Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 08

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Il Biaena, vario, tutto pianori e dirupi, coronato da rocce a picco,
fronteggia un gomito dalla valle dell'Adige, al di là della cittadina
di Mori, e si presta ad una difesa di sbarramento. Sulla sua vetta lo
scoglio appare forato da cannoniere. La fortezza più alta non è sul
monte, è dentro al monte. Ci sono voluti anni di lavoro per annidare le
artiglierie nel cuore delle immani scogliere.
Le opere colossali che l'Austria aveva fatto sulle formidabili barriere
delle Alpi dimostrano non soltanto la preparazione minuziosa di una
guerra per noi inevitabile, ma dimostrano anche un concetto altissimo
del nostro valore. Non è contro un avversario disprezzabile che
si accumulano ostacoli di questa mole. Quando noi ci sentivamo più
deboli, l'Austria c'indovinava forti, ci presentiva pieni di energie
imprecisabili, di risorse imprevedibili, di volontà insospettate.
Nessuna posizione le pareva solida abbastanza, e per poterci battere
apprestava le armi più numerose e possenti che la scienza militare
moderna sia in grado di fornire.
Il Biaena, con le sue trincee che sembrano sospese come cornici al
bordo di pareti rocciose, con i suoi sentieri coperti che cercano il
cavo ombrato dei canaloni, con le sue batterie che s'intravvedono nel
verde delle boscaglie, con le sue fortezze nascoste nella sagomatura
turrita della cresta, il Biaena ampio, oscuro, ostile, imponente, un
po' velato nello sfondo della Valgarina inondata di sole, non è che un
monumento di paura.
I nostri soldati lo osservano con olimpica indifferenza dalle pendici
di Serravalle e dalle falde del Cornale, dove biancheggiano i resti
di un castello medioevale che schiera fin verso la cima un rango
ancora intatto di merlature ghibelline. Lo sguardo corre da lì lungo
il serpeggiamento scintillante dell'Adige, verso il quale i villaggi
scendono come armenti alla beverata. Lontano, in fondo alla vallata, in
una diafanità luminosa, un biancheggiare più vasto di edifici: è Sacco,
un sobborgo quasi di Rovereto, in un'azzurra conca di monti.
I paeselli dalla nostra parte seguitano a vivere anche sulla linea
degli avamposti, e ricevono strani messaggi dal nemico, portati dal
fiume. Sono proclami, avvertimenti, inviti, spediti dentro bottiglie
vuote che l'acqua trascina. Comunicazioni da naufraghi. Qualche volta
un treno blindato viene avanti adagio adagio in esplorazione, spara un
paio di bordate e fugge, tutto avvolto in una gran nube di fumo.
Il fianco orientale della valle è formato dalle balze del Coni Zugna
che digrada, verso Rovereto, nella Zugna Torta. È una lunga montagna
boscosa che solleva un dorso crestato di rocce. Sulla vetta più alta
si erano fortificati gli austriaci. L'assalto che li scacciò salì da
un lato che pare inaccessibile. Dal basso la cresta sembra avanzare
delle fulve speronate a picco. Una notte un reparto alpino si arrampicò
lassù e sorprese il nemico. Un solo austriaco tentò di difendersi, con
un eroismo ammirevole. Al grido di «Arrendetevi!» rispose: «Io non mi
arrendo che per ordine dell'Imperatore!» — e cadde trafitto. Gli altri
fuggirono.
Ora tutta la montagna è nostra, e dagli ultimi suoi contrafforti
settentrionali i nostri avamposti vedono allargarsi sotto a loro, nella
vallata profonda, Rovereto. L'altro versante del Coni Zugna scende
sulla Vallarsa, che è pure nostra. A Rovereto essa si congiunge con
la valle dell'Adige. Rovereto è il centro al quale converge una immane
stella di valli nelle quali l'avanzata italiana si è incanalata. Sulle
montagne, fra valle e valle, tuona l'artiglieria nostra. Invisibile e
dominante, arrivata lassù come per miracolo, lungo strade improvvisate
che si slanciano alle cime con un zig-zag da saetta, essa spande come
un temporale il suo tuono nelle alte regioni dell'atmosfera.
Si sale alla Vallarsa per la strada di Schio che ascende al passo
delle Dolomiti. Si viaggia lungamente nel panorama fantastico delle
vette gigantesche, irte di cuspidi e di torri favolose, rossicce o
cineree, pallide nella profondità del cielo, immerse nel diafano oceano
dell'aria che le tinge un poco del suo azzurro, e nelle quali pare
di vedere rovine paurose di costruzioni sovrumane, ruderi di castelli
olimpici.
La Vallarsa è quieta come la Val Lagarina. Vi si aspetta. Il rione
di San Giusto, il lembo orientale di Rovereto, mette un tremulo
biancheggiamento nella distanza, dove la valle si allarga. Rovereto
è in fondo ad ogni gola, è la mèta verso la quale tutti i passi si
orientano.
Sulla Vallarsa, in uno sperone della roccia che avanza come una
sentinella e strapiomba sul burrone, gli austriaci stavano creando uno
di quei loro forti scavati nello scoglio. Quanto lavoro contro di noi!
Le cannoniere, mascherate da frasche, erano già aperte verso l'Italia,
simili ad entrate di caverne, e all'interno del monte immense gallerie
formano un labirinto tenebroso. I detriti vomitanti dalle grotte
artificiali biancheggiano a strisce fino al torrente.
Sul forte incompleto si stavano issando le spesse pareti di acciaio
delle cupole. Quelle cave masse di metallo sono oggi garitte di
sentinelle italiane, e il vento freddo della montagna mugola ai loro
bordi da campana.


UNA MAESTOSA BATTAGLIA DI FORTEZZE.
_Vicenza, 29 agosto._

Delle piccole nubi leggere e rosate incoronano la vetta oscura di una
bella montagna regolare, tutta ammantata di una folta pelliccia di
vegetazioni, e le cui falde si allargano dolcemente, punteggiate di
case così bianche che sembrano luminose nella mattinata serena.
Un gruppo di ufficiali d'uno Stato Maggiore, da una balza erbosa che
pare una terrazza verde sulla vallata, punta i binocoli verso la vetta
che traspare di tanto in tanto, impallidita fra i cirri. Le nubi si
diradano, si sfanno, si riformano, si spostano, e nelle loro lacerature
nereggia a momenti, un po' velata, in un ovattato contorno di vapori,
la sommità boscosa che attira gli sguardi. Il calore del sole, il
tepore che sale dalla valle lungo le pendici, nella quiete profonda
dell'aria, spazza a poco a poco le nubi, e in un lento dissolversi
filaccioso di nebbie la cresta della montagna appare intera, sempre più
nitida.
Essa è coronata di puntini oscuri, che si prenderebbero per minuscole
escrescenze sassose sul profilo della vetta, se non si muovessero,
con quella lentezza da insetti che hanno gli uomini nelle lontananze.
Sono nostri soldati arrivati lassù l'altro ieri, con un assalto salito
prodigiosamente a quasi duemila metri. La montagna è il Salubio.
La vallata è quella del Brenta, la Valsugana, che risalito il vecchio
confine si allarga serpeggiando in ampie volute da oriente ad occidente
verso Trento. La Valsugana e la valle dell'Adige si congiungono a
Trento, e costituiscono le due massime arterie di transito fra le
pianure italiane e la nostra grande città prigioniera. Fra queste due
vallate capaci, nel cui fondo strade e ferrovie s'intrecciano sulle
sponde dei fiumi, si ergono massicci alpini, solcati da vallette
minori e da gole che formano un labirinto di passi, i quali tendono a
innervarsi ai fulcri di Rovereto e di Trento.

L'Austria, preparando la nostra aggressione, aveva apprestato tutto
per svolgere una delle azioni offensive più vigorose sulla Valsugana,
e allo scopo di proteggere il fianco di questo movimento d'invasione e
salvaguardare le sue retrovie, aveva sbarrato quei passi minori, tutti
i piccoli sbocchi secondari tra la Valsugana e la vallata dell'Adige,
con un sistema di fortezze modernissime. Sono queste le fortezze di
cui sovente abbiamo letto i nomi sui bollettini del Comando Supremo a
proposito di intense azioni di grosse artiglierie sull'altipiano di
Asiago e sul monte Lavarone. Sono i forti di Luserna, di Belvedere,
di Spitz Verle, di Busa Verle, che guardano principalmente la valle
dell'Astico, la più facile delle vie secondarie fra l'Adige e il
Brenta.
Subito, al primo inizio della guerra, incominciò il duello gigantesco
dei forti. Varcata la frontiera occupammo di sorpresa il monte
Lavarone, sovrastante dal nord l'angusta valle dell'Astico, e lo
guernimmo di grossi cannoni. Il 28 maggio il bombardamento era già
così intenso, tanto dalle nuove batterie del Lavarone quanto dai nostri
forti permanenti annidati più a oriente fra le vette dell'altipiano di
Asiago, che il vigore della difesa austriaca dalle fortezze corazzate
declinava su certi punti. I nostri tiri bene aggiustati tempestavano
specialmente il forte Luserna, il più vicino, che, sconvolto dalle
esplosioni delle grosse granate, alla mattina del 29 non rispondeva già
più. Le sue cupole d'acciaio erano demolite, tutto pareva in rovina.
Verso mezzogiorno si vide sorgere una bandiera bianca sul forte
austriaco sbrecciato e silenzioso. Un evviva echeggiò sulle vette
italiane a questo segno di resa. Ma subito dopo il forte scomparve
in un fumo di esplosioni. Era il forte austriaco di Belvedere, più
lontano, che apriva il fuoco sul Luserna per punirlo d'avere issato
bandiera bianca. Il 3 giugno anche il forte di Spitz Verle, più
indietro, fra le alte rocce che dominano la Val d'Assa, era ridotto al
silenzio, e quelli di Belvedere e di Busa Verle apparivano danneggiati.
La nostra offensiva spezzava le prime barriere.
Il bombardamento continua. A lunghi intervalli il suo cupo rimbombo
passa come un profondo e lontano boato di temporale sulla Valsugana,
alla quale l'azione delle nostre grosse artiglierie tende dal sud. Le
truppe che operano nella valle odono avanti a loro questa gran voce che
rugge. E avanti a loro, infatti, la difesa austriaca che le fronteggia
ha sul suo fianco destro la maestosa e lenta battaglia di fortezze.
È una battaglia che ha una mobilità solenne. Viste le opere in
pericolo, gli austriaci spostano le batterie. Hanno costruito
appostamenti nuovi, hanno creato vie di arrocco per trasportare i
pezzi da una posizione all'altra, e alla notte, nel silenzio profondo
della montagna, si ode talvolta un rombare metallico e lontano di ruote
sui binari: sono batterie nemiche che viaggiano. Scoperte e battute,
esse tacciono, e nell'oscurità se ne vanno. È come se le fortezze
viaggiassero.
L'eco dei colpi arriva dunque nella vallata sulla quale si è riformato
il silenzio dopo l'ultimo combattimento. Sulla cima del Salubio
conquistata i nostri soldati si profilano, e più in basso, fra le
piante, si annida il gregge bianco e sparpagliato delle tende. Qualche
nuvoletta di _shrapnells_ si forma, uno scoppio risuona, gli ometti
lassù rimangono immobili. Un paio di cannoni da montagna austriaci
abbaia cautamente contro le nostre nuove posizioni, ma nessuno ci bada.

L'assalto nostro è arrivato sul Salubio di sorpresa. L'ascensione è
durata un giorno intero. Dopo un abile movimento aggirante, compiuto di
notte, l'alba del 24 ha trovato le truppe destinate all'attacco tutte
nascoste nelle foltissime boscaglie che coprono le falde fin quasi alla
vetta. Su tutto il Salubio non c'è che un triangolo di prato, il cui
velluto verde si stende sulla spalla oscura della montagna, disseminato
di _baite_ deserte. Lentamente, lentamente, strisciando, ascoltando,
inerpicandosi con cautela da rovo a rovo, da tronco a tronco, le
truppe, in silenzio perfetto, precedute da punte di esplorazione,
salivano nell'ombra più cupa, evitando le radure, lontano da ogni
sentiero. Alle cinque della sera si avvicinavano al limite alto del
bosco. Qui furono fatte fermare, per dar loro un po' di riposo. Gli
austriaci erano trincerati a cento metri da loro.
Mezz'ora dopo si potevano scorgere dal basso, attraverso i binocoli, le
prime pattuglie che uscivano dal folto, fra gli ultimi rovi. Parevano
immobili, tanto il loro avanzare era lento, guardingo, felino. Gli
austriaci non erano più che a cinquanta metri dalla fila avanzata
dell'attacco. Dietro ad ogni cespuglio si aggruppavano minuscoli
grappoli d'uomini accoccolati. Ogni movimento pareva sospeso. Non un
colpo di fucile, non una voce. I minuti sembravano eterni.
Improvvisamente, uno strepito di fucilate, uno scoppio sonoro di
cannonate, nembi di fumo sulle trincee, poi un formicolìo confuso verso
la vetta, un gran grido, lungo, vasto, l'urlo poderoso dell'assalto,
simile ad un lamento di bufera, e sul profilo della cresta si è formato
un granulamento ondeggiante e vago. La montagna era presa.
La difendeva una compagnia munita di mitragliatrici. Pareva
inconquistabile. Ma la sorpresa ha sgomentato il nemico. È stato
sopraffatto dal panico alla vista degli assalitori così vicini, contro
i quali ha sparato con tanta concitazione da non causare che perdite
infime. Alcuni colpi di cannoni da montagna, appostati vicino, lo hanno
deciso definitivamente alla fuga.
La compagnia austriaca ha lasciato indietro cinque uomini con
l'incarico, piuttosto sproporzionato, di trattenere gl'italiani in
caso d'inseguimento. I cinque uomini si sono naturalmente arresi. Più
tardi — era quasi notte — gli austriaci, non udendo più niente, hanno
distaccato altri sei soldati per andare a vedere che cosa era successo
dei cinque. E lo hanno visto bene, poichè sono stati fatti prigionieri
anche loro.
La conquista del Salubio ha inutilizzato le difese più basse nella
valle, create sull'altura di Telve, che è come uno sperone del Salubio
avanzato verso il corso del Brenta a sovrastare la cittadina di
Borgo. Quest'altura, fulva, nuda, regolare, appare tutta rigata da
trinceramenti formidabili in cemento armato. La sua fortificazione
deve essere costata milioni. L'allineamento oscuro delle feritoie,
nell'ombra della blindatura, si tratteggia su tutto il declivio, fino
al paesello di Telve, che sorge ai piedi del colle, e le cui casette
bianche si sovrastano, come per contemplare la valle, l'una al di sopra
del tetto dell'altra. La rovina turrita di un castello allarga sulla
vetta della collina la cinta delle sue muraglie diroccate. L'altura è
stata abbandonata senza lotta.

Attraverso la vallata ubertosa, seguendone la dolce curva, Borgo,
l'ultima città conquistata, si distende; e da lontano essa appare
come un chiaro festone di case che si attacchi alle prime pendici
del Salubio, da una parte, e a quella del monte Armentera dall'altra.
L'Armentera è pure nostro. Mentre avanzavamo alla destra sul Salubio,
avanzavamo alla sinistra dal monte Civaron, preso nel giugno e dal
quale gli austriaci hanno tentato inutilmente di scacciarci.
Nessun combattimento nella valle. La lotta è avvenuta sui fianchi,
da dosso a dosso, da cima a cima. Il Civaron, alto, strano, sottile
come un pan di zucchero, coperto di boschi, dominava già Borgo,
ma è l'Armentera, più avanzato, che scende a balze dirupate, tutte
solcate da lavori di trinceramento austriaci, che ce ne dà il possesso
incontrastato.
Fra queste alture imponenti, la Valsugana si apre e forma una conca
meravigliosa, ricca, verde, disseminata di villaggi pittoreschi, di
ville, di castelli. Da ogni parte d'Europa l'estate portava qui una
popolazione di gente in vacanza, attirata dalla bellezza dei luoghi e
dalla efficacia curativa delle acque. Oltre Borgo si scorge Roncegno,
con i grandi caseggiati dei suoi famosi stabilimenti termali immersi
nelle nuvolose masse oscure di un parco. Più lontano è Levico, più in
alto è Vetriolo.
Nelle stazioni ferroviarie di tutti i paesi si leggono ancora questi
nomi sopra _affiches_ multicolori, rimaste ad invitare la gente come se
niente fosse successo. Le locande vicine alla vecchia frontiera sono
piene di queste _réclames_ allettevoli che vi incitano a passare un
mese di villeggiatura al Ferdinandshöhe sullo Stelvio, o al Grand Hôtel
del Tonale a Ponte di Legno, o all'Hôtel di Falzarego, in località
bombardate, in alberghi dei quali non esistono più che le rovine.
La incantevole conca di Borgo è deserta. I paesi sono abbandonati.
Nulla si muove sulla via bianca. La polvere s'accumula sulle soglie
delle case, insieme a detriti di carta e di paglia portati dal vento.
Tutti i ponti sono saltati. Non uno ne hanno lasciato intatto gli
austriaci. A Grigno, non lontano dalla frontiera, e più oltre, presso
Borgo, hanno interrotto i passaggi a colpi di mina. L'acqua del
torrente Maso gorgoglia fra i rottami contorti dei ponti di ferro della
ferrovia — i cui binari sono rimasti per un tratto stranamente sospesi
— della strada rotabile principale e della strada di Scurelle; tre
ponti vicini, le cui campate, crollate allo stesso modo, spezzate agli
stessi punti, hanno una non so quale bizzarra analogia di gesti.
Poco lontano, il campanile di Borgo, dal pinnacolo singolare come
una punta di pagoda, si leva giallo e scintillante al sole sopra un
fresco stormire di pioppi. Le persiane chiuse dànno alle case del paese
silenzioso un'apparenza di paura, come se esse avessero serrato gli
occhi per non vedere. Su queste case spaventate e sole, di tanto in
tanto arriva una granata: un ronzìo profondo e lamentoso, uno scoppio,
una nube di fumo e di polverone, ed un edificio ferito versa sulla
strada qualche frammento bianco.
La stazione, ad un limite del paese, appare danneggiata dai colpi.
Ma furono colpi nostri. Circa tre settimane fa, come annunziò il
bollettino ufficiale, si scorse dal Civaron un intenso movimento di
truppe e di carreggi alla stazione di Borgo e delle artiglierie pesanti
la bombardarono. Il movimento si dissipò come per incanto. Una grande
attenzione fu posta nei tiri per non danneggiare l'abitato, benchè
allora la città fosse già abbandonata.
Per quasi due mesi Borgo è stato zona neutra. Vi arrivavano pattuglie
nostre e pattuglie austriache. La situazione non era amena per gli
abitanti; tanto più che quando le pattuglie nemiche sceglievano la
stessa ora erano scariche di fucilate per le strade. Gli austriaci
accusavano la popolazione di favorire gl'italiani. Avvertiti da
quello spionaggio che è una delle loro più perfette istituzioni, essi
scendevano ad arrestare la gente sospetta di italianità. Portarono
via così anche una signorina, colpevole di aver stretto la mano a un
caporale nostro. Alla fine ordinarono lo sgombro definitivo della
città, e la poca gente che era rimasta partì. Ma partì dalla parte
nostra, protetta da uno squadrone di cavalleria.
Ora, da due giorni, gli austriaci tirano cannonate sulle case, ma
senza continuità e senza convinzione. Credono di impedire forse qualche
concentramento di truppe a Borgo. Sparano da lontano e da vicino; sono
piccole granate di cannoni da montagna, che arrivano chi sa da dove,
o sono le grosse artiglierie del monte Panarotta che intervengono,
specialmente nelle ore pomeridiane, quando il Panarotta è in ombra e
vede la valle in luce.
Il Panarotta costituisce adesso la barriera austriaca nella Valsugana,
come il Biaeno è la barriera che fronteggiamo nella valle dell'Adige.
Si sporge ad una svolta della vallata, dietro a Roncegno, e pare la
blocchi con la sua mole superba, azzurrastra nella luce del mattino. La
conca di Borgo ha il Panarotta come ultimo scenario di fondo.
Sulla vetta la montagna ostile ha dei forti corazzati muniti di cupole
d'acciaio. Pare che all'inizio della guerra questi forti non fossero
ancora armati. In ogni caso si armarono presto, e alla metà di giugno
cominciarono a far sentire la loro voce. Più in giù, lungo gli oscuri
declivi boscosi, batterie mobili si appostano sui pianori, e trincee,
e reticolati che si stendono a fasce, segnalati come da un affollamento
nebbioso e minuscolo di miriadi di pali.
La difesa austriaca sembra si vada concentrando in quell'immane
fortilizio. La nostra avanzata sul Salubio e sull'Armentera ha
provocato un balzo indietro del nemico. Sopra Roncegno c'è una piccola
chiesa, antica e solitaria, sul cui campanile ha sventolato fino a
due giorni fa una grande bandiera austriaca. La bandiera è scomparsa.
Nessun essere vivente si muove intorno alla chiesuola lontana. Per
tutto è quiete, silenzio, immobilità. Non uno spolverìo di marcia o di
convogli in movimento sulle strade più remote. Gli austriaci si sono
ritirati dopo l'ultimo combattimento, lasciando qualche piccolo reparto
sulle colline, a ponente di Borgo, da dove cannoneggia. E ritirandosi
hanno fatto saltare altri ponti. Fino a Roncegno si sono viste brillare
le mine. Questa fretta d'interrompere la viabilità denota uno stato
singolare di allarme.
Dalla Valsugana, nelle vicinanze di Borgo, si diparte a Strigno una
strada nuova, arditissima, che valica passi difficili, s'inerpica
con mille giravolte sulle falde di montagne dirupate, e va da valle
a valle, parallelamente alla frontiera, fino a Fiera di Primiero
a congiungersi con la grande strada della valle di Cismon. È una
strada militare magnifica che l'Austria ha costruito con uno sforzo
gigantesco, quale soltanto una volontà definitiva poteva determinare,
e il cui valore spaventa. Percorrendola noi abbiamo la misura del
pericolo immenso che ci minacciava.
Questa grande e comoda via, che rendeva praticabile ai movimenti
delle forze austriache la parte più aspra, impervia e selvaggia di
quella zona di frontiera, ha ramificazioni verso la parte nostra, ha
derivazioni che salgono a delle vette. Salgono tortuosamente a vette
dalle quali i nostri forti si dominano, e su molte di quelle posizioni
le piazzole per le grosse artiglierie erano già pronte.

Non tutte quelle strade sono finite; alcune erano ancora in
lavorazione, altre erano appena tracciate, quando la guerra è
scoppiata. Nessuna carta le segnala. Esse compongono tutto un sistema
che rivela il piano austriaco di aprirsi il passo su Feltre sfondando
le nostre barriere della Valsugana.
E mentre si apprestavano le strade per le grosse batterie da assedio,
piccoli paesi della montagna, di quattro o cinquecento abitanti,
vedevano fra le loro mura sorgere enormi panifici elettrici, d'una
modernità insuperabile, capaci di fornire da dieci a ventimila razioni
di pane ognuno. Ve n'è a Pieve di Tesino, ve n'è a Canal San Bovo, ve
n'è a Fiera di Primiero, cioè ad ogni nodo di strade, ad ogni sbocco
di valle. Quali masse erano destinati a nutrire? Ora essi fanno il pane
per le nostre truppe.
L'Austria preparava l'invasione meticolosamente, metodicamente,
con quella cura del dettaglio di chi può prendersi tutto il tempo
necessario per studiare e per operare, eliminando ogni rischio,
organizzando il colpo sicuro, contando di poter scegliere il suo
momento. Fortunatamente non lo ha scelto lei.
La grande strada militare porta attraverso paesaggi melanconici e
grandiosi dell'alta montagna, fin dove l'abete intristisce nei crepacci
e fra minuscoli cespugli cinerei fiorisce l'edelweiss, il fiore
del freddo, il fiore in pelliccia bianca. I nostri soldati ne fanno
raccolta, e la posta porta innumerevoli fiori delle Alpi alle case
italiane. Nella foschia, nella penombra nebbiosa delle vette, quasi
sempre sfiorate dalle nubi, s'intravvedono baraccamenti che sorgono, e
il martellare lieto del lavoro, accompagnato da canti d'ogni regione,
echeggia nell'aria fredda.
Si ridiscende al tepore della ridente valle di Cismon, dove tutto è
quieto. Guerriglia di pattuglie sulle montagne, al nord, ai piedi delle
prodigiose muraglie dolomitiche della Pala di San Martino, immani,
grige, inverosimili. I nostri soldati si spingono in esplorazione fino
ai passi che il nemico guarda. È la lotta di agguati e di sorprese che
abbiamo conosciuto sulla Valfurva e nella valle Daona.
Il combattimento più importante avvenne al ritorno di una esplorazione.
Trenta alpini erano aspettati da cinquanta nemici appiattati nel
folto di un bosco di abeti. Era la sera. I nostri, vicini ormai
all'accampamento, marciavano incolonnati in un sentiero. Il nemico fece
fuoco a cinquanta metri. La prima scarica fu micidiale. Gli ufficiali
nostri caddero. Ma i soldati non si persero d'animo: manovrarono, si
distesero in ordine di combattimento, e, appostati dietro gli alberi
e tra i macigni d'un torrente, per tutta la notte sostennero il fuoco
dell'avversario superiore, mirando alle vampe dei colpi.
All'alba, udendo arrivare dei rinforzi italiani, i nemici fuggirono
lasciando vari morti e alcuni prigionieri. Quando si potè osservare la
loro uniforme, si vide che non erano austriaci.


FRA I TORRIONI DELLE DOLOMITI.
_Belluno, 2 settembre._

Una pioggia torrenziale, uno di quei brevi e violenti temporali di
montagna che pare nascondano il mondo in un velo crepuscolare di acque
scroscianti, aveva la sera prima vuotato sulle montagne Cadorine tutte
le nubi, e quando ci inerpicavamo verso la vetta maestosa dell'Averau,
al nord di Selva di Cadore, l'immenso panorama delle Alpi Dolomitiche
levava la moltitudine fantastica delle sue punte nella gloria di una
serenità magica.
Non un pennacchio di nebbia, non un batuffolo di vapore, non un
cirro, e nell'azzurro profondo del cielo i profili dello sconfinato
e meraviglioso orizzonte si disegnavano con una precisione tagliente.
La terra e l'aria avevano un non so quale colore di lavato, di fresco,
come se la creazione fosse stata ridipinta a nuovo, e le più lontane
balze soleggiate, che rivelavano i loro infimi rilievi nella purità
luminosa della divina mattinata, apparivano stranamente vicine, quasi a
portata di voce.
La vetta dell'Averau è una torre immane, prodigiosa, di una nudità
striata di rosa, e vista dal basso, dal piede delle sue pareti a
picco, ha qualche cosa di soprannaturale e di pauroso. Lo sguardo sale
al cielo lungo la roccia tormentata che strapiomba, e quella mole
vertiginosa che esce dalla logica delle nostre concezioni incute un
vago senso di sgomento. Sui suoi fianchi corrono crepacci profondi,
strane feritoie nelle quali un buio ostile si agguata. Da un lato la
portentosa muraglia si sfalda, e forma delle guglie aguzze, fra le
quali s'insinua nell'ombra la precipitosa e cinerea fiumana di detriti
dei canaloni.

A oriente, il massiccio roccioso, biancastro, tutto a stratificazioni,
sul quale la torre si fonda, risale a piatto inclinato, va su
dolcemente come un bastione, come il muro di cinta di una favolosa
fortezza di cui l'Averau sia il mastio, e forma la vetta del Nuvolau.
Nella sella fra le due vette, un rifugio, una casetta di pietra,
il «Nuvolau Pass Hütte». Sulla cima del Nuvolau, un altro rifugio,
un puntino bianco, il «Saxendankehütte». In realtà sono due caserme
austriache che dovevano permettere la difesa del passo. Ma la montagna
fu presa quasi senza lotta nella rapida avanzata iniziale, dopo
l'occupazione del Porè, le cui falde verdi abbiamo contornato salendo.
Ed ora il gruppo del Nuvolau si erge dominatore sulla lotta che si
svolge intorno, a semicerchio, da levante a ponente.
Dietro a noi, scalando l'ultimo ciglio, vedevamo inabissarsi la
valle del Fiorentina, cupa, selvosa, colma di un'ombra perenne. Tra
la ridente valle del Cismone, nella quale si adagia la pittoresca
cittadina di Fiera di Primiero, che visitammo nella ultima escursione,
e la valle del Boite, che da Pieve di Cadore e per Cortina d'Ampezzo
incanala la strada che scende sulla Drava a Toblach, fra questi due
passaggi principali, come abbiamo già visto fra la Val d'Adige e la
Valsugana, si dirama tutto un labirinto di vallette e di gole che
immettono a valichi e a passi, lungo le quali strade mulattiere od erti
sentieri da alpigiani salgono a cercare un varco nelle selle dell'alta
montagna, talvolta fino ai ghiacciai. La valle del Fiorentina è uno di
questi solchi, nei quali il sole estivo non scende che per qualche ora
al giorno. L'inverno non finisce mai completamente nel profondo, dove
la boscaglia rigida dei pini accumula ombra su ombra, e le rare case
di legno, basse, ricordano le isbe siberiane. Le pietre si coprono di
muschi nell'oscurità verdastra della selva, come per difendersi dal
freddo, e sui praticelli scoscesi un effimero alito di primavera fa
schiudere una delicata flora nordica.
Anche qui la guerra si sparpaglia nei passi, si spezza, si trita,
si fa guerriglia, mentre sulle grandi strade l'azione s'innerva. Da
valico a valico vi è una lotta di appoggio, di fiancheggiamento. Alle
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