Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 02

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Il pessimismo è stato in Francia giustamente equiparato alla
diserzione. Chi dubita è involontariamente un disertore. Egli fa al
Paese lo stesso male che se passasse al nemico. Lavora per il nemico.
Mina la robustezza indomabile della fede, che è il metallo di cui si
foggia la volontà.
Diffidiamo del nostro spirito di obbiezione, di contraddizione, di
critica, che ci porta alla ricerca appassionata del lato sconfortante
d'ogni cosa, creandolo quando non c'è, immaginandolo dietro al silenzio
e dietro al segreto sacrosanto che deve circondare i particolari della
preparazione strategica.
Anche il popolo che resta a casa è combattente, esso appresta le armi,
facilita l'azione militare agevolando la circolazione libera, sicura e
rapida dell'immenso traffico su tutto il paese, disimpegna le truppe
adibite all'ordine pubblico e più utili alla frontiera, mantenendo
da sè stesso una quiete profonda, normale, inalterabile, esso dà alla
guerra tutte le risorse e tutte le forze, le dà il nutrimento e le dà
l'audacia. Ogni piccolo turbamento nella nazione può ripercuotersi nei
servizi della guerra e distogliere un'attenzione preziosa all'opera
militare. Le forze vive del Paese debbono tendere concordi alla
vittoria, pazientemente, instancabilmente. La vittoria sarà.
L'atteggiamento magnifico della Francia è avanti a noi. Silenzio nelle
file, avanti con un solo cuore e un solo pensiero, siamo tutti sotto le
armi! Ricordiamoci che si combatte per l'Italia fuori della battaglia,
lavorando, ubbidendo, tacendo, l'anima piena della nostra fede
incrollabile.
Si vorrebbe sapere più di quello che i bollettini militari ci dicono?
Lo sapremo a suo tempo, e sapremo anche come i bollettini siano
reticenti: ma reticenti su cose che ci farebbero gonfiare il petto di
orgoglio. In fondo dicono già molto i bollettini, con sobrietà; noi ne
siamo garanti perchè i nostri occhi vedevano; e la sobrietà nasconde
spesso verità magnifiche.
Non è ancora l'ora di narrare. Ma io che ho avuto la fortuna di seguire
in guerra varî eserciti, dal Giapponese al Bulgaro, dal Serbo al
Francese, dal Belga all'Inglese, posso dire di avere avuto in questi
giorni l'impressione d'un esercito magnifico che può reggere tutti i
paragoni: magnifico per i suoi uomini, per il suo spirito, per il suo
armamento, per i suoi servizî, per la sua disciplina e per la sua salda
e profonda fiducia nel Comando supremo.
Non è indiscrezione osservare che il nostro esercito — la cui compagine
organica era splendidamente approntata — compie in questo momento lo
sforzo più grande che un esercito moderno possa compiere: quello di
mobilizzare, adunare le truppe, e fare una guerra offensiva e vigorosa
nel medesimo tempo.
È come se si finisse di mettere insieme una macchina quando la macchina
è già in pieno movimento. Le unità grandi e piccole si spostano per
l'azione, e le forze integratrici le raggiungono senza errori, ed
i servizî, mentre si completano, mutano e allungano continuamente i
loro itinerarî, facendo fronte a tutti i bisogni. In questo periodo
preparatorio si compiono prodigi, si superano difficoltà enormi;
l'intelligenza, l'iniziativa, l'abnegazione di tutti risolvono problemi
giganteschi di logistica, e il profano non riesce neppure a sospettarli
avanti alla grandiosa visione dell'ordine, della puntualità,
dell'esattezza, che dànno all'immane movimento la regolarità prodigiosa
di un palpito.
Ebbene, questa regolarità nasce lontano dalla zona di guerra, e
noi vogliamo ora indicare alla riconoscenza nazionale, oltre agli
uomini che tengono nel pugno la formidabile e stupenda organizzazione
militare, un altro prezioso fattore di quest'ordine mirabile: i
ferrovieri. Essi, dai loro capi supremi all'ultimo manuale, sono al
di sopra di ogni elogio. Non hanno più orarî di lavoro, non conoscono
altra legge che la necessità, si dànno all'opera infaticabilmente, si
moltiplicano, pare che per le luccicanti rotaie si propaghi fino a loro
la febbre di attività combattiva delle truppe.
Non giudichiamo il servizio attuale delle ferrovie dal ritardo dei
treni viaggiatori. È già un miracolo che vi possano essere tanti treni
viaggiatori. Nei primi quattro mesi di guerra s'impiegavano tre giorni
per andare da Modane a Parigi. Noi riusciamo a mobilizzare le truppe
lasciando al commercio il suo movimento. I ferrovieri italiani sanno
stare al loro posto di combattimento.
Il traffico di certe linee è centuplicato. Delle reti ferroviarie
giudicate deficienti ai bisogni normali, sono portate ad un rendimento
tremendo, favoloso. Non un convoglio militare indugia sulle vie
ingombre, e sono centinaia e centinaia di convogli lunghissimi che
s'inseguono. I viaggiatori ritardano, ma essi debbono essere i primi
a non lagnarsi, perchè al di là delle tendine calate, nei loro vagoni
chiusi, essi odono il rombo perpetuo dei treni colmi di truppe, adorni
di verdure, dai quali si spandono sulla campagna cori formidabili e
guerrieri. E quelli arrivano in orario.
Dove hanno imparato i nostri soldati i loro canti di guerra? Come
risorgono queste antiche canzoni militari che accompagnarono le
battaglie della nostra Resurrezione? Chi ha inventato i nuovi inni
della nuova guerra? Questa musica rude e ingenua pare che sgorghi
spontaneamente dalle masse armate, come si leva l'ululato dalla
tempesta. Sono arie primitive rese fiere dalla bufera delle voci, sono
rozze strofe ma impetuose e solenni come un giuramento.
Andiamo in guerra
Tuona il cannone
Trema la terra
Ma il nostro sangue non tremerà!
ho udito cantare in una stazione, da un treno in partenza, mentre un
altro più lontano urlava:
Noi vogliam la libertà.
Noi vogliam la libertà!
E tutta questa gioia superba e gagliarda arriva alle prime linee,
arriva al combattimento. La lotta è apparsa subitamente come una non so
quale terribile e magnifica festa. Tutti vorrebbero essere avanti, più
avanti. Il rombo delle cannonate è una voce che chiama. Quelle unità
che entrano nell'azione, vanno come se non avessero mai fatto altro,
superbamente. L'anima vera delle varie genti italiche si rivela in un
fulgore nuovo. Un soffio d'eroismo l'ha accesa. È tutta la giovinezza
della Razza che ritorna e fiorisce come una primavera. Nell'alterna
vicenda della storia un grigio inverno è ora finito. Sono dimenticati
i lunghi geli e i gravi torpori. Il vigore trionfale d'Italia erompe,
pieno di una formidabile poesia. Lassù, fra le truppe, è una serenità
ardente.
Prima di prestare orecchio ad una voce velenosa, pensiamo ai nostri
soldati che vogliono e avranno la vittoria, pensiamo ai loro capi che
sanno prepararla e conseguirla, e crediamo fermamente in loro. Nessuna
speranza sembra troppo grande, nessuna mèta sembra troppo alta, per
chi ha visto il primo passo delle nostre truppe. A loro la nostra
confidenza illimitata.
Sappiamo aspettare e tacere. Facciamo della nostra certezza una
corazza. Un dubbio è un tradimento. Convinzione, ordine e calma sono
le armi del popolo nella grande guerra. Seguiamo l'esempio dei nostri
eroici alleati, noi che entriamo nel conflitto al loro fianco. Evitiamo
d'indovinare, evitiamo anche di discutere, una parola inutile può
essere una parola dannosa. La disciplina dei ranghi scenda fra noi.
Noi, popolo, siamo come gli equipaggi che nelle cieche stive della
corazzata nutrono i forni, caricano le munizioni negli ascensori, fanno
camminare, manovrare e combattere la nave, ma che non possono sapere
subito quello che avviene sopra, all'aria aperta, dove si combatte,
sui ponti e nelle torri blindate, e che ignorano le fasi attuali della
battaglia. Essi debbono essere tutti al loro lavoro, senza cercare
di capire, esatti, alacri, compresi della necessità di agire senza
esitazione e senza scoraggiamenti, sentendo quanta parte della vittoria
si appoggi sulla loro opera oscura e sulla fiducia da essi riposta nel
comando supremo e negli uomini che si battono.
Ebbene, i boccaporti sono chiusi, c'è combattimento sui ponti,
attenti ai comandi, o Genti delle stive! Non vi fermate, dominate
ogni curiosità e ogni ansia, una mano ferma, una mente luminosa, un
cuore leonino reggono le sorti della possente nave Italia, e dietro ai
cannoni vi sono petti che anelano alla vittoria!
E la vittoria sarà nostra.


«MORALE ALTISSIMO».
_5 giugno._

«Morale altissimo» — dicono i bollettini ufficiali. Lo Stato Maggiore,
laconico e pacato, non dedica che una parola all'anima dell'esercito.
Il Paese deve averne avuto un'impressione di baldanza. Ma nulla può
conferire il senso della realtà quale si è rivelata a noi, subitamente,
già nel primo giorno della guerra nel quale sentimmo passare sulle
nostre schiere un magico soffio di esultanza, la folata di vento d'un
colpo di ala immane, invisibile, favolosa.
No, la Nazione non sa ancora. Per dare un'idea dello spirito delle
nostre truppe, vorrei poter descrivere niente altro che la febbre
di quel 24 maggio nel quale si tracciò la prima parola della nuova e
gloriosa pagina della nostra storia. Quale giornata di luce, di gioia,
di ebbrezza!
Abbiamo la sensazione che essa abbia inciso profondamente la sua data
non nella nostra povera memoria d'uomini soltanto, ma nella memoria
della stirpe. La nostra emozione e il nostro entusiasmo avevano una
pienezza e una violenza che sorpassavano la misura della nostra anima
perchè erano sentimenti di una personalità più grande della nostra: la
Razza. Erano in noi, erano nell'esercito nostro, l'attesa e l'ansia
delle generazioni passate, nutrivamo tutti inconsapevolmente delle
speranze secolari, avevamo nel cuore l'eredità preziosa e dolorosa
del sogno patriottico dei nostri padri. Sì, i morti si levano, i morti
ritornano, essi sono nel nostro spirito e nel nostro sangue, il loro
palpito gonfia il nostro palpito, la loro forza è nel nostro slancio, e
per essi noi abbiamo provato l'immensa ebbrezza di un'ora nella quale
il loro voto si compiva. Sentivamo nel petto un confuso delirio di
moltitudini. Abbiamo avuto coscienza di un entusiasmo che echeggerà
nell'avvenire. Noi siamo gli eletti nei quali s'è impresso un fulgido
ricordo che sarà vivo nei figli nostri e nei figli dei loro figli,
sempre. L'eredità sacra si perpetua.
La giornata del 24 avrà forse un'importanza secondaria nel freddo
calcolo dell'azione militare. Ma per la Storia è la giornata in cui
l'Italia «ruppe gl'indugi». Essa ha una luce che non si estingue. Da
quella prima mossa divampò un calore che fuse le anime dell'esercito
in un metallo nuovo, compatto, puro, scintillante, ardente. Ne fummo
abbacinati e soggiogati.
Questa data ha già per noi un non so quale senso di solennità antica,
di imperitura santità, e la immaginiamo segnata come una festa
nei calendari del futuro. È stato il Natale della definitiva Unità
Italiana. Si passò la frontiera.

L'urlo delle truppe esultanti nel momento in cui, ad ogni varco,
mettevano il piede sulla Terra Irredenta passò irrefrenabile, profondo,
prodigioso, sovrumano. Si sentì dalle cittadine più prossime, si sentì
da Palmanova che issò il gonfalone sull'antenna veneta, si sentì da
Jalmicco, da Medeuzza, da San Giovanni di Manzano, si sentì da tutti i
paesi nella regione immediata dei confini.
Era un'acclamazione tuonante che si levava, si estingueva, risorgeva,
veniva da un lato, rispondeva dall'altro, serpeggiava nella pianura,
scendeva a ondate per la vallata; e più su, dalle vette boscose sorgeva
lontano, nella serenità calma e meravigliosa dell'alba purissima,
l'immane grido augurale dell'esercito, il poderoso grido di guerra che
l'Italia lanciava per la voce dei suoi figli, e pareva l'ululare remoto
d'una bufera.
La dichiarazione di guerra era rimasta ignorata negli accampamenti, che
negli ultimi giorni s'erano fatti densi e vasti. Verso i confini, nella
campagna ubertosa, era tutto un brulicante grigiore di truppe. Verso i
lembi d'una ferita il corpo sano manda a pulsazioni serrate il sangue
più ardente a cicatrizzarla in una congestione dolorante, e così sulla
ferita delle nostre inique frontiere che tagliavano la carne viva della
Nazione era affluito il più bel sangue nostro, la forza fiammeggiante e
pura che chiuderà la piaga, tutta la gioventù d'Italia.
Il lavoro dei campi continuava intanto vicino alle trincee. Prevedendo
di essere chiamati alle armi, i contadini avevano anticipato la
zolfatura delle viti. La calma della popolazione era magnifica. Da
alcuni paeselli che potevano trovarsi sulla linea del fuoco, gli
abitanti avevano allontanato le donne e i bambini, poi gli uomini
validi erano tornati al lavoro. Avere la propria terra sconvolta da una
trincea era argomento di fierezza. L'esodo delle famiglie dai cascinali
più esposti non aveva nulla di doloroso e di triste. Le donne, con i
bimbi in braccio, inerpicate sui carri che i buoi trascinavano lenti,
salutavano festosamente i soldati: A rivederci, fateci tornar presto,
viva l'Italia!
Avanti a tutti, affossate a terra, le vedette. I battaglioni della
prima difesa aspettavano l'allarme, di ora in ora, con desiderio
rabbioso. Una impazienza di battaglia era in tutti. Aveva maturato
nell'esercito la coscienza d'una forza invincibile. Essa veniva dalla
fiducia illimitata nei capi, dall'ordine e dalla regolarità con la
quale la nostra gigantesca macchina di guerra si è apprestata, e veniva
sopra tutto dal sentimento dei nostri diritti, dalla santità della
nostra causa, dall'intima convinzione che la vittoria finale debba
essere per la Giustizia. L'odio verso il nemico antico, verso il nemico
tradizionale, ridivampava. La Storia non si distrugge.
Ma l'attesa pesava.

C'era ancora come una recondita e vaga paura di essere trattenuti.
Che cosa aspettiamo? — chiedevano i soldati, che sono semplicisti
e che ritengono tutte le preparazioni complete dal momento che loro
sono là. I campanili dei villaggi, le collinette che si levano come
isolotti nella pianura, gli antichi spalti veneziani di qualche vecchia
città, perfino l'alta spianata del Castello di Udine, erano sempre
gremiti di soldati che contemplavano le terre italiane da liberare.
Le contemplavano con amore, con passione, le prendevano con lo sguardo
pensando all'irruzione imminente e all'urto delle armi che li avrebbe
portati al possesso.
Si udivano esclamazioni ingenue e appassionate. Alcuni, ignari,
arrivati al fronte per dovere, si accendevano a quella vista. Essa era
come la visione materiale dell'ingiustizia. Quel profilo dell'orizzonte
aveva al loro cuore qualche cosa di dolente; sentivano la Patria del
di là, lacerata e oppressa. In quella linea azzurra di pianure che
sfumavano nel mare, in quelle creste di monti lontani e diafani, in
tutta quella terra dai nomi italiani e la fisionomia italiana, era
una non so quale espressione indicibile di chiamata e d'intesa. Fra i
soldati italiani che guardavano e l'Italia schiava, passava da anima ad
anima un dialogo prodigioso e muto: Venite! — Eccoci!
E l'ora suonò.
Nessuno l'avrebbe immaginata così bella.
Cominciò un movimento di stati maggiori nella notte. Un rombare di
automobili destò le città verso le tre del mattino. Uno scoppiettìo di
motociclette si disperse nelle tenebre verso mète ignote. Poi in tutti
gli accampamenti, nei villaggi, nei centri di deposito squillarono
segnali di tromba. L'allegro ritornello della sveglia chiamava e
rispondeva sulla campagna buia. Era la diana dell'Italia.
Fu un'onda di febbre e di gioia. L'aurora trovò l'esercito pronto.
Mai la rapidità e l'ordine furono così uniti. Le cavallerie in sella,
le fanterie schierate, le artiglierie attaccate, e, indietro, tutti
i servizi, tutti i convogli, le salmerie, le ambulanze, aspettavano
l'ordine d'avanzata. Ogni ufficiale conosceva il suo còmpito preciso,
ogni unità aveva il suo obbiettivo, la grande macchina stava per
muoversi, regolare e formidabile.
Le avanguardie partirono incontro all'aurora. Il sole sorgeva immane
e rosso, e tutto il mondo si tingeva di rosa. Drappelli di ciclisti
scivolavano lentamente in esplorazione sulle strade deserte della
pianura friulana in tutta la rete della frontiera. Altrove erano
pattuglie di cavalleria che inoltravano verso l'Isonzo. Alcune batterie
avevano preso posizione per forzare qualche passo che si supponeva
difeso. Si aspettava una resistenza fra il Monte Quarin, sopra a
Cormòns, e la collina di Medea, e, di fronte a queste posizioni,
le alture di Budrio erano irte di cannoni italiani. Le fanterie
infine spinsero avanti la loro prima linea spiegata in formazione di
combattimento.
Non si può apprezzare al giusto valore lo spirito meraviglioso della
truppa se non si tiene conto di questa circostanza: che muovendoci si
credeva alla battaglia immediata.

Si aspettava una resistenza. Le informazioni la facevano prevedere.
La natura delle posizioni la rendeva logica. La presenza di truppe
bosniache e di cavalleria ussara, avvistate dai nostri avamposti,
pareva confermare la probabilità di una opposizione.
La nostra fanteria inoltrando immaginava di andare all'attacco. E vi
andava con una volontà compatta e lieta. Guadò il Natisone, nel piano
verso la frontiera di Cormòns, e avanti, fra gli alberi folti, lungo
i margini verdi, nel profumo delle acacie fiorite, nello sfolgorìo
del più bel sole di maggio, in un'inebbriante atmosfera di primavera
italica. L'onda umana passava gonfia di gioia.
Giunse sulla sponda cespugliosa e fresca dello Judrio: il confine.
Allora fu una frenesia.
La valanga di uomini si precipitò, si avventò fra i roveti nell'acqua
per toccare subito l'altra riva. E l'urlo immenso si levò: Italia!
Savoia! Italia!
Ad uno ad uno i battaglioni che seguivano in colonne, per tutte le
strade, lanciavano sulla soglia dell'Italia Nuova il saluto fatidico.
Nessuna cerimonia può assurgere alla grandiosità di questa acclamazione
spontanea, formidabile, irresistibile. Ogni regione d'Italia univa
la sua voce al coro tremendo. È possibile che qualche cosa di quella
maschia, fiera, ardente emozione dell'esercito non sia giunta al popolo
che aspettava?
Sulla pianura soleggiata, un mare di verdure, si spandeva uno squillare
confuso e remoto di campane.
Cominciò Villanova a suonare a stormo. Le chiese di Manzano, di
Trivignano, di Palmanova risposero. Tutti i campanili si destavano,
successivamente. Era la voce del Paese, la voce della Terra, la voce
della Patria, che mandava alle truppe il suo saluto, l'inno antico
delle sue feste, la musica della sua tradizione. E lo scampanìo a
martello dava all'ora indimenticabile una augusta solennità religiosa.
Da quel momento l'Italia era più grande.
Lunghe nuvole di polvere sorgevano basse, a strisce, mettendo qua e
là dei veli sulle piantagioni, avvolgendo villaggi, dissipandosi per
risorgere più vicino: erano artiglierie in marcia, convogli a cavallo e
a motore, il cui rombo si spandeva sommesso e continuo, come un fremito
di tutta la piana.
L'antica, la vergognosa frontiera era cancellata.

Più faticosa, ma egualmente esatta fu l'avanzata sui monti. Fuori di
ogni strada, fuori d'ogni sentiero, portando nel pesante zaino viveri
e munizioni per lunghi giorni, portando sulle spalle anche la legna
per cuocere il rancio, anche la paglia per dormirvi sopra, i nostri
atletici alpini, coadiuvati in alcuni punti da bersaglieri, da militi
della Finanza, esploratori arditi e infaticabili, andarono avanti da
vetta a vetta.
Hanno la tattica dell'aquila. Vanno da una cima all'altra, da una punta
all'altra. Si annidano sulle sommità, e non c'è forza che potrebbe
sloggiarli. Non temono l'isolamento. Fanno di ogni vetta occupata una
fortezza inespugnabile. S'inerpicano, s'insediano, si trincerano, e per
le valli che essi dominano il grosso marcia al sicuro e si sgrana come
un formicaio.
Si videro le cime austriache coronate da loro, una dopo l'altra: il
Monte Corada, il Monte Cuk sulle creste del Colovrat. Sul profilo
di posizioni altissime, che si supponevano fortemente protette, al
di sopra della gran coltre dei boschi, si scorse dopo mezzogiorno
il brulicare delle nostre avanguardie. Subito, al primo giorno, ci
insediammo in faccia alle fortificazioni nemiche.
Avanzando sulla pianura, le nostre truppe scacciarono avanti a
loro i piccoli nuclei austriaci, che abbandonarono in fuga i loro
barricamenti, le trincee di arresto, le abbattute d'alberi, tutte
le difese preparate all'entrata dei villaggi e ai punti favorevoli.
Ritirandosi il nemico faceva saltare i ponti. Le avanguardie italiane
vedevano brillare le mine, una vampa, un getto di macerie, una colonna
di fumo e di polvere, e le detonazioni spandevano il loro rombo
sinistro. Anche un ponte dei più importanti per l'azione era minato,
quello sullo Judrio, ma il precipitarsi dei nostri esploratori lo
salvò. Era il ponte di confine.
È un ponte di legno, pittoresco, angusto e lungo, che le sponde alte
sovrastano chiudendolo come fra due muri di verdura. Per risalire
facilmente la riva, le batterie lo passavano al galoppo. I cavalli
sferzati si slanciavano, e in un grido impetuoso di «Viva l'Italia!»,
in uno scalpitìo pesante sul tavolato che tremava tutto, in un tuonare
di ruote, in un frastuono d'acciaio, i cannoni sì avventavano.
Passate le prime truppe i segni della frontiera scomparvero. Una forza
sovrumana divelse i pali gialli e neri, saldati a macigni, spezzò le
aquile di ferro che in cima ad ogni palo aprivano le loro ali araldiche
e biforcavano la loro duplice testa coronata. Non c'è più niente. Dei
frammenti calpestati e informi. Un furore d'uragano è passato. Nulla lo
avrebbe trattenuto.
In varie zone montuose, come sull'altipiano di Asiago, le nostre
truppe avanzarono, in quel primo giorno, sotto al fuoco di grosse
artiglierie da fortezza. Non si vide un'esitazione. Quei soldati nuovi
al combattimento salutavano le esplosioni con esclamazioni ironiche. E
andavano avanti.

Le operazioni di quel primo giorno, i bollettini dello Stato Maggiore
l'hanno detto, non furono che una correzione di fronte, la quale,
contrariamente al senso del linguaggio ufficiale dei nostri nemici, si
operava in avanti. Ma il fuoco che allora si accese nell'anima italiana
non si estingue più, perchè non è un fuoco nuovo. C'è stato sempre,
noi ne sentivamo il tepore sotto la cenere. Un soffio sublime ha
dissipato le scorie e la gran fiamma s'è levata e ondeggia alta. Tutta
la frontiera ne divampa. Abbiamo una troppo grande eredità di eroismo
e di gloria per non ritrovarla intera nell'ora inebbriante della nostra
lotta più santa contro l'eterno oppressore.
No, eterno no! Lo scampanìo delle chiese friulane suonava i primi
rintocchi del suo funerale.
Ho narrato del primo giorno, del primo slancio, perchè il resto
deve rimanere ancora segreto. Ma v'è lo stesso cuore di quell'ora di
delirio. Con lo stesso lieto entusiasmo il nostro esercito schiaccia i
forti corazzati del nemico, assalta e conquista di colpo delle ridotte
avanzate, si spinge con felice sapienza, con audacia paziente, fin
sopra a delle trincee blindate.
Dove non si va con quest'anima?


VERSO L'ISONZO.
_19 giugno._

È per la strada maestra che questa volta mi avvicino alla guerra. Nelle
regioni della frontiera — diciamo dell'antica frontiera perchè la nuova
cammina — la ferrovia, tutta intenta a trasportare soldati e munizioni,
lascia i viaggiatori sui binarî morti. E ve li dimentica. Nelle piccole
linee i treni per il pubblico ritardano in media dodici ore nei primi
quaranta chilometri. Uno solo, che io sappia, è arrivato in perfetto
orario: partito da Udine si è trovato a San Giorgio di Nogaro all'ora
indicata. Ma era il giorno dopo. Così la strada maestra è ritornata in
onore.
Da quando fu inventata la locomotiva non aveva visto più tanto
traffico. Vi passa tutto il commercio della provincia, tutto il
movimento dei mercati e delle fiere. Perchè non un mercato è stato
sospeso, e a Treviso, a Portogruaro, a Latisana, a Oderzo, in piena
zona di guerra, le piazze antiche e pittoresche si affollano al
mattino di venditori e compratori venuti dalla campagna, i merciaiuoli
ambulanti erigono le loro baracche, e tutto si passa come in piena
pace.
Sulle magnifiche strade, che sembrano viali di parchi, ombrate da
vecchi platani rigogliosi allineati sui bordi, è un viavai di carri, di
carrette, di biroccini, che s'incontrano con lunghe file di autocarri
pesanti e grigi del servizio militare. Stupisce e rallegra la serena
attività del paese, la quieta normalità che permane anche nelle regioni
che odono il rombo del cannone.

La guerra non ha mutato nulla, non ha toccato nulla. Ricordo la tragica
sospensione di ogni vita negli altri paesi belligeranti quando il
grande conflitto s'iniziò. Si vedevano i segni del lavoro subitamente
interrotto sulla campagna francese divenuta deserta, si sentiva
l'allarmi, la paralisi, l'angoscia della nazione intera, i villaggi
solitari avevano un'espressione desolata, e, cessato ogni commercio, le
città costernate tacevano, con le vie quasi vuote fra i negozi chiusi.
Uno straniero che arrivasse fra noi ignaro (per un'ipotesi fantastica)
degli eventi, non sentirebbe la guerra nella vita intensa delle
nostre città e nella tranquilla operosità dei nostri campi, non si
accorgerebbe che stiamo combattendo la più grande lotta della nostra
esistenza nazionale.
La guerra ci ha trovati pronti, e niente altro che l'immutata
fisionomia della nazione, mentre milioni d'italiani si battono, è già
una grande prova di potenza.
Nei vigneti e nei frutteti si lavora, e dalla campagna luminosa, che
non è mai sembrata così bella, così folta di vigore, così promettente,
scolorata qua e là dal primo imbiondire delle messi, arrivano nella
serenità ardente del meriggio i canti dei contadini all'opera, le
antiche canzoni dei campi, semplici, larghe e solenni come preghiere.

L'automobile che mi porta fila nella immensa pianura friulana,
attraversa ponti custoditi da sentinelle, passa per stazioni di
tappa insediate nelle piccole città, affollate di carreggi, intorno
alle quali si allargano bivacchi nereggianti di cavalli e parchi
automobilistici.
Impossibile deviare dalla via buona. Oltre alle tabelle militari, che,
affisse ad ogni crocicchio, dicono ufficialmente la giusta direzione,
si trovano indicazioni di tutti i generi, consigli diversi sotto
forma di «vedi mano». L'entusiasmo degli abitanti ha spennellato sui
muri dei paesi delle grandi frecce accompagnate da diciture sommarie
e definitive: «Per Trieste!» — « — Di qui per Monfalcone, Trieste e
sempre avanti!» — e non si può sbagliare. Più di un paesello ha già
battezzato Via di Trieste, o Via della Vittoria, la strada principale.
Ma la vera, la grande arteria della guerra è la ferrovia. Treni vuoti
che tornano, treni pieni che vanno, passano in perpetua successione,
lunghi, ansimanti, e nelle stazioni piene d'ordine, custodite da
bravi territoriali, inflessibili come la loro enorme baionetta,
spesso le truppe che aspettano l'ora della partenza, durante lunghe
soste al sole, cantano a squarciagola. Ogni vagone ha la sua canzone,
indipendente dal vagone vicino, e il treno intero manda il più
spaventoso dei cori. Quando poi il convoglio si muove, il coro si
fonde in un tremendo evviva: «Evviva l'Italia!», «Vogliamo Trento e
Trieste!». E i gruppi di abitanti, che non mancano mai di affollarsi
alle barriere, rispondono.
I soldati salutano sempre con gioia ogni passo in avanti. Gremiscono
le aperture dei furgoni — che delle fronde, dei fiori, delle bandierine
adornano — e gesticolano, e ridono, e gridano, seduti alcuni sui bordi,
le gambe ciondoloni, mentre dietro agli uomini, nell'oscurità interna,
si profilano teste di cavalli, assonnate e gravi; e un'oscillazione
di zaini, di cinturini, di giberne, di tascapani, pende dal soffitto.
Sui vagoni a piattaforma i carriaggi si allineano, con le stanghe
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