Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 13

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Ma il giorno dopo il nemico volle tentare una rivincita, e con batterie
di medio calibro, piazzate durante la notte nei pressi di Malborghetto,
aprì il fuoco sulla Forcella. Lanciava granate mine e bombe di gas
asfissiante. Continuò il primo agosto a bombardare, senza avvicinare
truppe per l'assalto. Voleva forse soltanto impedire i lavori di
rafforzamento. Poi si rassegnò e tacque.
Non completamente però. Tutti i giorni cannoneggiava un poco. Di tanto
in tanto la Val Dogna è percossa dai rimbombi dei colpi austriaci.
Si vedono delle granate scoppiare fra le rocce, sulle quali lasciano
un segno di scheggiatura fresca, e il fumo viaggia, portato dal
vento, sugli accampamenti aggrampati al rovescio delle balze. Qualche
colpo mal diretto passa sulle creste e arriva nel fondo del vallone.
L'ululato del proiettile allora si prolunga curiosamente, per gli echi
forse, dopo il boato dello scoppio.
I nostri soldati, sistemata la posizione della Forcella, l'hanno anche
ingegnosamente adornata. Come per una sfida, per ergere di fronte allo
straniero un simbolo d'italianità, essi hanno costruito proprio sulle
trincee un campaniletto veneto, che ha un vaso di _shrapnell_ per
campana. Manda un suono da campanaccio da armento, un suono di pace.
Più in basso, al coperto, dove comincia il bosco e si annida fra
i macigni il primo posto di medicazione, i soldati hanno eretto
un baldacchino alto: quattro tronchi per colonne, una cuspide di
fronde, una croce sulla punta. Una grossa pietra rozzamente spianata
biancheggia sotto al baldacchino, al quale si sale per una specie di
grandiosa scalea di rocce. È l'altare. Alla domenica il cappellano
vi dice la messa; in giro sui dirupi e fra gli alberi si accalca la
soldatesca immobile, silenziosa e grave; il cannone romba lontano,
e in alto, sulle trincee, lo _shrapnell_ tintinna sul suo minuscolo
campanile.

Gli austriaci non avevano preveduto la possibilità di portare delle
artiglierie pesanti sulle balze della Val Dogna. Non immaginavano
che la montagna potesse in poche settimane venir solcata, tagliata
e ascesa da strade ruotabili di una fantastica arditezza. Vi erano
solo dei sentieri da cacciatori e da contrabbandieri. Nei primi tempi
della guerra ogni carovana, ogni salmeria che s'inerpicava sulla
valle perdeva qualche mulo. Il terreno si sfaldava, lembi di sentiero
franavano, e le più solide bestie da soma spesso scivolavano nei passi
angusti e scoscesi, perdevano piede, si dibattevano per un istante
annaspando convulse con gli zoccoli, ogni muscolo teso e fremente in un
muto terrore, e precipitavano nel burrone, le zampe in aria, in mezzo
ad una valanga di terriccio e di sassi. Ora l'automobile sale le stesse
pendici.
La strada pare che assalti le balze; passa da una all'altra con quel
serpeggiamento ascendente, serrato e folle che hanno certi razzi.
Va su, va su, tagliata nel macigno; s'inerpica su delle vere pareti;
sembra da lontano, in certi punti, un zig-zag tracciato sopra un muro
gigantesco. Non ha parapetti ancora, è larga poco più della vettura,
sovente le ruote lasciano cautamente il loro solco lieve ad un palmo
dall'abisso. Sporgendosi si scorge il biancheggiare lucente e vivo
dell'acqua che scorre precipitosa giù nel fondo, nell'ombra, fra
macigni lavati e chiari intorno ai quali essa mette effervescenti
collari di spuma. Le volute percorse pochi momenti prima salendo, sono
sotto, a picco, già lontane nella profondità. Più avanti o più indietro
la strada sembra sempre troppo angusta per potervi passare, e si ha
l'impressione di doversi sentir slanciare da un momento all'altro nel
vuoto. Ad ogni giro essa manca allo sguardo, sparisce, non è più che un
taglio, una soglia oltre la quale non c'è più niente.
Strade mirabili, strade prodigiose aperte dalla guerra! Hanno nel loro
tracciato stesso una violenza e un impeto, come un segno di volontà
ferma, la volontà di passare, la decisione di non conoscere ostacoli.
Sono comparse ovunque, come per incanto, ad ogni altitudine, attraverso
regioni impenetrabili ancora chiuse al traffico umano come all'inizio
dei tempi. Solide, incancellabili, queste arterie della nostra forza
scavalcano ponti di pietra, si appoggiano a muraglie massicce, e
sul sasso appena tagliato si vedono scolpiti simboli di armi, frasi
lapidarie di ricordo, date, numeri di reggimenti, che narreranno al
più lontano avvenire questa magnifica storia che noi viviamo, come
quei cippi che ai margini delle strade romane le legioni creatrici
piantavano.
Davanti a queste opere gigantesche che sorgono da una settimana
all'altra, ci si ricorda stupiti che un male dell'Italia è la
deficienza di strade, che delle belle province nostre si spopolano,
che delle ubertose regioni nostre agonizzano, perchè isolate dal mondo.
Cinquanta anni di pace non hanno dato alla Calabria, alla Basilicata,
alla Sicilia, le strade che un mese di guerra apre nelle più impervie
regioni del mondo. Ci accorgiamo ora di quello che la disciplina può
fare di noi. Avevamo bisogno di un'unione e di un comando.
Le nuove strade ci permettono uno spostamento di grosse artiglierie,
quale gli austriaci si erano da molti anni assicurato con una viabilità
aggressiva che arretrava tutte le nostre frontiere. I cannoni più
potenti, che parevano destinati a non muoversi dai forti, ora viaggiano
per tutto, trainati da motori, in lunghi e lenti convogli di carrocci
pesanti al passaggio dei quali il suolo freme. È come se le fortezze
avessero sciolto le righe e manovrassero. Il duello delle artiglierie
pesanti, qui come sull'altipiano di Asiago, ha preso una mobilità
maestosa. Cessato su Malborghetto riprende altrove, su nuove posizioni,
si sposta, gira.

Abbiamo fatto un rapido e largo giro per le valli del Dogna e del
Raccolana, che si somigliano un poco, parallele e brevi, egualmente
dirupate e truci alle testate, piene di una agreste poesia
agl'imbocchi, dove s'ingentiliscono, verdi di prati, disseminate di
piccoli villaggi alpestri che seguitano a vivere la loro antica vita
eguale sotto al rombo delle artiglierie, e verso i quali alla sera
ascendono in fila per sentieri erbosi robuste contadine, curve sotto
alla gerla colma di fieno odoroso, rosse e sorridenti.
A Chiusaforte una folla di soldati si serrava intorno a qualche cosa,
riempiva la strada, altri accorrevano su dai baraccamenti e dai parchi,
delle grida, delle risa, un pigia pigia, un sollevarsi dei più lontani
sulle punte dei piedi, un'agitazione di berretti grigi.
«Che c'è?» — chiedevano gli ultimi arrivati. «Dei prigionieri!»
— «Cantano!» — «Quanti? quanti?» — «Da dove vengono?» — «E chi li
capisce?».... Degli ufficiali sono sopraggiunti: «Indietro, via! Volete
andarvene?» — hanno comandato. I soldati si sono dispersi come delle
formiche fra le quali sia caduto un fiammifero acceso. E allora si sono
visti nello spazio vuoto due strani tipi, stracciati, vestiti di una
tunica irriconoscibile, una specie di camiciotto di tela sporca, con
dei grossi stivali deformati, impolverati e rotti, la testa coperta da
un largo berretto a piatto con la fascia rossastra.
Giovanissimi, imberbi quasi, magri, pallidi, macilenti, uno basso,
uno alto, con delle grosse mani scarnite che si muovevano in gesti
disordinati. La loro faccia esotica, dagli zigomi sporgenti e gli
occhi asiatici, era tagliata dal largo sorriso di una felicità piena,
il quale scopriva dei grandi denti bianchi. Erano russi fuggiti alla
prigionia austriaca.
Costretti a fare trincee contro di noi, erano riusciti a separarsi dai
loro compagni, e marciando di notte, nascondendosi al giorno, mangiando
non si sa come, vivendo così per una settimana una vita da bestie
cacciate, erano arrivati ai nostri avamposti.
Ogni tanto li prendeva un impeto di allegrezza, li sollevava un'onda di
gioia; agitando i berretti urlavano: «Viva Italia! Viva, viva, viva!»
— e i loro poveri grossi piedi stanchi accennavano pesantemente a passi
di danza, una di quelle danze slave che si snodano intorno al fuoco dei
bivacchi cosacchi, accompagnate da gridi acuti e da un battere ritmico
di palme. Poi cantavano qualche strofa d'un loro canto sostenuto
e melanconico come un salmo, che scandivano con movimenti di tutto
il loro corpo magro e sofferente. Parevano ebbri. I nostri soldati,
scostatisi, dopo aver riso al principio si erano fatti gravi.
Quando hanno visto gli ufficiali, i due russi si sono avanzati verso
di loro, e chini, messo un ginocchio a terra hanno afferrato a forza
le loro mani per baciarle, con quel gesto di profonda devozione del
_mugik_ che bacia l'icone.
L'ultima tappa li aveva avvicinati alla loro grande patria, così remota
e pallida.


DOVE IL COMBATTIMENTO NON HA SOSTE.
IL PASSO DI MONTECROCE.
_18 settembre._

Prima di salire sulle posizioni, l'ufficiale che ci conduceva ha preso
la parola.
Con frasi chiare, pacate, brevi, come se parlasse delle cose più
naturali e semplici della terra, ha narrato lo svolgimento dell'azione
su quel settore del fronte, una storia magnifica di lotte incessanti,
di assalti e contrassalti senza fine fra vette quasi inaccessibili, una
storia di accanimenti e di furori. Stavamo per ascendere alla linea di
trincee del Pal Grande, del Freikofel, del Pal Piccolo, nelle quali il
combattimento non ha soste.
Quale indimenticabile lezione di tattica!
Eravamo in fondo alla valle di Montecroce in una di quelle mattine
fresche e purissime che mettono nell'aria luminosa qualche cosa di
inebbriante. Il Pizzo di Timau ci sovrastava con i suoi arditi castelli
basaltici, che lanciavano l'impeto delle loro torri grige verso
l'indefinito della distanza, nell'azzurro del cielo, a un chilometro e
mezzo sulle nostre teste. Dalle loro basi, fino al fondo della valle,
un digradare di macigni precipitati, vario e come pieno ancora del
tumulto dei crolli. Dall'altra parte della valle, le spalle boscose
del Monte di Tierz, la cui cresta terrosa e fulva conserva lembi di
prato che l'autunno dissecca. Fra il declivio dirupato e nudo del Timau
e la costa selvosa del Tierz, come fra due quinte, tutto uno sfondo
di imponenti vette rocciose: il Pizzo Collina, il Monte Cogliàns,
lo Zellonkofel più vicino, una maestà di masse scoscese e chiare,
rigate qua e là da un candore di nevi. Mentre l'ufficiale parlava, le
montagne si rimandavano l'una all'altra echi fragorosi e senza fine di
cannonate.
La cima del Tierz si coronava di nubi bianche e nembi di terriccio, ed
udivamo passare sul Timau un canto profondo e fuggitivo di granate in
viaggio. Lunghi rimbombi di esplosioni scendevano per la valle, nella
quale vedevamo sorgere e dileguarsi cirri di fumo.
Il cannone faceva un formidabile commento alle parole dell'ufficiale —
uno degli eroi del Freikofel, promosso per merito di guerra e proposto
per tre medaglie al valore — le illuminava di verità precisa, delineava
l'immagine esatta dei fatti. Noi le vedevamo le nostre meravigliose
truppe sotto a bombardamenti di giorni e di settimane, impavide, pronte
all'attacco: l'artiglieria spiegava.
Un soffio di terrore pareva avesse spazzato la valle. Eravamo adunati
presso ad una vecchia chiesuola solitaria, e vedevamo poco lontano
le case del villaggio di Timau, vuote, chiuse, silenziose. Poco dopo
il paesello di Muse incomincia la zona del fuoco e la vita normale
agonizza. Più oltre, sulla strada polverosa non si scorge che qualche
portatrice frettolosa, con una gran gerla sulle spalle curve; ancora
qualche capraia sui prati, immobile presso al suo piccolo armento, e
poi niente altro che soldati, e muli in lenta sequela, salmerie che
salgono verso quella tempesta che romba. Erano le otto del mattino
quando ci siamo incamminati anche noi, in lunga processione.
Il Pal Piccolo, il Freikofel, il Pal Grande, sono vette in fila di una
stessa catena lungo la quale passa la frontiera, diretta da oriente ad
occidente. Questa catena si allunga fra due valloni, per un gran tratto
paralleli: quello dell'Anger al nord, in terra austriaca, e quello di
Montecroce al sud, in terra italiana. Due allineamenti di montagne
assai più alte formano gli altri opposti versanti dei due valloni.
Insomma, per avere una visione chiara del terreno, necessaria alla
visione chiara dei fatti, bisogna immaginare, uno di fronte all'altro
— uno sulla nostra terra e uno sulla terra austriaca — due maestosi
schieramenti di monti, due grandi spalti le cui creste ondulate e
prative, che passano i duemila metri, si guardano da sette od otto
chilometri di distanza, e fra loro, più in basso, la catena rocciosa
del Pal Piccolo, del Freikofel e del Pal Grande, la quale finisce per
attaccarsi al Pizzo di Timau.
Queste alture famose, con i loro cocuzzoli nudi, frastagliati,
precipitosi, messi in rango, sorretti e legati da balze tormentate e
scoscese, formano una strana convulsione di pietra in mezzo ad un calmo
e solenne anfiteatro di montagne verdi: le montagne di Tierz, di Cimon,
di Crostis, dalla parte nostra; quelle di Köderhohe, di Lancheck, di
Polenick (la sola che si culmini in una dirupata nudità pietrosa),
dalla parte austriaca.
Avevamo già contemplato la truce regione del Freikofel dall'alto del
Crostis, durante una delle ultime escursioni. Avevamo visto sotto a
noi una confusione di giganteschi macigni, variegata di sterpi, e solo
dopo una lunga osservazione ci era stato possibile individuare le cime,
distinguerle l'una dall'altra, e sorprendervi a poco a poco la nascosta
vita della guerra. Gl'incamminamenti coperti, le paurose scalinate
scavate nel sasso entro l'ombra di canaloni, i rifugi arrampicati
miracolosamente nei greti, i baraccamenti annidati ai piedi delle
pareti rocciose, e qua e là le trincee, tutto minuscolo, strano, fatto
di solchi, di celle, di tane, fra sparpagliamenti di tronchi trascinati
lassù, simili a festuche di paglia, pareva dovuto ad un lavoro
d'insetti infaticabili e industriosi. Il cannone taceva, e nel silenzio
freddo delle vette risuonavano continuamente dei colpi di fucile, cupi,
lunghi, con quel rumore caratteristico delle tavole gettate a terra, un
rimbombo da legname scaricato.
La lotta si accanisce in questa aspra regione perchè c'è il Passo
di Montecroce. La valle austriaca dell'Anger e quella italiana di
Montecroce sono in comunicazione. La catena rocciosa del Freikofel
ha un taglio profondo nel quale una buona strada si snoda. Per questa
strada si può scendere dal Gail al Tagliamento. Padroni del Passo di
Montecroce, gli austriaci potrebbero premere verso gli sbocchi che
conducono, per le valli del But, del Degano e del Tagliamento, alle
retrovie del nostro esercito operante sull'Isonzo. Non andrebbero
lontani, ma farebbero sentire una pesante minaccia sul nostro fianco.
Per aprirsi la via di Montecroce non hanno risparmiato sforzi. Avevano
preparato numerose strade militari, avevano creato nella zona del Passo
un vero campo trincerato, e fin dall'inizio della guerra, concentrate
truppe e artiglierie in quantità preponderanti, hanno tentato di
forzare il varco. L'azione su questo settore ha avuto tre periodi
distinti: offensiva austriaca e resistenza nostra; controffensiva
italiana e conquista delle vette; equilibrio. Noi non vogliamo
avanzare, siamo sulla frontiera naturale, non reclamiamo terre al
di là, e non vogliamo disperdere energie in obbiettivi strategici di
secondario valore.
Ma la lotta non si acquieta. Gli austriaci tornano e ritornano
all'attacco, tentano e ritentano, costone per costone, vetta per vetta,
cercano di smuovere la stupenda barriera di eroismo contro la quale
ogni assalto si sfascia e si abbatte nel sangue. Alle volte lasciano
trascorrere qualche settimana nell'inerzia, poi, impetuosamente,
sferrano un colpo di sorpresa. Sperano di trovarci indeboliti,
immaginano forse che, ingannati dalla quiete d'una falsa rinuncia, i
difensori abbiano assottigliato le loro schiere.
La nostra difensiva non va intesa come una immobilità. La nostra azione
svolge spesso una offensiva tattica, sospinge, assalta, sorprende,
striscia, strappa al nemico ora una trincea, ora un ridotto, migliora
le posizioni, si abbarbica, approfondisce le radici della resistenza.
Le fanterie nemiche sono a quaranta o cinquanta metri l'una dall'altra.
Gli avamposti sono a quindici metri. Quando gli austriaci bombardano,
spesso debbono fare arretrare la loro fanteria nella seconda linea di
trincee per non colpirla.

Il Passo, una spaccatura piena d'ombra, folta di abeti, sta fra due
cime massicce e rocciose, due immani pilastri: quello a sinistra è
lo Zellonkofel, quello a destra è il Pal Piccolo. A destra del Pal
Piccolo, un'altra mole di sasso: il Freikofel. A destra del Freikofel,
simile per l'aspetto ma più ampio, il Pal Grande. Ancora più in là, le
guglie del Timau. Dopo il Timau, ma non più in rango, simile al capo di
una schiera di vette, l'alto Pizzo Avostanis avanza al nord e chiude la
valle dell'Anger.
Il possesso di questo Pizzo sollevò anni or sono una questione
diplomatica che somiglia a quella della Cima Dodici. L'Austria lo
reclamava, ma le sue ragioni erano troppo quelle del lupo. Il Pizzo
restò nostro. La lunga premeditazione austriaca ora si rivela nella
sua pienezza. Non era il povero possesso di una sterile sommità che
si discuteva: era il dominio di un valico, il punto di appoggio di
un'azione. Il Pizzo Avostanis è il sostegno del nostro fronte. Se non
l'avessimo, forse la difesa non potrebbe esser lì.
La lotta cominciò al Passo. Subito, all'inizio della guerra, il nemico
avanzò all'occupazione dello Zellonkofel a sinistra del Passo, e
del Pal Piccolo a destra. Sul Pal Piccolo avevamo un plotone. Benchè
risolute e tenaci, le nostre forze nella zona erano in quei giorni
piccole. Il plotone si trovò di fronte una compagnia austriaca. Dovette
ripiegare, ma alla notte stessa i nostri assaltarono il monte. Lo
presero, lo tennero. Però, profittando di un cambio di guarnigione
che aveva portato sul Pal Piccolo una truppa nuova alla località, gli
austriaci attaccarono e rioccuparono la vetta. Vi rimasero poco. Gli
stessi soldati che avevano già una volta conquistato il monte, salirono
nuovamente all'assalto e lo riconquistarono. E vi sono ancora.
Ma gli austriaci avevano lo Zellonkofel, avevano il Freikofel, avevano
una delle due punte del Pal Grande; le posizioni nostre e le loro
s'incastravano, s'intersecavano, si allacciavano sopra una stessa
linea. Aggrampati sullo scoglio, dove non si scavano trincee, dietro
a frettolosi ripari di pietre ammonticchiate e di sacchi di terra
faticosamente trascinati lassù, i nostri avevano il nemico di fronte e
sui fianchi. Gli approcci erano scoperti, la fucileria grandinava sulle
retrovie, mancavano sentieri, il rancio doveva esser portato da lontano
con due ore di ascensione sotto al fuoco, e l'artiglieria tempestava.
Gli attacchi del nemico erano continui e violenti.
Il Pal Piccolo fu assalito cinque volte consecutive in un solo
giorno da un battaglione e mezzo di austriaci muniti di numerose
mitragliatrici. Cinque volte il nemico venne ricacciato. Si preparava
a salire ancora all'attacco, si sentiva troppo superiore di forze per
rassegnarsi, quando nella giornata grigia la nebbia scese dalle vette e
una pioggia dirotta cominciò a scrosciare sulle pietre. Allora i nostri
si slanciarono fuori dalle posizioni, la baionetta bassa, urlando, e
per quel giorno spezzarono definitivamente l'offensiva nemica. Era il
30 maggio.
Intanto il coro dei cannoni aumentava tutto intorno. Mentre le fanterie
si battevano, spesso a corpo a corpo, sulla catena rocciosa che il
Passo fende, da dietro le creste dell'ampio anfiteatro di monti le
batterie preparavano gli assalti o si cercavano fra loro, folgorandosi
al di sopra della mischia, e da vetta a vetta filava l'ululante
parabola delle granate. I nostri medî calibri entrarono in azione
il 28 maggio, e i loro primi rimbombi furono salutati da una lunga
acclamazione, giù dalle trincee italiane. Il 3 giugno una batteria
austriaca veniva smontata dalle nostre cannonate. Era il momento in cui
si preparava la conquista del Freikofel.
Fu annunciata al paese il 9 giugno, quando potè dirsi definitiva.
Perchè il Freikofel fu preso, perso, ripreso, riperso, ripreso.
Quando si è visto il Freikofel si ha di questi assalti l'impressione
fantastica di un volo. Immaginate una specie di alta cupola di basalto,
irregolare, con dei fianchi quasi a picco, tutta scogliere, tutta nodi,
spaccata da fenditure che ospitano grame sterpaglie, grigia, sinistra,
strana come quelle rocce inverosimili della pittura cinese che portano
sulla vetta i contorcimenti di un pino asiatico. Lo difendeva una
compagnia, ossia tanti soldati quanti era possibile mettervene. Fu
preso la prima volta da venticinque uomini.

In molte compagnie alpine si sono formati nuclei numerosi d'uomini
votati alla morte; sono detti le «anime perse», sempre pronti ad
ardimenti che hanno del sovrumano. Ricordano i _keshitai_ giapponesi,
gli assetati del pericolo, gli eroi dell'impossibile. L'attacco
del Freikofel pareva una follia, ma bisognava studiarlo, bisognava
tentarlo. Avanti le «anime perse»!
Sono tante le anime perse che si dovette fare una scelta. Occorrevano
venticinque soldati, e ve n'erano cinquecento che si offrivano.
Partì all'alba del 6 giugno la spedizione prodigiosa, condotta da un
sergente pratico dei luoghi. Erano tutti alpigiani: guide, cacciatori
di camosci, portatori, gente che si sente sicura sopra un abisso finchè
trova lo spazio per incastrare la punta d'un piede e i polpastrelli di
una mano.
Si vede da dove sono saliti, ma non si capisce come siano saliti.
Portavano il fucile, con la baionetta già inastata, le giberne, il
tascapane pieno di viveri, erano carichi di peso. S'inerpicavano
con piedi fasciati di pezze, per far meglio presa sulla roccia, e
certi tratti di parete liscia, dove non era possibile salire, li
superavano fissando alle sporgenze superiori delle lunghe corde alle
quali si arrampicavano. Gli austriaci, che vigilavano le due spalle
più accessibili del monte, non udirono niente. L'ascesa, lenta e
silenziosa, era durata un'ora e mezzo.
Toccata la vetta, fra le asperità cineree dei dirupi gli assalitori
concertarono rapidamente il loro piano. «Battaglione, alla baionetta!»
— urlò il sergente. «Compagnia, alla baionetta!» — urlò un caporale. E
tutti e venticinque, gridando per mille, si buttarono avanti, saltando
da masso a masso: Savoia! Dalle posizioni vicine si udì il clamore. Poi
le voci si spensero. Dopo qualche minuto il silenzio tornò profondo sul
Freikofel. Che era avvenuto? Tutti gli sguardi scrutavano ansiosamente
la vetta. Improvvisamente un'acclamazione immensa echeggiò dal Pal
Piccolo all'Avostanis. Sulla cima del Freikofel sventolava la bandiera
italiana.
Gli austriaci non si erano difesi. Sorpresi, erano fuggiti in terrore.
Erano già depressi per un intenso bombardamento di medî calibri durato
tutta la notte. Cinquantaquattro di loro si arresero subito. Molti
altri, sparpagliatisi intorno nelle anfrattuosità delle rocce, venivano
fuori alle reiterate intimazioni di resa, le mani levate. Il nemico
non tentò subito di riprendere la vetta di assalto: la bombardò.
Tutte le batterie austriache, grandi, piccole, di medio calibro, vi
concentrarono un fuoco infernale, prima che i nostri potessero compiere
il più piccolo lavoro di fortificazione. La sommità dovette essere
sgombrata, ma tenevamo l'accesso. Aggrampate Dio sa come, le nostre
truppe erano là, pronte, al riparo, entro i greti e nei canaloni.

Dei venticinque assalitori uno solo era caduto. Fu visto
all'inseguimento, avanti a tutti, scendere a salti di camoscio e
piombare colpito da una fucilata a bruciapelo, tirata da qualche
nascondiglio. Non era stato nominato per quell'impresa. Aveva
protestato perchè non l'avevano incluso nella lista. «_Sior capitano,
mi go più dirito dei altri!_» — aveva detto alla sera, tutto commosso
come sotto ad un'ingiuria. — «_Me speta!_».
Era un soldato straordinario. Quando vedeva il suo capitano partire
solo in ricognizione, borbottava: «_Eco sto mato che busca de farse
copar!_» — E gli dava dei consigli: «_No se fida de mi? Perchè no me
manda mi a guardar, che se lo copan a el, che femo nualtri?_» — Il
capitano fingeva di non udire, e allora il bravo alpino pigliava il
fucile, si affibbiava le giberne, e dopo aver mormorato un affettuoso
e irriverente «_andemoghe drio, el xè mato da legar!_», lo seguiva per
tutto, passo passo, come un cane, devotamente, pronto a fargli scudo
del suo corpo ad ogni frusciare di fronde. L'ufficiale lo ha pianto.
Per tre giorni sul Freikofel è stata una alternativa di bombardamenti
e di mischie alla baionetta. Quando il nemico credeva di aver spazzato
la vetta a colpi di cannone, avanzava la sua fanteria. Improvvisamente
era fra le pietre un brulichìo di grigio, un lungo urlo possente, i
nostri balzavano su, rioccupavano la cima, facevano dei prigionieri,
rigettavano l'assalto. Il bombardamento ricominciava. Si resisteva
un'ora, due, tre, poi bisognava cedere, ritirarsi. Dal giorno 7
al giorno 9, il nemico lasciò duecento cadaveri sul Freikofel,
quattrocento feriti, duecentoventi prigionieri. Ma il 9 la nostra
occupazione della sommità era consolidata. Il cannone non ci scacciava
più.
Gli attacchi austriaci sono però continuati. Con la nebbia, con la
pioggia, di notte, all'alba, alla sera, il tentativo di riprenderci
il Freikofel è stato rinnovato con un'accanita costanza. Specialmente
con la nebbia. Quando le nubi scendono e le montagne vi si immergono a
poco a poco, quando tutto sparisce in un grigio tenebrore, si può esser
quasi sicuri che nello spessore opaco e freddo dei vapori i nemici
rampano.
La loro tattica consiste nell'avvicinarsi a gruppi di cinquanta o
sessanta, cautamente, carponi, e, arrivati a pochi passi dalla trincea
italiana, aprire un fuoco intenso e breve di fucileria. Non osano
slanciarsi all'assalto subito; vogliono prima saggiare la difesa.
Il fuoco di risposta rivela le condizioni dei difensori. Ne dice il
numero, ne dice il morale. Se la trincea si sveglia con una fucileria
furibonda, lunga, disordinata, l'attacco può proseguire. Vuol dire che
la gente trincerata è poca e vuol parere molta, o è molta ma sorpresa
e agitata. Se invece soltanto una diecina di colpi risponde, e poi si
rifà il silenzio, la cosa è grave: c'è nella trincea un'aspettativa
calma e sicura. In questo caso, che è il più sovente, l'attacco è
sospeso. Allora, dopo la scarica, i nostri non sentono più nulla. Il
nemico si ritira quatto quatto nelle sue tane.
Tali spedizioni austriache non sono mai condotte da ufficiali; dei
sergenti le guidano. Gli ufficiali rimangono dietro, nelle trincee.
Si sono avuti, per lunghi periodi, tutte le notti di questi tentativi
di attacco. Talvolta l'offensiva austriaca ha un ben maggiore sviluppo,
si sferra in forze compatte dopo violenti bombardamenti, si estende
contemporaneamente a tutte le posizioni del Passo di Montecroce, assale
il Freikofel, assale il Pal Piccolo, assale il Pal Grande, assale
l'Avostanis.
Non si contano più queste battaglie furibonde, nelle quali si calcola
siano caduti più di seimila austriaci. Il nemico si dibatte sulla
linea incrollabile delle nostre posizioni, non vuol persuadersi che
non si passa. Il 14 giugno, bombardamento e attacco dell'Avostanis. Il
giorno dopo, attacco generale. Il 20 giugno, alla notte, attacco del
Freikofel. Il 22, attacco generale. Dopo ogni insuccesso parziale, gli
austriaci allargano il combattimento, come chi non potendo scuotere
una porta sferri pugni su tutti i muri intorno. Il 23, attacco dal
Pal Piccolo al Pal Grande. Così il 24, nella notte. La notte del 25,
attacco del Freikofel. Le rocce si coprivano di cadaveri. Intanto noi,
sistematicamente, continuavamo a completare il nostro fronte con nuove
conquiste.
Il 22 giugno, proprio durante gli assalti austriaci, occupavamo la
cresta fra il Pizzo Collina e lo Zellonkofel, il monte che, simmetrico
al Pal Piccolo, sta a ponente del Passo di Montecroce. Zellonkofel e
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