Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 16

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basso, fra delle rocce, qualche minuscolo rifugio si scopre, ma nessun
uomo, nessun movimento. Ogni vita è sepolta.
Al rovescio delle alture della riva destra, si passa vicino alle tracce
di vasti accampamenti; al posto di ogni tenda è rimasto sui prati un
quadrato di terra smossa contornato dalle pietre che tenevano fermi
i lembi della tela. I battaglioni innumerevoli che gremivano quelle
vallette sono scomparsi alla vista, avanzando, come per un incantesimo.
Arrivando in mezzo ad un esercito, nella zona delle battaglie, non
troviamo più che i segni delle sue soste, i funebri allineamenti degli
oscuri quadrati di terra smossa che fanno pensare a miriadi di tombe
nelle solitudini di un paese abbandonato. Un po' per tutto le granate
hanno aperti slabbrati crateri.
Un rombo di cannonate veniva ad intervalli dal nord, ora intenso,
ora stanco, con momenti di sosta e riprese furibonde. È a Plezzo che
si combatte ora, e forse dalle alture di Saga, dove un altro giorno
andremo, potremo spingere lo sguardo nella conca famosa che abbiamo
fatto nostra.


LA CONQUISTA DELLA CONCA DI PLEZZO.
_24 settembre._

Dall'alto della cresta di Colovrat avevamo sentito il cannoneggiare
di Plezzo. Veniva da settentrione e passava sulla calma momentanea
delle pendici del Monte Nero, come quegli echi remoti di tempesta
che arrivano da oltre l'orizzonte in certe giornate estive, serene e
ardenti.
Sulla piazza di Caporetto, che pare così vasta fra le casette ad
un solo piano, piccole e bianche, incappucciate da nordici tetti
scoscesi, abbiamo trovato quel movimento ordinato e denso di carreggi
che hanno le ultime tappe nella vicinanza d'una battaglia. Degli
ufficiali ci parlavano dell'azione in corso, mentre dalla strada di
Ternova vedevamo sbucare nel villaggio in lunga carovana un armento di
prigionieri austriaci, quasi tutti giovani, forti, ben vestiti, ben
calzati, col cappotto arrotolato a bandoliera, il gran berrettone di
croata memoria sulle teste rapate e biondastre, sereni, sorridenti,
con l'aria di chi è ben soddisfatto della sua sorte. Intorno a loro
cavalcavano carabinieri grigi, che facevano caracollare e sgropponare
i cavalli per tenere indietro la folla dei soldati accorsi a vedere,
una folla composta, contenta e senza rancori. Tutte queste cose ci
facevano presentire lo spettacolo grandioso di una battaglia nella
conca di Plezzo. Ma avvicinandoci alla chiusa di Saga, lungo la strada
che risale la valle dell'Isonzo verso Plezzo e verso Predil, entravamo
invece in una zona di silenzio.
La bufera ha le sue soste e la guerra i suoi riposi. Dopo giornate di
violento bombardamento, all'improvviso si fa la quiete, dei cannoni
giganteschi si spostano, altri si avvolgono in un mantello di tela
quasi per dormire nel loro nascondiglio, e gli eserciti avversari
rilasciano la stretta come due lottatori dopo uno sforzo, quando si
studiano e si palpeggiano preparando un nuovo scatto dei muscoli. Siamo
arrivati in vista di Plezzo durante una di queste sospensioni piene di
un senso indicibile di aspettativa e di minaccia.

Le fanterie sole mantenevano lungo trinceramenti invisibili un fuoco
di fucileria lento e irregolare, il tiro rado e sparpagliato che
scoppietta sempre sulla fronte d'un esercito anche se nessuno si muove.
Lo udivamo appena, a seconda del vento, mentre da lontano, inerpicati
sulle alture di Saga, rintracciavamo nel panorama le linee dell'azione,
tanto intricate e difficili al primo sguardo.
La conca di Plezzo è, per dir così, un convegno di valli in mezzo
ad una aspra, maestosa confusione di montagne dalle vette dirupate
e nude. Essa appare come un ondulato lago di verdure e di vita, con
un fosco bordo di selve, in un anfiteatro selvaggio di pendici e
di balze. Vedevamo la conca da ponente; ci affacciavamo su di essa
dalla soglia di una delle sue quattro porte. Sono infatti quattro
gole intorno. Quella dell'alto Isonzo a levante, quella del Predil al
nord-est, quella del basso Isonzo a ponente (allo sbocco della quale
noi eravamo), quella dello Slatenik al sud, risalente verso le cime
del Monte Nero. Fra una valle e l'altra, un massiccio montuoso, un
profilarsi formidabile di declivî scoscesi, fra i quali le valli pare
si restringano simili a fenditure tenebrose.
Ma ogni valle è una strada, e tante strade facevano della conca di
Plezzo un luogo di concentrazione e di distribuzione della forza
austriaca. Plezzo ci minacciava, costituiva per noi un pericolo,
era una delle basi preparate per l'invasione. Le strade austriache
del Fella e del Predil, quelle magnifiche vie che da Pontafel,
per Malborghetto, Tarvis e il passo del Predil, scendono a Plezzo
possentemente fortificate, allacciate alle grandi arterie del Gail e
della Drava, cingevano di una formidabile tenaglia il nostro estremo
saliente della frontiera. Battendo Malborghetto e battendo Plezzo noi
abbiamo spuntato le pinze della tenaglia, che s'impernia a Tarvis, e
contro la quale non avevamo potuto costruire nè strade nè forti.
Ora, tutta la conca di Plezzo è nostra.
Abbiamo già descritto l'inizio dell'investimento, il lento, metodico
restringersi di un semicerchio di conquista, dal Monte Nero alla Sella
Prevala. Fin dalla metà di giugno la nostra azione cominciò a tendersi
verso Plezzo, da cui salivano per il vallone dello Slatenik quasi tutti
i contrattacchi austriaci contro le nostre posizioni del Monte Nero; ma
è nell'ultimo mese che l'offensiva italiana ha assunto in questa zona
una energia risolutiva. Fu il 13 di agosto che la grossa artiglieria
cominciò a battere le opere nemiche nella conca.
Non si trattava ancora del bombardamento dei forti, che sono oltre
Plezzo, nella gola del Koritnica, sulla strada del Predil. Si tirava
sulle fortificazioni più recenti erette dal lavoro senza soste di
masse di prigionieri, moltitudini di schiavi, sulle pendici dello
Svinjak — che si erge a levante della conca, isolato fra la strada
del Predil e quella dell'alto Isonzo. È lo Svinjak per il nemico
il monte più sicuro; forma una specie di fortezza a cavallo dei due
sbocchi maggiori, una fortezza immane che avanza a sperone ed ha per
fossato l'Isonzo ed il Koritnica. Sui suoi due fianchi, al di qua dei
fiumi, questa fortezza naturale che resiste ancora formidabilmente,
ha come due sentinelle, due monti, lo Javorcek alla sua sinistra, il
Rombon alla sua destra, le cui alte vette fortificate costituiscono
due poderose posizioni di appoggio, alle quali il nemico si aggrampa
disperatamente.

Al di là della conca di Plezzo conquistata, noi fronteggiamo dunque
tre montagne. Il nostro attacco sale verso le cime di quelle laterali e
batte alle falde dell'altura centrale, che è un po' più indietro delle
altre. Leggendo i loro nomi sui bollettini, si abbia la visione di
questa triade imponente, del Rombon alla nostra sinistra, dello Svinjak
nel mezzo, dello Javorcek alla nostra destra, e il senso della lotta
apparirà nella piena evidenza.
Sopra un fronte di una diecina di chilometri abbiamo qui guerra
d'alta montagna e guerra di pianura, difficoltà di rocce e difficoltà
di acque, strade nuove tagliate nelle più aspre balze, ponti nuovi
lanciati sui fiumi veloci, truppe che scalano, truppe che guadano.
Al di là della piana di Plezzo, nella gran luce del limpido meriggio,
lo Svinjak ci mostrava la sua gran mole truce. Sembra creato per una
difesa a oltranza.
Attraversato il letto pietroso e largo del Koritnica, che gira ai
piedi del monte, le truppe assalitrici si trovano avanti ad un lungo
declivio dolce ed erboso. È il primo spalto, bisogna salirlo allo
scoperto, non v'è un albero, non v'è un sasso. Delle barriere di
reticolati lo percorrono. Improvvisamente esso si fa ripido, si denuda,
si scoscende in una specie di ripa, e la montagna sorge. Essa forma
un primo ripiano, sul bordo del quale si allinea tutto un giallastro
sommovimento di terra e di pietre che indica un trinceramento blindato,
il fuoco del quale spazza il declivio inferiore. Più indietro, sullo
stesso ripiano, altri solchi, altri scavi, tutto un colore di frana
recente formato dai detriti rigettati dal lavoro; sono linee successive
di difesa, appostamenti di piccole artiglierie, ridotti. Più in alto
comincia il bosco, che s'infoltisce nel ripiego dei canaloni, che veste
la montagna di una scura pelliccia, per diradare verso la cresta nelle
nudità della roccia. Questa selva nasconde delle caverne, e le caverne
nascondono dei cannoni. La vetta è l'osservatorio.
Appena sparato un colpo, gli artiglieri austriaci ritirano il pezzo
nella sua tana, e si nascondono con esso nel buio. Non si vede
niente, la foresta non ha squarci, sembra impenetrata, impassibile.
Un'osservazione attenta scopre alle volte la vampa. La risposta
allora arriva immediata, esatta, ma bisogna che la granata imbocchi
esattamente l'apertura di una grotta per far danni. Ciò è avvenuto; una
batteria austriaca nascosta in una caverna è stata colpita in pieno.
Ma quando si sente cercata l'artiglieria nemica tace. Le difficoltà di
un attacco frontale di simili posizioni appaiono immense. Gli austriaci
dimostrano un'abilità singolare a trarre vantaggio da tutte le risorse
del terreno. Hanno il genio del nascondiglio.
L'azione è perciò più attiva e più mossa ai fianchi, contro alle
due montagne laterali. Verso lo Javorcek l'offensiva è avanzata dal
Monte Nero. Essa si mosse risolutamente il 14 di agosto, puntando
lungo il vallone dello Slatenik, che gli austriaci avevano sbarrato
con trinceramenti. Il 15 una prima trincea venne espugnata e vi
furono presi trecento prigionieri. Il combattimento non sostò. Il
16, nuove trincee fra la cresta del Vrsic e una località detta Dol
Planina, sul versante occidentale delle propaggini del Monte Nero,
erano conquistate. Il nemico contrattaccò, fu respinto, e il 17 agosto
facevamo un altro passo avanti dalla cresta di Vrsic in direzione dello
Javorcek, ricacciando dopo viva lotta gli austriaci da un'estesa linea
di trincee. Intanto dei reparti alpini, scesi dalla Valle Resia, scesi
per la Sella Prevala dalla Valle Raccolana, appoggiati da forze che
salivano da Saga, incominciavano i primi movimenti per investire il
Rombon, il baluardo di sinistra.

Dal nostro punto di osservazione vedevamo il Rombon quasi sopra di
noi, brullo, severo, smisurato. Ci pareva di essere sopra una delle
sue stesse balze. Solleva la sua vetta oltre i 2200 metri in un pallore
di altitudine. È scosceso, ampio, triste. Qualche piccola nube molle e
rosata si formava intorno alla sua cima, poi lentamente si sfrangiava,
si spostava, mutevole, leggera, trascinata via dal vento a fondersi
nella profondità azzurra del sereno. Quando quel velo si dissipava,
noi potevamo scorgere proprio sotto alla sommità le nostre trincee, una
linea vaga, lontana, minuscola, sbiadita.
L'attacco del Rombon cominciò il 28 agosto. Quel giorno, sulle ripide
balze meridionali del monte, furono conquistate le prime trincee
nemiche, e una piccola carovana di prigionieri scendeva alla sera per i
dirupi verso Saga. Altri reparti da montagna, che venivano da ponente,
tentavano l'assalto della vetta nell'alba del 27. Disposte in più
ordini, fortissime trincee austriache coprivano il cucuzzolo roccioso
del monte. La lotta fu accanita, qualche trincea fu presa, ma il
nemico rimase padrone dell'estrema punta. Intorno ad essa si stabilì un
fantastico assedio, che ancora dura.
I combattimenti sulla gelida cima del Rombon non somigliano a
nessun altro, hanno aspetti favolosi. Gli ufficiali che nel mattino
del 27 osservavano da Saga l'attacco, hanno scorto più volte come
uno scendere di frane, un piombare vertiginoso di massi lungo le
pendici scoscese. Non erano mine che scoppiavano, non erano granate
che spezzavano la roccia. Erano blocchi lanciati sull'assalto. Gli
austriaci avevano preparato un'arma primordiale e terribile. Avevano
disposto orizzontalmente sul pendìo delle travi, tenute da corde alle
estremità, e appoggiate alle travi avevano ammassate enormi pietre.
Quando vedevano che il fuoco dei fucili e il lancio delle granate a
mano non fermava la furia dell'attacco, lasciavano andare una delle
corde, la trave cadeva, e tutto l'ammassamento delle pietre, mancando
il sostegno, precipitava tumultuosamente, rotolava lungo la costa
rombando, rimbalzava. Era un contrattacco di macigni.
I nostri, sorpresi ma non sgomentati, non hanno ceduto terreno, non
si sono ritirati. Nella loro pratica della montagna hanno subito
trovato la tattica necessaria a questa guerra da uomini delle caverne.
Sanno come ci si salva dalle pietre che si staccano nei canaloni
durante i disgeli. Tutto quello che cade segue le linee di massima
pendenza; i nostri soldati hanno cominciato ad attaccarsi ai costoni,
alle sporgenze, alle balze, formandovi dei ripari. Poi hanno creato
sbarramenti, difese, ed hanno allargato a poco a poco il loro fronte
di attacco. Intorno all'estrema vetta tendono a formare un cerchio
d'investimento. Non potendo assalire ancora, vogliono chiudere il
nemico. È l'assedio di una roccia.
Ai difensori non rimane più che una strada aperta. È un sentieruolo
verso levante, verso la valle del Predil. Non si lotta quasi, più che
per quello. I nostri lo occupano, e il cannone nemico lo riapre. È
difficile tenervisi sotto al fuoco di una quantità di batterie d'ogni
calibro. Anche di notte, anche con la nebbia, al minimo allarme, una
tempesta di granate arriva su quel punto. L'artiglieria nemica non può
più battere gli altri lati della montagna perchè, mentre si operava
contro il Rombon e contro lo Javorcek, una vigorosa avanzata centrale
aveva conquistato tutta la conca di Plezzo, arrivando a bloccare gli
sbocchi del Predil, dell'alto Isonzo e dello Slatenik, e paralizzando
così ogni movimento nemico. Le artiglierie austriache avevano
perciò un campo di tiro assai più limitato, ma bastavano a sostenere
energicamente la difesa. Era contro di esse che bisognava agire. Una
nuova fase delle operazioni nella zona di Plezzo si iniziava con un
bombardamento di grossi calibri.

Cominciò il primo giorno di settembre. Parlando dei cannoni colossali
che abbiamo visto oltre questi monti, percorrendo certe estreme
diramazioni orientali delle Alpi Carniche, di quei cannoni che avevano
annientato il forte Hensel a Malborghetto, dicemmo che essi stavano per
avere un nuovo còmpito. Il loro nuovo còmpito era la distruzione dei
forti di Plezzo. Allora si preparavano. Si spostavano misteriosamente
verso appostamenti segreti, in mezzo ad una attività che riempiva di
movimento e di vita selvagge vallate. Ognuno di quei mostri, come
un sovrano antico, viaggia con una corte numerosa, fra cavalcate e
convogli, in lunghi corteggi che nereggiano su chilometri e chilometri
di strada e che dilagano in vasti accampamenti. Da altre parti, per
diverse vie, altri cannoni giganti, trascinati da possenti motrici,
andavano con solenne lentezza allo stesso convegno. Si rafforzavano
ponti per il loro passaggio, e dove i ponti non avrebbero resistito al
peso delle loro masse di acciaio, si aprivano in poche ore sorprendenti
strade di guerra attraverso brughiere e letti di torrenti perchè i
giganti potessero passare a guado.
La prima grande granata scoppiò nella gola del forte Hermann, il quale
si rintana nella valle del Predil poco sopra allo sbocco. La seconda
granata colpì l'opera in pieno. Al quinto colpo il forte cominciò a
prendere un aspetto di rovina, a sformarsi in un rovesciamento di massi
e di terra. In quello stesso giorno una delle sue cupole di acciaio,
colpita, si rovesciava come una campana.
Ora il forte Hermann non esiste quasi più. Ma quelle sue artiglierie
che non erano nelle cupole, sono state portate fuori, e tirano ogni
tanto da appostamenti preparati dietro ai ripieghi della valle. Sparano
qualche colpo, spariscono, non osano rimanere un giorno nello stesso
punto, sempre cercate, sempre inseguite, sempre scacciate dal nostro
fuoco.
Persuasi che la perdita di Plezzo era definitiva, gli austriaci
hanno cominciato a tirare delle granate incendiarie sull'abitato.
È il loro sistema. Quando non possono più tenere, distruggono. Le
granate incendiarie sono il segno di una speranza perduta. La piccola
città muore, casa per casa, sempre un po' più ogni giorno. Le fiamme
si levano ora qua, ora là, e nessuno può spegnerle. Da tempo la
popolazione è fuggita, e Plezzo agonizza in una sinistra solitudine.
Ci apparivano al di sopra di grandi ciuffi d'albero le sue case senza
tetto, alcune coronate da un nero scheletro di travature; vedevamo
delle muraglie diroccate e il campanile bianco e mozzo. Su quel
campanile, quando Plezzo, alla fine d'agosto, non era ancora occupata
dai nostri, osò salire un nostro osservatore.
Il paese si distende sopra una lieve e pittoresca collinetta; noi
eravamo arrivati quasi a ridosso della piccola altura, che dalla parte
nostra scende a scarpata, formando come un gradino scosceso e brullo, e
avevamo bisogno di spingere lo sguardo avanti, di esaminare da vicino
le difese austriache sull'altro versante della conca. Il campanile,
alto, dominante, quasi nel centro della vallata, offriva un posto di
osservazione meraviglioso. Ma era in pieno territorio nemico. Un ardito
ufficiale partì in esplorazione.
Pare un episodio delle vecchie guerre. L'ufficiale era di cavalleria,
innamorato della sua arma. Pensò che la rapidità può valere in certi
casi più della invisibilità, e partì a cavallo, attraverso dei vigneti
e dei frutteti, seguito dalla sua fedele ordinanza. Trovò Plezzo
già quasi abbandonata dalla popolazione; lo scalpitìo degli zoccoli
risuonava fra case deserte. Ad ogni angolo di strada, l'ufficiale
rallentava il passo e si sporgeva sul collo del cavallo, per scrutare
avanti. Niente, una via dopo l'altra si aprivano vuote e silenziose.
Giunse sulla piazza, affidò le cavalcature al soldato e si diresse
alla chiesa. Una specie di sacrestano, spaurito, gli aprì la porta del
campanile.
Erano le prime ore di una mattinata purissima. Dalla cella delle
campane, alla quale salì per vecchie scalette di legno, si vedevano i
trinceramenti austriaci, così vicini e netti che pareva si potessero
toccare stendendo il braccio. Il binocolo in una mano, un lapis
nell'altra, l'ufficiale guardava e scriveva. Tracciava sulla carta
topografica appunti e segni. Scorgeva le posizioni dello Svinjak,
scorgeva le posizioni dello Javorcek, spingeva le sue ricerche nel cavo
delle valli intermedie, calcolava, telemetrava, senza accorgersi dello
scorrere del tempo. Intanto degli austriaci entravano in perlustrazione
a Plezzo.
Una pattuglia nemica, arrivata dalla parte di Koritnica, percorreva
tranquillamente la via principale, senza preoccupazioni, con la
serenità di chi si sente sicuro in casa sua. Improvvisamente, ad uno
svolto udirono vicinissimo il trotto di due cavalli. Era l'ufficiale
italiano e la sua ordinanza che tornavano al campo. Gli austriaci
non ebbero il tempo di pensare, fu un attimo, i cavalieri sboccavano
sulla via, erano ad un passo da loro. L'ufficiale tirò sulle redini,
squadrando quegli uomini con l'occhio feroce dei momenti critici, il
cavallo ebbe un movimento d'impennata. Gli austriaci, sbalorditi, si
attaccarono al muro, senza osare un gesto. E sotto a quello sguardo,
istintivamente, portarono la mano alla visiera, salutando....
Immaginavano forse un seguito di truppa nella strada attigua, e si
sentivano perduti. L'ufficiale passò, l'ordinanza passò. Appena
passati si curvarono sulle selle, speronando; impetuosamente i
cavalli balzarono al galoppo. Era tempo. Dietro a loro la fucileria
si svegliava; stormi di pallottole rimbalzavano sibilando intorno. Gli
austriaci, riavutisi dalla sorpresa, sparavano freneticamente. Ma per
fortuna inutilmente. La straordinaria missione era compiuta.
Il nemico ha tentato più volte di liberare i suoi fianchi dalla stretta
che lo attanaglia. Per spezzare il nostro investimento del Rombon e
dello Javorcek ha replicatamente lanciato degli attacchi. Presentendo
forse il bombardamento imminente, poche ore prima che le nostre grosse
artiglierie iniziassero il fuoco contro ai forti, nella notte del
31 agosto, delle forze austriache salivano da levante le pendici del
Rombon, precedute da un intenso cannoneggiamento allo scopo di aggirare
le nostre posizioni. Fu un combattimento breve ma vivace. Respinti da
lì, due giorni dopo si volgevano contro le nostre posizioni alle spalle
dello Javorcek, nel vallone dello Slatenik. Si è tanto lottato in
quella gola che essa appare alla fantasia come un canale di battaglia.
Furono ancora ricacciati. Nello stesso giorno, essi lanciarono alla
deriva nell'Isonzo qualche mina galleggiante. Avevano sentore di
movimenti nostri, e speravano di potere far saltare dei ponti. La mina
fu pescata.

Intorno a Plezzo la lotta si andava facendo più viva, nuove forze
italiane premevano da ogni parte, e la preparazione delle artiglierie
si faceva di giorno in giorno più energica. Si presentiva l'azione
vasta di questa ultima settimana. Dopo l'attacco del 31 agosto,
dei drappelli nemici si erano rintanati qua e là nelle pendici del
Rombon, erano rimasti celati in nascondigli del monte, tendevano
a fare infiltrazione, creavano dei minuscoli punti di appoggio per
futuri tentativi di attacco. Il 5 settembre la montagna fu spazzata.
I drappelli furono scovati, assaliti, messi in fuga, si penetrarono i
loro nascondigli già pieni di armi, di munizioni, di viveri.
Per provocare una diversione, il giorno dopo delle forze rilevanti
austriache salite da Tolmino attaccavano le nostre posizioni sotto alla
vetta del Mrzli. Si voleva stornare l'azione da Plezzo riaccendendola
sulle propaggini meridionali del Monte Nero. Era una cinerea giornata
di nebbia lassù. Abbiamo descritto quelle posizioni come si vedono
dalle alture di Colovrat. Sulla cima del Mrzli, pianeggiante, una
formidabile trincea austriaca, il cui reticolato è intessuto intorno
ai tronchi bruciacchiati di un lembo di foresta che il cannone ha
distrutto: un poco più sotto, a poche decine di metri, il bosco
rinverdisce e rinfoltisce, e lì, fra gli alberi, i nostri. L'attacco
nemico è stato respinto, senza vederlo, nella nebbia densa.
Gli austriaci richiamavano rinforzi verso Plezzo. Un urto di masse
era imminente. Dai nostri osservatorî più alti si potevano scorgere
colonne di truppe e di carreggi che scendevano dal Predil. La nostra
grossa artiglieria, l'8 settembre, arrivava a fermare e disperdere due
di questi ammassamenti in marcia. Nella notte del 10 il nemico tentava
un ultimo attacco per liberare la sua sinistra, dove noi avevamo
cominciato a stabilirci sulle balze dello Javorcek. È ancora nel
vallone dello Slatenik che si combatte. I nostri ripetono la tattica
usata contro il battaglione ungherese sulla testata della stessa gola.
Aspettano l'assalto in silenzio, lo lasciano avvicinare senza tirare
un colpo. Del resto, l'oscurità profonda renderebbe inefficace il tiro;
non è a fucilate che l'assalto viene respinto. È a baionettate. Quando
il nemico è a pochi passi dalle trincee, i nostri si precipitano alla
mischia, lo scompigliano, lo disperdono. Al mattino dopo la battaglia
divampava furibonda e vasta su tutto il bordo orientale della conca di
Plezzo. Il nostro attacco in forze, lentamente preparato, si scatenava.
Più di sessanta cannoni tuonavano su quel ristretto fronte, e le
nostre magnifiche fanterie si impegnavano sullo spalto erboso dello
Svinjak, fra i boschi dello Javorcek, fra le rocce del Rombon, in un
maestoso semicerchio di furore. Alla sera le prime nostre trincee di
attacco avvicinavano i reticolati delle posizioni centrali. Proiettori
e razzi illuminanti inondavano la vallata di splendori soprannaturali,
e in vividi chiarori meteorici la battaglia proseguiva, terribile,
fantastica. Per tutto era un divampare di esplosioni, un lampeggio di
colpi, e il frastuono formava un solo, continuo boato. Si scorgevamo
talvolta degli strani, lunghi serpeggiamenti di luce azzurrastra come
uno strisciare, uno snodarsi di favolosi fuochi fatui: erano getti di
liquido infiammabile. Non vi sono mezzi sleali ed atroci di guerra
che il nemico non tenti. Certi reparti nostri dovevano combattere
con la maschera contro i gas asfissianti che delle granate a mano
sprigionavano.

Durante la notte dei reticolati erano stati distrutti; l'assalto era
penetrato qua e là nelle linee più interne; delle posizioni nemiche
erano conquistate. Ma dopo aver lottato per prendere, bisognava lottare
per conservare. Spesso anzi è più difficile mantenere una posizione che
espugnarla. Dopo ogni fase di attacco vi è una fase di consolidamento.
Bisogna resistere a tempeste di granate, e scavare, erigere, lavorare
difendendosi, crearsi le protezioni, le blindature, i refugi, lasciare
ogni tanto il piccone per la baionetta. In tali soste il valore del
soldato è più provato forse che nell'assalto. Occorre un valore freddo,
calcolatore, intelligente.
Alcuni giorni sono trascorsi in queste lotte di resistenza, durante le
quali l'artiglieria infuria, perchè è lei che sorregge, che protegge,
che attacca, che predomina.
Degli aeroplani nemici volavano per la prima volta sulla conca
di Plezzo in una affannosa ricerca di batterie. Il consolidamento
delle posizioni conquistate era completo il giorno 14, e una prima
calma si fece. All'alba del 17 settembre la battaglia ha ripreso, in
tutto il settore, ed è contro lo Javorcek, nella boscaglia, che il
nostro attacco si spinge con maggiore violenza. Dei reticolati sono
spezzati, l'assalto si slancia, due _blockhouses_, cioè due ridotte
blindate, vengono distrutte con tubi esplosivi, dei trinceramenti
sono conquistati alla baionetta. Agli sbocchi delle valli la nostra
occupazione si consolida, la conca di Plezzo si chiude definitivamente
al nemico. Due ufficiali austriaci e una cinquantina di soldati
prigionieri, scampati agli assalti sulle pendici dello Javorcek,
scendono alla sera del 17 verso Saga.
Sono quei prigionieri che abbiamo visto passare a Caporetto, scortati
dai carabinieri, fra due siepi di soldati curiosi e silenti.
Non riuscivamo, contemplando la valle, immaginarvi il tumulto che la
riempiva poche ore prima, e che forse tornerà a sollevarsi fra poco. Un
solo cannone sparava. Era uno dei giganti. Ogni quattro, cinque minuti
il suo boato percuoteva le montagne e si spezzava in mille rimbombi.
Vedevamo il fumo diafano e azzurro del colpo, in un folto d'alberi;
non potevamo scorgere dove battesse. Persisteva, regolare, ostinato,
come aspettando una risposta al suo possente ruggito. Non rispondevano
che gli echi, nella vallata calma, piena di quel pauroso senso di
solitudine e di stupefazione che pesa sui campi di battaglia quando la
lotta è sospesa.
Scendeva la sera, quietamente, e la prima oscurità saliva dal basso,
come una marea d'ombra. La notte sorgeva dalle profondità, mentre sulle
vette ardeva l'ultimo fuoco del tramonto. Lo Svinjak silenzioso, con
il suo nero bosco pieno di cannoni, di fronte a noi, si faceva livido,
truce, prendeva una non so quale espressione sinistra, si velava di un
colore di tempesta nel crepuscolo. E il cannone continuava a lanciare
ad intervalli la sua tuonante formidabile interrogazione.


NELL'ALTA VALLE DELL'ISONZO.
LE FASI DELLA GUERRA INTORNO A TOLMINO.
_27 settembre._

A metà della sua corsa fra i monti, l'Isonzo fa come una sosta. Trova
un paesaggio ridente di colline, tutte verdi di boschi e di prati,
inoltra in una pianura tappezzata da un variopinto splendore di campi
coltivati, e il fiume, che arriva violento per la sua corsa in gole
selvagge, rallenta la foga delle sue acque, si allarga in un gran letto
biancheggiante di ghiaia, riposa, gira, serpeggia, quasi per indugiare
in larghe volute azzurre prima di lasciarsi riafferrare dall'ombra di
altre vallate anguste e profonde, nelle quali riprenderà il suo impeto.
Questa bella regione è la zona di Tolmino.
Dopo aver percorso tante zone montuose della guerra, cominciavamo a
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