua veloce e chiaro divenne
una immensa fiumana vorticosa e torbida. Le piene dell'Isonzo sono
impetuose e subitanee. Fu allora che i ponti di Caporetto vennero
travolti isolando i nostri reparti che salivano alla conquista del
Monte Nero.
Ecco la ragione di una sosta delle operazioni nel basso Isonzo dopo il
primo slancio dell'invasione. Tre giorni dopo la dichiarazione della
guerra, le nostre ricognizioni già avevano scelto i punti di passaggio
sul fiume. L'ultimo giorno di maggio ci avrebbe forse potuto trovare
sulle pendici del Carso. L'alluvione ci fermò. Il nemico profittava
intanto della piena per provocare quella inondazione del piano, fra
Sagrado e Monfalcone, della quale narrammo diffusamente nelle cronache
di giugno. Con l'inondazione gli austriaci sottraevano un vasto
territorio alla manovra, restringevano i punti possibili di attacco e
potevano concentrare su di essi la difesa.
Sei giorni trascorsero nell'attesa. Il 4 giugno l'Isonzo decresceva.
Si iniziarono le operazioni per varcare subito il fiume nel punto
meno contrastato, verso Monfalcone. Tutte le artiglierie di un corpo
di armata aprirono il fuoco alla sera. All'alba del giorno dopo due
battaglioni traghettavano su barche, spezzavano una debole resistenza
del nemico, inoltravano verso Pieris. Dietro a loro si gettavano i
ponti militari. A mezzogiorno forse una intera divisione era sulla
riva sinistra. Incominciava l'avanzata su Monfalcone, che fu presa due
giorni dopo. Ma l'inondazione isolava questa mossa.
Fra le truppe che agivano nella zona di Monfalcone e quelle che agivano
nella zona di Gradisca si distendeva la calma di una immensa palude. Un
nuovo passaggio dell'Isonzo doveva operarsi indipendentemente, senza
appoggi sul fianco, ai piedi delle alture, di fronte alle posizioni
nemiche. Bisognava fare un ponte e dar battaglia nel medesimo tempo. Fu
il 9 di giugno, di fronte a Sagrado, che avvenne la prima traversata
del fiume. L'attacco premeva quel giorno su tutta la fronte per
inchiodare le riserve nemiche; si combatteva sul Podgora, si tentava il
primo traghetto di forze a Plava, si prendeva la Rocca di Monfalcone.

Le posizioni nemiche da Sagrado a Sdraussina sono bombardate; ma
gli austriaci, al sicuro dagli assalti sull'altra riva, lasciano le
posizioni battute per rioccuparle appena il cannone rallenta. Sagrado
si addossa alle falde del monte, si rannicchia fra le pendici e il
fiume, e da lontano il suo campanile pare come attaccato all'oscuro
sfondo del declivio. Avanti al paese, il vecchio ponte distrutto dal
nemico non è più che un cumulo di grandi macerie fra le quali l'acqua
s'agitava a vortici e cascatelle scrosciando e spumeggiando. Un poco
a monte di Sagrado, fra due rive folte di cespugli, il fiume forma un
isolotto oblungo, cinereo, fatto di sabbie chiare e cristalline e di
ghiaia. Questa località è scelta per il passaggio. Si considera più
facile gettare due piccoli punti fra l'isola e le rive che non un solo
grande ponte dove il corso del fiume è largo e unito. L'isolotto offre
come una tappa, una base intermedia, divide l'operazione e la facilita.
E poi la corrente è più calma in quel punto.
Tutto è pronto. Nell'ombra della sera la truppa destinata al primo
passaggio inoltra silenziosa da Gradisca e si cela nei cespugli della
riva. Il materiale per la costruzione si ammassa. Alle dieci e mezzo
i pontieri cominciano il lavoro. Nel medesimo tempo numerose barche
traghettano le avanguardie. L'isolotto si popola. Non si ode che un
risciacquìo sommesso di remi. Due battaglioni hanno lasciato la riva
destra. Delle barche tirate a secco e portate a braccia attraverso
l'isola sono varate sull'altro ramo del fiume. Si traghetta ora verso
la riva nemica. Le operazioni procedono rapide, ordinate, in una quiete
profonda.
Le prime truppe che sbarcano dall'altra parte avanzano verso Sagrado.
Un intero battaglione, una piccola parte del secondo, e dei drappelli
del genio, formano questa estrema avanguardia, che oltrepassa la
ferrovia e arditamente s'inerpica e si aggrappa alle pendici del
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