Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 15

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insanguinato. Un soldato è caduto ferito poco lontano, ed è rimasto lì,
accoccolato, aspettando, senza un lamento.
Le esplosioni nella selva lasciavano un'agitazione di piante;
si vedevano lunghe rame di abeti squassarsi con una specie di
divincolamento lungo, fra le spire del fumo, come per un disperato
tentativo di fuga. I rari soldati che passavano nelle vicinanze non
allungavano il passo, non guardavano nemmeno, e il loro volto bronzato,
inselvaggito, guerriero, esprimeva la più serena indifferenza. Due di
loro si sono fermati a parlare e la buffata d'un colpo vicino non ha
interrotto il loro discorso.

In quello stesso giorno, sul Pal Piccolo cadeva ucciso Ruggero Fauro.
Abbiamo contornato le spalle del Pal Piccolo. Un minuscolo accampamento
era tutto intento alle sue faccende. Qualche _shrapnell_ è scoppiato
ancora, in alto, sul bordo della parete rocciosa, sferrando le sue
pallette con un lamento da frusta agitata. Poi i rombi e gli echi si
sono andati calmando. Un silenzio solenne si andava ricomponendo sui
monti. Mentre raggiungevamo la valle di Montecroce, ancora un colpo
ha tuonato, un'ultima granata è esplosa sulla cima del monte Tierz.
Ha avuto il rimbombo cupo di una grande porta, che si chiuda, di
una smisurata porta dal battente di bronzo, serrato con impeto sulle
risonanze profonde di un tempio favoloso.
Agli sbocchi delle valli verso i quali viaggiavamo, nel violaceo
declinare del giorno, gli antichi castelli che guardano da tanti
secoli le soglie d'Italia profilavano le loro torri merlate, al di
sopra delle vecchie cittadine guerriere, semplici, oscure, dalle cui
case medioevali sono uscite tante fiere generazioni di difensori della
Patria. Tolmezzo, Venzone, Gemona.... La loro storia è una storia
di continua lotta contro lo stesso nemico. Esse sono state sempre le
sentinelle avanzate d'Italia.
_Eran giunti al stretto passo_
_Nove millia o più Germani_
_Avevan preso il monte i cani;_
_Ma cazati foro al basso_
_Da quaranta di Venzone;_
_Su su su, Venzon Venzone._
Così canta una vecchia canzone dei luoghi, ricordando le gesta
leggendarie dei quaranta venzonesi di Bindernuccio che fermarono da
soli l'invasione di Massimiliano Primo e salvarono Venezia.
No, di qui non si passa! Il canto è ancora fresco, è ancora vero, è
ancora vivo:
_Su su su, Venzon Venzone:_
_Su fideli e bon Forlani,_
_Su legittimi Italiani,_
_Fate ch'el mondo risone._


MONTE NERO.
_21 settembre._

La parola slava _krn_ — che si pronunzia _kern_ — significa «roccioso»,
e somiglia alla parola _zrn_ che significa «nero». La distrazione di un
cartografo ha fatto del Monte Krn il Monte Nero; ha dato a questa vetta
un nome falso ma indistruttibile, indimenticabile, insostituibile,
un nome più noto ora al mondo di quello vero, un nome che è stato
pronunziato più volte in tre mesi che l'altro in tre secoli, e che
rimarrà, legittimato dalla Storia, battezzato dal sangue.
Il Monte Nero aveva una celebrità nelle guide per la somiglianza
singolare del suo profilo a quello di un volto umano, un volto
immenso, supino, con la fronte verso il sud, il mento verso il nord.
Da lontano, dalla valle di Cividale, oltre i nostri monti si vede,
azzurro e alto, quel prodigioso sembiante aquilino da divinità caduta,
nel quale molti credono di ritrovare i lineamenti cesarei e solenni di
Napoleone. L'apparenza di un viso è così evidente, che gli alpinisti,
i frequentatori di vette, chiamano Naso la cima più alta di quella
favolosa scultura.
Avvolto in un pallido sudario di brume, il volto della montagna si
levava avanti a noi diafano, inverosimile, terribile, mentre per le
vallette della Slavia italiana salivamo verso le alture di Colovrat,
che fronteggiano il Monte Nero dalla riva opposta dell'Isonzo. Il
monte, nei giri tortuosi del nostro cammino, ci era nascosto sovente
dalle pendici vicine, e ci riappariva sempre un po' più scomposto
nel suo profilo umano; la visione svaniva, la magia cessava, l'aspra
verità delle rocce distruggeva a poco a poco l'illusione plasmata dalla
distanza.
La fronte napoleonica così diventava la cresta di Luznica; il gran
mento rotondo diventava la cresta di Vrata; lo sporgere lieve di una
ciocca su quella fronte immane diventava la cima di Maznik; e il naso
non appariva più che come il pizzo maggiore del monte, una guglia a
declivio precipitoso verso Maznik, a picco verso Vrata.
Da queste altezze ondulavano giù le pendici, con vette minori, con
un digradare di cime, con quel risollevarsi brusco che hanno spesso i
contorni delle montagne come se si pentissero di scendere alle valli
e tentassero di tanto in tanto di tornare in su. Erano le pendici di
Sleme, al sud, più vicine all'Isonzo, poi quelle di Mrzli, quasi sul
fiume. Al nord i costoni discendenti dal Monte Nero si allontanavano
dietro le creste del Polonnik, in una maestosa confusione di dorsi
seghettati, di punte nude, che andavano sfumando fino a lontananze
incorporee, un oceano di cime rosee e spettrali nella luce mattutina,
fra le quali s'indovinavano profonde spaccature di valloni.
Il Monte Nero è la vetta culminante e centrale di una lunga catena
quasi parallela all'Isonzo. Attraversato il fiume a Caporetto, che
fu occupato il primo giorno della guerra, la nostra azione offensiva
si trovò di fronte quella gigantesca barriera, che non ha valichi. Di
colpo l'attacco scalò i contrafforti, salì per balze senza sentieri, si
portò sotto le vette maggiori, a duemila metri.
Il ponte di Caporetto era stato distrutto dal nemico in ritirata. Le
nostre truppe varcarono l'Isonzo su passarelle costruite dal Genio.
Quattro giorni dopo, dei temporali violenti gonfiarono le acque; la
piena travolse le passarelle. I piccoli reparti che operavano già
sulla riva sinistra rimasero isolati. Ma andarono avanti. Il parroco
austriaco di Dresniza — paesotto che si adagia tutto bianco sulle falde
del Monte Nero — vedendo passare quelle prime magre schiere, senza
rincalzi, senza approvvigionamenti, tagliate fuori dall'inondazione, le
salutò ironicamente: «Andate pure, non tornerete indietro!». Sapeva che
sulle creste dei monti il nemico trincerato aspettava in forze.
L'interruzione del transito sul fiume durò due giorni. La sera del
30 maggio un ponte di fortuna era già ricostruito sul torbido, largo
e vorticoso corso della piena. Passarono le munizioni, passarono i
rincalzi. L'occupazione era già quasi ai piedi del picco più alto. Il
primo di giugno la punta era conquistata.

Non fu un colpo di sorpresa, questa volta; fu un colpo di manovra. La
compagnia austriaca che difendeva l'estrema cima quasi inaccessibile,
il naso della montagna, vigilava e combattè. Bisognava appunto che si
battesse, per la riuscita del nostro piano. È stata questa una delle
battaglie più belle e più singolari della guerra.
Fu in una notte oscura e nuvolosa. Non si poteva sperare di scalare la
vetta senza svegliare l'allarme. Si profittò allora dell'allarme. Due
spedizioni partirono da una specie di tormentato pianoro roccioso sul
quale eravamo trincerati, seicento metri più in basso della cresta. Un
piccolo reparto, composto dei più abili scalatori, munito di corde,
si diresse verso il fianco settentrionale del picco, cioè, per esser
chiari, verso la narice del naso mostruoso, dove la parete precipita
quasi a piombo. Un reparto più numeroso si diresse dalla parte
meridionale, per ascendere il pendìo più accessibile, il dorso del
naso. Era questo il lato meglio difeso e più vegliato dal nemico.
È un lungo piano inclinato, eguale ma scosceso, coperto in parte di
erbette tenaci che ora intristiscono nell'autunno, disseminato di
pietre che vi mettono come una sparsa punteggiatura grigia da pittura
divisionista. Bisogna inerpicarvisi con l'aiuto delle mani. Chi
scivola difficilmente si riprende; non trova dove afferrarsi, rotola
nel precipizio, è perduto. L'attacco che saliva per questo declivio
vertiginoso non doveva sferrarsi contemporaneamente all'altro, che
ascendeva per le balze rocciose e dirupate del versante opposto.
Gli scalatori della muraglia avevano il còmpito arduo e terribile di
attirare per i primi l'attenzione e il fuoco degli austriaci, mentre
sul pendìo meridionale la vera azione risolutiva si sarebbe preparata
silenziosamente.
Per confondere i rumori inevitabili dell'avanzata, fu dato l'ordine
alle truppe rimaste sul pianoro inferiore di lavorare a gran colpi
di piccone. I soldati picchiavano sodo, a caso, come volessero
spezzare la montagna. Un tempestare di picconate echeggiava nelle
tenebre fra strisciamenti metallici di pale. Gli austriaci, che
ascoltavano dall'alto, sparavano di tanto in tanto qualche fucilata
contro quel furore d'operosità, immaginando grandiosi lavori di
trinceramento. Dovevano sentirsi rassicurati da tanta febbre di difesa.
Improvvisamente i colpi di fucile si fecero più serrati, poi il fuoco
si allargò, scrosciò con furore, senza pause, violento, rabbioso,
mescolato ad un confuso e lontano gridìo. Giù, nel buio, i soldati che
lavoravano si fermarono, sudati e ansimanti, ed ascoltarono immobili,
appoggiati ai picconi, studiando lo scintillamento delle vampe sulla
vetta in tumulto.
Il piano si svolgeva con una esattezza meravigliosa. La scalata della
balza dirupata era stata scoperta dal nemico quando essa toccava già
gli ultimi gradini. Il piccolo reparto assalitore, snodatosi subito
fra sporgenze della roccia, si moltiplicò, rispose al fuoco degli
austriaci con una fucileria precipitosa, riuscì a dare l'illusione di
una massa. Tutta la difesa si portò contro di lui. Quando lo strepito
della battaglia parve più alto e intenso, l'oscuro pendìo sassoso del
versante meridionale si animò.
Un nero formicolìo vi saliva veloce, una moltitudine d'ombre rampava
verso l'estremo lembo di quello spalto immane. Il vero assalto
arrivava. Le vedette nemiche lo scorsero, ma era troppo tardi. Il
loro grido d'allarme fu coperto dall'urlo trionfale dei nostri, che
mettevano piede sulla vetta e si rizzavano per precipitarsi subito
avanti, la baionetta bassa. La cima del Monte Nero era presa.

La osservavamo percorrendo la cresta del Colovrat. Non si riusciva
a comprendere come su quella aguzza guglia potessero aggramparsi e
vivere delle truppe. Qualche nuvoletta rossastra di _shrapnell_ sfumava
lungo le sue pareti. Dalla vetta la nostra occupazione, indicata da
sottili e quasi invisibili sgranamenti di rocce prodotti dai lavori di
trinceramento, e da qualche minuscola baracca di rifugio rannicchiata
al coperto dietro a delle anfrattuosità, prosegue al sud, scende in
quell'avvallamento che da lontano formava l'incavo del ciglio sul
profilo del gran volto, e s'inoltra sulla fronte, cioè sulla cresta di
Luznica, che i soldati chiamano Monte Rosso per il suo fulvo colore.
A metà della cresta essa ridiscende un poco. Gli austriaci tentarono
più volte di scacciarci dalla punta conquistata; lasciarono sul
terreno centinaia di morti, disseminati in ogni balza. Non riuscendo a
riprendere la cima, si rafforzarono intorno, per barrarci ogni strada.
La montagna si prestava alla difesa, le offriva poderosi baluardi
naturali. Il dorso del Monte Nero, dal lato austriaco, è inoltre
solcato da strade militari che salgono dal nord, da Plezzo, le quali
hanno facilitato un vasto spostamento di truppe e di artiglierie. Al di
là del crestone principale, un'altra catena di rudi vette si solleva,
vette chiare, strane, che sembrano sfarinarsi in una sabbia grigia
di cui i valloni si colmano: sono dette dai soldati le Cime Bianche
a causa della loro apparenza. Formano una vera seconda muraglia,
vicinissima, sulla quale numerose batterie nemiche si appostano.
Fra lo schieramento delle Cime Bianche e il costone del Monte Nero,
in fondo ad un valloncello arido, angusto e selvaggio, è il passo
di Luznica, diventato una via di arrocco per le truppe nemiche
lungo l'allineamento delle vette da difendere. Enormi lavori hanno
trasformato ogni sentiero in comodi passaggi. Vi si lavora anche
adesso, e sui sabbioni cinerei delle Cime Bianche si vede come un
formicaio oscuro d'uomini all'opera sulle volute serpeggianti e rosate
di nuove strade.
La nostra offensiva lungo le propaggini del Monte Nero urtava contro
difficoltà formidabili. I trinceramenti nemici non soltanto si
allungavano sulle creste, ma le tagliavano, le attraversavano, a
cavallo da un versante all'altro. Non era più possibile manovrare,
e bisognava salire all'attacco frontalmente dai declivî, e scendere
dalla vetta conquistata lungo la dorsale, da punta a punta, prendendo
una dopo l'altra le trincee trasversali, sulle quali poi era difficile
mantenersi presi d'infilata dalle Cime Bianche. Ma andammo avanti.

Andammo avanti lentamente, con metodo, contrattaccati furiosamente dopo
ogni lieve progresso. Il mese di giugno fu tutta una battaglia lassù.
I bollettini ufficiali riflettevano sobriamente questo accanimento.
Ogni giorno ci dicevano: «Fiera lotta sul Monte Nero....», «lotta
tenace....», «resistenza furibonda....». Il nemico tentava di aggirare
le nostre posizioni più alte e più avanzate; non risparmiava sforzi per
togliersi dal fianco quel cuneo profondo; tendeva ad isolare la vetta
del monte. Vi impegnava il massimo degli effettivi che la guerra di
montagna consenta.
Tentò azioni di sorpresa, ora con due, ora con tre battaglioni. Il 10
giugno lanciò più di sei battaglioni con una ventina di mitragliatrici,
per un vallone che sale da Plezzo verso il declivio occidentale del
Monte Nero, il vallone dello Slatenik. Alpini e bersaglieri fecero
miracoli, con reparti piccoli e risoluti scesero a sbarrare il
passo all'avanzata austriaca. La lotta fu lunga, ma l'aggiramento
fu sventato. Per consolidare le nostre posizioni fu necessaria la
conquista di nuovi punti d'appoggio verso il nord. Da quel momento
l'azione nostra comincia risolutamente ad avere Plezzo come obbiettivo.
Plezzo, posto in una conca alla confluenza di valli, ad un nodo di
strade, centro di comunicazioni, ci minacciava. Da Plezzo salivano
gli attacchi del nemico. Stazione di rifornimenti, base di operazioni,
Plezzo riceveva per la via del Predil, al nord, e per la via dell'alto
Isonzo, a levante, le truppe e i cannoni che ridistribuiva poi per
i valloni risalenti verso le coste del Monte Nero. Prendere Plezzo
voleva dire bloccare agli austriaci le più importanti vie di approccio
di quel settore, chiuder loro delle porte. La nostra offensiva,
che aveva cominciato col dirigersi quasi esclusivamente al sud, per
cooperare alle operazioni che si svolgevano su tutto il corso inferiore
dell'Isonzo, si volse allora anche al nord.
Si volse al nord con impeto subitaneo, inaspettatamente. Nella notte
del 15 giugno dei reparti alpini scalarono arditamente le difficili
balze che si appoggiano da settentrione alla vetta principale. Si
avanzava per le cime. All'alba mossero all'attacco della cresta di
Vrata. Fu un assalto impetuoso e breve. Un battaglione austriaco,
sorpreso, fu sgominato. Alle otto del mattino si erano già fatti
trecentoquindici prigionieri, di cui quattordici ufficiali. Alla sera
i prigionieri erano seicento, ed avevamo raccolto un largo bottino
di fucili, di munizioni, di mitragliatrici. Perduta la posizione,
gli austriaci vi concentrarono un intenso bombardamento. I nostri
resisterono.

Il giorno dopo si svolse il famoso episodio del battaglione ungherese.
Supponendo forse che il bombardamento avesse sufficientemente preparato
un contrattacco, il nemico lanciò alla riscossa le sue migliori truppe.
Un battaglione magiaro, fresco e sicuro di sè, tentò una manovra di
aggiramento. Partito da un punto detto Planina Polju, a levante del
Monte Nero, non lontano dal Passo di Luznica, si diresse nella notte
verso il nord, nel vallone, andò a cercare un varco oltre Vrata,
attraversò la cresta quasi sotto alla punta di Vrsic, un chilometro
e mezzo circa oltre la nostra estrema posizione, discese sul versante
occidentale del monte, e volse al sud per compiere il suo avvolgimento.
La manovra avviluppante era per due terzi eseguita. Non v'era che
un piccolo ostacolo da superare per condurla alla fine. Una magra
compagnia italiana sbarrava la strada a Za Kraju, fra il massiccio del
Monte Nero e quello del Polonnix.
Era trincerata sopra ad un'altura, senza reticolati, senza blindature,
con dei bassi parapetti tirati su in fretta e furia. La mattina era già
inoltrata quando il battaglione ungherese incominciò l'attacco.
Avanzava con ordine e risoluzione, in varî ranghi aperti e regolari.
Nessun colpo di fucile lo accolse. Fu presto a mille metri dai nostri:
il silenzio continuava. La posizione pareva deserta. Rinfrancati, i
nemici salivano come in manovra. Forse essi immaginavano gl'italiani
già fuggiti. Una quiete profonda e terribile.
La distanza diminuiva. Ottocento metri: silenzio. Seicento metri:
silenzio. A mano a mano che si avvicinavano, salendo da una base verso
una vetta, le schiere nemiche andavano forzatamente serrandosi. Gli
spazî sparivano; le linee di assalto, dapprima distese in catena,
restringevano gl'intervalli, cominciavano a formare massa. Cinquecento
metri: silenzio. Si levò il vocìo degli assalitori, che coprivano ormai
tutta la costa del loro affollamento. Quattrocento metri: silenzio....
Nelle feritoie delle trincee italiane tutti i fucili erano spianati.
Con voce pacata il capitano ripeteva i suoi ordini: «Tutto l'alzo
abbattuto! — Attenti a mirare basso! — Siate pronti!». Immobili,
impetrati, i soldati puntavano, la testa inclinata sul calcio del
fucile. La terra, intorno, era cosparsa di pezzi di cartone, avanzi
delle grige scatole di munizioni aperte e vuotate. Ognuno aveva
preparato presso a sè un mucchio di caricatori. Inginocchiati vicino
alle mitragliatrici i serventi aspettavano pronti con le cinghie di
ricambio, e il puntatore, le dita attanagliate alle maniglie, sfiorava
con il pollice la molla di scatto. «Pareva — racconta un ufficiale — un
museo di statue».
Trascorse ancora quasi un minuto, una eternità. Si distinguevano già
le facce accese dei nemici con le bocche aperte, in un balenìo di
baionette. Il capitano non aveva più bisogno del binocolo per guardare;
fissava l'assalto con occhio grave, freddo, calcolatore. Poi con
una parola scatenò la morte: Fuoco! L'assalto era arrivato a meno di
trecento metri.
Una scrosciante bufera di piombo rasentò i declivî. Parve che una falce
immensa e invisibile passasse e ripassasse su quel mobile e tumultuoso
campo azzurrastro d'uniformi. Le prime file caddero, si abbatterono di
colpo.
L'avanzata oscillò, rallentò, il gridìo del nemico divenne un urlo di
furore, alto, feroce. L'assalto era così vicino che, dopo un istante
di incertezza, i nemici intuirono l'impossibilità di ritirarsi sotto
a quel fuoco lungo la costa prativa e scoperta. Si buttarono di nuovo
avanti, impetuosamente. Pochi passi ancora, e la schiera più avanzata
non esisteva più. L'attacco si fermò definitivamente in una tragica e
disperata confusione.
Il piombo mieteva sempre. L'erba si costellava di corpi. Anche i vivi,
gl'incolumi, si gettarono a terra scavandosi in fretta dei ripari, e
cominciarono a rispondere al fuoco, disordinatamente.
Allora un grido formidabile echeggiò sulle trincee: i nostri
scavalcavano i parapetti. Era il contrattacco. Precipitarono giù alla
baionetta. Ogni resistenza cessò. I nemici che avevano ancora un po'
di forza sollevarono le mani. Del battaglione non rimanevano che poche
centinaia di uomini inebetiti dal disastro. Non uno potè fuggire.
Il colonnello che comandava la colonna, un fiero magiaro dai baffi
brizzolati, fatto prigioniero, si muoveva come un automa, dignitoso e
pallido, con una stupefazione negli occhi; ma ogni tanto si fermava, si
accasciava e piangeva. Quando entrarono nelle zone abitate, giù nella
valle, i soldati che lo scortavano si munirono di una poltrona e se
la portavano dietro per porgerla al prigioniero pei momenti di sosta,
quando la crisi di dolore lo fermava, trasognato e lagrimante. Con
quel nobile rispetto verso i vinti che hanno i nostri soldati, intorno
all'ufficiale nemico sconvolto dalla sconfitta si faceva un cerchio di
silenzio generoso.

Nei giorni successivi noi proseguimmo le operazioni per dominare le
strade provenienti da Plezzo. Furono giorni di nebbie, di temporali,
di alluvioni. Si battagliava fra le nubi. Il 20 giugno, l'occupazione
si consolidava oltre la punta Vrata. Dopo ogni nostro passo avanti, un
contrattacco austriaco. Il 21, per ricacciarci dalle vette comparvero
sul campo per la prima volta forze rilevanti di cacciatori tirolesi,
gli alpini del nemico, con i petti pieni di medaglie guadagnate
sui Carpazi. I nostri non aspettarono l'urto, si gettarono avanti,
attaccarono, respinsero i tirolesi infliggendo loro gravi perdite, ne
catturarono alcuni.
Le avanzate più rapide nostre sono state quasi sempre favorite dagli
attacchi nemici. È l'inseguimento che ci porta più in là. Finchè gli
austriaci si difendono nelle loro trincee invulnerabili, protetti
da numerose artiglierie nascoste, rannicchiati nei buchi dietro ai
reticolati, la lotta è faticosa, dura, lenta. Ma se escono fuori,
se si mostrano, se manovrano, l'azione scatta, si sposta, insinua
più avanti dei tentacoli che si appigliano su posizioni nuove. Così
l'attacco dei tirolesi ci portò ancora verso il nord. Il 23 giugno
ci piantavamo definitivamente sulle pendici orientali dello Javorcek.
Vedevamo finalmente Plezzo sotto di noi, a quattro o cinque chilometri.
Quel giorno stesso la nostra artiglieria iniziò il tiro sulla conca di
Plezzo.
Lo Javorcek, tutto coperto di boschi, è l'ultima montagna al nord
del sistema del Monte Nero, e sovrasta Plezzo da sud-est. Risalendo
l'Isonzo da Caporetto, avevamo fin dai primi giorni occupato senza
troppa fatica le creste del Polonnik, che dominano Plezzo da sudovest,
e intorno alle falde del quale l'Isonzo gira, fa un gomito brusco e
rimonta ad angolo acuto verso levante, per attraversare la conca di
Plezzo passando ai piedi dello Javorcek. L'occupazione della Sella
Prevala, alla testata della Valle Raccolana, eseguita all'inizio
delle ostilità, ci aveva portato ad affacciarci anche da occidente
sugli altissimi bordi della conca di Plezzo. Alla fine di giugno il
nostro investimento intorno a Plezzo si delineava dunque a semicerchio
sull'anfiteatro delle alture. Qui le nostre operazioni sull'alto Isonzo
davano la mano, per così dire, a quelle della Val Raccolana, e della
Val Dogna, di cui abbiamo parlato in un precedente capitolo.
Gli austriaci, che avevano lasciato gran parte di questa zona
ancora scoperta alla manovra, sperando di difenderla con azioni di
movimento, si affrettarono a chiuderla da ogni parte con le loro
opere di fortificazione. Scavarono, costruirono, portarono decine di
migliaia di prigionieri russi al lavoro, fecero sorgere da ogni parte
trinceramenti, ridotti, appostamenti. Eretta una prima linea di difesa,
eressero una seconda, poi una terza, e tutti i declivî, tutte le vette,
apparvero solcati dai sommovimenti del suolo. Non si fidavano più
dell'appoggio dei forti costruiti allo sbocco della gola di Predil.
Avevano visto crollare il forte Hensel a Malborghetto, e non avevano
una maggiore confidenza nel forte Hermann e nelle batterie corazzate
costruiti nella chiusa di Coritnica a difesa di Plezzo. Facevano
intanto nuove strade, moltiplicavano gli approcci e le vie coperte.
Masse di soldati e di materiale affluivano a Plezzo. Il villaggio
di Coritnica, nella conca, era tutto un magazzino. Le nostre granate
riuscirono a incendiarlo il primo luglio. L'attività nemica intorno a
Plezzo è successivamente annunziata da vari bollettini del nostro Stato
Maggiore. L'interesse della lotta si sposta dalle vette del Monte Nero.
Un'ultima battaglia si sferra lassù il 22 luglio.

In quel giorno la nostra offensiva riprese di colpo la via del sud,
scendendo dalla vetta. Gli alpini avanzarono lungo l'aspra cresta di
Luznica, rocciosa e nuda. Per ritornare ad una immagine che può dare
una visione sommaria dei luoghi, ricordiamo che la cresta di Luznica
appare da lontano la fronte nel profilo umano della montagna. La
lotta fu ostinata, il progresso lento. Si combatteva delle ore per il
possesso di un masso, di una sporgenza, di un incavo. L'artiglieria
austriaca batteva sui nostri da levante. L'artiglieria italiana batteva
sul nemico da ponente. La roccia fu così tempestata dalle granate
che si coprì a macchie di un colore rossiccio di sfaldature, vivace e
nuovo. Per questo forse la cresta è riconosciuta ora dai soldati col
nome di Monte Rosso.
La lotta continuò il 23 luglio. Conquistammo al nemico i punti più
avanzati. Il 24 gli austriaci tentarono di riprenderli. Dopo un lungo
e intenso bombardamento sferrarono tre assalti consecutivi. Furono
respinti. Il 25 riprendemmo l'attacco. Il 26 tutte le vette erano
nelle nubi; si combatteva in una nebbia folta e gelata, senza vedersi.
L'assalto nostro arrivò al bordo di un gigantesco reticolato, di fronte
ad una formidabile trincea. Gli alpini si radicarono lì.
L'artiglieria quel giorno era muta; quando il sole ricomparve i due
avversarî erano troppo vicini perchè il cannone osasse intervenire. Ed
ora, alla metà del crestone, i trinceramenti si fronteggiano ancora,
a pochi passi l'uno dall'altro, con un solo reticolato fra loro, un
reticolato in comune che serve per tutti e due. Quando il tempo è
limpido, si scorge anche da lontano, sul contorno cupo delle rocce,
la selva minuta, regolare e folta dei paletti, in una impercettibile
nebbia di fili, fra la rossastra confusione del pietrame scavato.
Ma qui la lotta ora sosta. Qualche cannonata solitaria, la nube di uno
scoppio qua e là, di tanto in tanto, e lunghe ore di silenzio profondo.
Di fronte al Monte Nero la vallata dell'Isonzo, tutta boscosa,
variopinta da un primo ingiallire di foglie, cosparsa di villaggi
minuti e chiari giù vicino al fiume, rigata da fili bianchi di strade
deserte, è tutta piena della maestà d'un riposo. Dove sono le truppe?
Non si vede nessuno. I villaggi sembrano solitari. E queste zone non
furono mai abitate come ora, non contennero mai tanta moltitudine
umana.
Dove noi sappiamo che gli eserciti si addensano, non si vedono che
delle linee sottili di terriccio, che sembrano bordi di fossati,
e confusioni strane di sterro. Se ne scoprono una dopo l'altra a
centinaia di quelle rigature fulve, che ondeggiano in ogni senso,
corrono le vette e i dorsi delle colline, solcano il verde dei prati,
scendono i costoni, si moltiplicano, s'intrecciano, s'intersecano, si
scostano, si ritrovano, e questo senza fine, ovunque lo sguardo frughi.
Bisogna che degli ufficiali vi indichino quali sono le nostre trincee e
quali le loro, tanto esse si avvicinano in certi punti e si confondono
in uno sconvolgimento unico del suolo. È sulle vette, principalmente,
che questo contatto incalzante si delinea. Nella immobilità dei solchi
la lenta azione si disegna. Si scopre una eloquenza di tratteggi e di
linee; vi sono argini rigidi che si difendono e argini ondulati che
assaltano, arrampicandosi, serpeggiando, tendendo avanti con qualche
cosa di duttile, di tortuoso, d'insistente.
Se non abbiamo le creste dei contrafforti meridionali del Monte Nero
oltre il dorso di Luznica, ne siamo per tutto a pochi metri, là sotto,
in posizioni il cui profilo dice una non so quale tenacia costante.
Pare da lontano che le trincee stesse si allaccino in una lotta. La
nostra linea preme contro la vetta verde dello Sleme, preme contro la
vetta pianeggiante del Mrzli boscoso, giù verso Tolmino. Sulla cima
del Mrzli le granate hanno sfrondato e potato il bosco; non si vedono
più che dei tronchi neri che sembrano schiantati dalla folgore. Gli
austriaci hanno allacciato a questi ceppi, che hanno nella distanza una
parvenza umana, i fili di ferro dei loro reticolati. Appena al di qua,
dove la boscaglia si rinfoltisce, sono i nostri, invisibili. Più in
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