Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 12

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dove. Qualche corpo rotola giù per il ghiaione. Chi è ferito precipita.
Dall'altra parte del monte si svegliano i corti mortai austriaci, di
un modello studiato per questi terreni, e le grosse granate passano
sulla cresta, portando fino ai tremila metri il loro fuggitivo e
lacerante lamento, per ricadere al di qua, cercando a caso il terribile
assalitore. Ma la notte ritorna e gli esploratori ridiscendono nel
buio, portando il tesoro della loro esperienza.
Non c'è più un abisso dal quale gli austriaci ora non si aspettino
la scalata. Metterebbero dei reticolati sulle nubi, se potessero.
Accumulano mitragliatrici e fili di ferro sul bordo d'ogni precipizio.
E da lontano si vedono nereggiare assurde difese anche sulla cima più
alta del Cavallin. Una trincea si tiene lassù, in un piccolo spazio,
nel quale si ha l'impressione che un uomo non possa distendersi,
circondato dal vuoto.
Da lì ricomincia verso l'oriente, verso la Carnia, la guerra delle
vette.


LA LOTTA DEI COLOSSI.
_12 settembre._

Quando si entrava in Austria per la ferrovia di Pontebba, passato
Pontafel, se non si era troppo distratti dalle varie e pittoresche
bellezze della valle del Fella lungo la quale il treno scendeva, fra
la stazione di Saint-Lusnitz e quella di Uggowitz — piccole stazioni
che i diretti disdegnavano, adorne di piante rampicanti, e avanti alle
quali non si vedeva che un impiegato fermo e dritto come un piuolo,
sormontato da un chepì rosso albo un palmo — si osservava a sinistra
uno strano sperone di montagna.
Era un contrafforte ardito, coperto di abeti, che avanzava con tanta
insolenza da costringere la valle a scansarsi e fare un giro per
passargli intorno. Pareva messo là per sbarrare il passaggio. Subito
dopo il biancheggiare di Malborghetto, in fondo ad una piccola conca
nella quale il paesello, adagiato a ridosso delle alture per ripararsi
dalle tramontane, si rifugia, la vallata pareva chiusa da quel costone
boscoso.
Fra gli alberi del declivio si vedevano emergere larghe sagome di
possenti costruzioni; erano muraglioni bassi, enormi, massicci,
coronati da spalti, alcuni quasi sulla valle, altri eretti più in su
verso la spalla del monte, con un collegamento capriccioso di altre
muraglie, di altre costruzioni minori. Era il famoso forte Hensel.
Quello che si vedeva costituiva i rafforzamenti del forte. Le spianate
della fortezza si appoggiavano a quelle mura ciclopiche, solide come
la roccia: due spianate, una in basso, una in alto, sotto le quali il
forte affossava le sue parti più vitali. Le muraglie servivano anche
da trinceramenti. Erano bucate da feritoie a ranghi molteplici, dalle
quali, occorrendo, si potevano affacciare piccole artiglierie. Quattro
ranghi di feritoie sovrapposti si allineavano sul muraglione più vicino
alla strada.
Il forte Hensel era doppio, aveva appunto la parte alta e la parte
bassa, unite da cortine e da strade coperte. Si immaginino dei
giganteschi edifici sepolti, dei quali non si scorga che la sommità,
verdeggiante di terrapieni erbosi come se essa fosse sorta dalla
terra sollevando interi lembi di prato. Il bosco aveva mascherato in
parte il resto. Non si vedevano dalla ferrovia gli oscuri emisferi
delle cupole di acciaio dei grossi pezzi, due sulla parte bassa e due
sulla parte alta, e non si vedevano tutti quei bizzarri comignoli
dei quali i forti sono irti, simili a soldatini in ordine sparso
ritti sui terrapieni, e che non sono altro che gli sfogatoi dei
depositi di munizioni intesi a mantenere la ventilazione dei magazzini
sotterranei. Ma i nostri osservatori, annidatisi fin dai primi giorni
della guerra sui monti, dall'altra parte della valle, a qualche
chilometro appena dal forte, ne scorgevano e ne studiavano tutti i
particolari. Distinguevano nell'imponenza geometrica dei suoi profili
tutta la segreta disposizione delle sue parti, dei suoi collegamenti,
vedevano nereggiare sulle piazzole superiori le batterie in barbetta, e
seguivano il lavorìo della guarnigione che apprestava la fortezza alla
battaglia come un equipaggio appresta la nave per il combattimento.
Ora non c'è più niente.
Niente, assolutamente niente. Non più muraglioni, non più spalti, non
più cupole, non più batterie scoperte, non più strade. È scomparso
anche il bosco. Tutto quel folto di abeti che avvolgeva il forte è
svanito. Lo stesso sperone di montagna sul quale la fortificazione
sorgeva si è trasfigurato, non è più quello, è irriconoscibile, tutto
sconvolto, squarciato, imbrullito. Al posto del forte Hensel c'è come
una immensa frana, una convulsione di terra e di pietre, una distesa di
detriti e di macerie che scende dall'alto del costone fino al torrente.
I nostri cannoni hanno fatto questo.
La devastazione dei nostri tiri è indescrivibile. Sarebbe
incredibile anche, se non fosse registrata dalla fotografia. Le fasi
della distruzione sono documentate dalla fedeltà impassibile del
teleobbiettivo. Il cannone operava una lenta e profonda trasformazione
del paesaggio. Cominciò a battere le opere basse, poi troncò le
comunicazioni protette, poi battè le opere alte, infine disgregò,
demolì, sgretolò, seppellì tutto quello che c'era rimasto. Questa volta
gli austriaci non hanno fatto in tempo a ritirare le loro artiglierie.
Il forte è diventato una immane tomba di cannoni.
Alcuni colpi troppo lunghi, andati al di là dello sperone e caduti
nella valle, hanno aperto dei crateri che le piogge hanno riempito,
e ai piedi dell'altura la fotografia vi mostra una fantastica
costellazione di chiari laghetti rotondi. Le granate facevano un arco
al di sopra di vette, un arco alto quasi due chilometri. Varcavano
cinque o sei montagne, viaggiavano per un minuto e dieci secondi su
creste e burroni, attraversavano la vallata del Fella e piombavano
con una precisione meravigliosa sulla parte del forte che si voleva
colpire.
Hensel, eretto per chiuderci ogni passaggio da ovest e da sud, messo
a guardia di uno sbocco di valli, è stato cancellato dalla faccia del
mondo. Abbiamo visto ieri i cannoni che lo hanno annientato.
Lontano dal fronte, lontano dai combattimenti, nelle retrovie della
guerra, dove la vita del paese continua normale ed eguale, le mostruose
artiglierie si annidano. Sono cannoni che il nemico non avrebbe
mai immaginato di veder comparire dalla nostra parte sul campo di
battaglia. Credeva di dominarci con i suoi 210 di Hensel, d'inchiodarci
nelle nostre valli, alle quali intendeva aprirsi l'accesso.
Accovacciati sui loro larghi affusti massicci, che pesano loro soli
decine di tonnellate, piantati solidamente su piattaforme che sembrano
fondamenta di torri, i neri e giganteschi cannoni sporgono soltanto
il profilo impetuoso e possente del loro lucido collo dall'ampio
barricamento circolare di sacchi pieni di terra che li protegge.
Quell'alta barriera grigia fa pensare al recinto creato intorno ad una
belva.

Gli artiglieri lavorano in quel chiuso, isolati, intorno alla
formidabile macchina di morte. Ruote silenziose muovono il pezzo, lo
girano, lo sollevano, fanno aprire e richiudere l'enorme culatta, il
cui otturatore a cerniera, dalle dentature lucenti, sembra lo sportello
d'un forziere favoloso. Docile, il cannone dolcemente obbedisce a lievi
giri di manovelle. Quella grande massa di tredicimila chili di acciaio
si muove senza rumore con una maestà dominatrice, con una lentezza che
sembra pensosa e ponderata. Si dispone al tiro, assume l'attitudine del
combattimento, spostandosi adagio adagio, e nel suo moto solenne pare
di scorgere una non so quale truce e subdola cautela.
Un carrello sospinto su rotaie porta il proiettile dal deposito
blindato delle munizioni. La granata, alta come un fanciullo, è
sollevata dall'argano, scivola nella culla di ottone del caricatoio, la
culatta si chiude sul sacco della polvere che ha seguito il proiettile
nella camera di scoppio, dalla quale per un istante si è intravvista la
vorticosa e scintillante raggera delle rigature. Uno scatto di molla.
Il colpo è pronto. Tutto questo avviene come un meccanico lavoro da
opificio. I soldati rimangono in piedi sulle piattaforme di acciaio che
l'affusto sporge. I serventi sono come inerpicati sul colosso.
Al colpo la gran mole del cannone passa veemente fra loro, spinta
indietro dalla forza impetuosa del rinculo, e torna al posto ricondotta
dalla elasticità dei freni. Una buffata violenta e ardente fa
sventolare i lembi dei cappotti. La terra ha un sobbalzo. Nei greti
è un rotolare di sassi e uno scorrere di sabbie. Le travature delle
case hanno scricchiolato nel villaggio vicino come ad una scossa di
terremoto; le porte squassate hanno risuonato cupamente e le finestre
mal chiuse si sono spalancate alla sorda percossa della raffica breve.
Gli artiglieri, immobili, afferrati ai montanti, gli occhi riparati
dall'ombra della mano aperta, ammiccano verso il cielo, attenti,
interessati. Guardano il proiettile. Perchè la granata si vede, si può
seguirla per qualche tempo nella sua corsa da meteora. È una lineetta
nera, sfumata, che naviga nello spazio, impiccolisce, impallidisce,
svanisce.
I viaggi delle palle da cannone più grandi sono diventati così
lunghi, che dànno il tempo a delle strane segnalazioni. I nostri
posti di osservazione annunciano il passaggio dei grossi proiettili
nemici come i semafori avvertono i porti del passaggio delle navi.
La granata di certe artiglierie pesanti manda un rumore che ricorda
quello di un treno ferroviario lontano; pare un diretto che percorre
la vôlta celeste. «Arriva un 305» — telefonano talvolta gli osservatori
avanzati, quando percepiscono il caratteristico rombo. «305 in arrivo!»
— grida il telefonista della batteria avvisata. «Al coperto!» — ordina
il comandante. Gli artiglieri si sparpagliano nelle loro tane. Otto,
dieci secondi dopo il proiettile arriva, scoppia, solleva eruzioni
di pietre e di terra, annebbia tutto di fumo. Ma la parola umana, più
rapida, lo ha preceduto. È meraviglioso.
Per questo le grosse artiglierie, se devastano e distruggono le difese
meglio costrutte, non fanno molte vittime. Per ammazzare bisogna che
sfondino una casamatta di rifugio o sorprendano truppe allo scoperto.
Allora, l'uomo che si trova presso allo scoppio sparisce. Inutile
ricercarne i resti. Non v'è più traccia di lui.
Così è scomparso un alpino in val Dogna, dove abbiamo visto le
enormi buche scavate di fianco alla strada da alcune grosse granate
austriache. Due alpini passavano di lì al momento di una esplosione.
Di uno non si trovò più nulla. L'altro fu lanciato in aria incolume
e sbalestrato fra i rami di un abete, trenta metri lontano. Annerito
dal fumo, imbrattato di terriccio, stordito dal colpo, si attaccò
istintivamente ad un ramo con quella forza attanagliante che hanno
nelle mani gli alpini, scalatori di vette, e rimase così finchè lo
salvarono.
In questo momento i bombardatori di Hensel hanno altri obbiettivi.
Dopo un lungo silenzio riprendono la parola. I giganti si celano
nell'ombra d'una valle. Quando le loro bocche sono in posizione di
tiro, si tendono verso il cielo. Ricordano per la loro mole i telescopi
degli osservatori astronomici. E tutti quei loro meccanismi perfetti
che permettono di orientare il pezzo enorme fino all'esattezza del
decimo di millimetro, i grossi cilindri dei freni che si allungano
sul manicotto, i cannocchiali di traguardo, contribuiscono a dar loro
un'aria da immani strumenti di precisione. Aumentando la distanza di
tiro si è dovuta aumentarne la correttezza. L'errore di un millimetro
alla bocca del cannone diventa l'errore di centocinquanta o duecento
metri al bersaglio, quando la palla percorre otto miglia. Perciò il
cannone ingigantendo ha acquistato delicatezze minuziose, movimenti da
apparecchio geodetico.
Un'operazione di puntamento fa pensare ai calcoli nautici. Vi entra
dell'astronomia. Bisogna ricercare il nord magnetico, tener conto
delle deviazioni locali della bussola, per orientare il quadrante
di puntamento al nord terrestre: questo preliminare è necessario
per arrivare e stabilire il punto matematico nel quale il cannone è
piazzato. Fissata la posizione del cannone si determina sulla carta
la rotta dei proiettili. Le altitudini come le distanze entrano nel
calcolo. E durante il tiro si tiene una specie di giornale di viaggio
delle granate. Si registrano di ognuna le segnalazioni di arrivo, colpo
per colpo, e gli errori di rotta indicati dagli osservatori a millesimi
— millesimi d'angolo.

La zona che abbiamo visitato, quella parte delle Alpi Carniche che
dalla ferrovia Pontebbana si avanza sulla vallata di Plezzo, è stata
finora un gran campo d'azione di grosse artiglierie. Ora attivo e
violento, ora lento e come stanco, il maestoso duello delle batterie
pesanti e di medio calibro ha continuato per mesi. Il silenzio non è
mai lungo. Ogni tanto le vallate rombano e echeggiano.
Imponemmo noi la lotta dei colossi. Il 12 giugno i nostri massimi pezzi
erano già piazzati e aprivano il fuoco sul forte Hensel. Nello stesso
giorno un deposito di munizioni dell'opera alta scoppiò.
L'incendio durò lungamente; il fumo giallo e denso delle polveri
brucianti copriva a tratti la intera collina, lacerato dal bagliore
delle esplosioni, le quali lanciavano in aria getti alti di macerie e
di luce. Pareva che il forte si bombardasse da sè. Era uno spettacolo
di una imponenza indicibile che gli osservatori descrivevano per
telefono a frasi concitate, piene di ammirazione e di stupore. Il
giorno dopo un altro deposito esplodeva nell'opera bassa.
Il 16 giugno la cortina che univa l'opera alta all'opera bassa era
già franata; le piazzole della batteria in barbetta erano scomparse in
uno sconvolgimento di massi. Allora avvenne una cosa che fa onore al
nemico: il forte rispose. Rispose a caso, senza scopo, per non morire
senza un simulacro di difesa. Ma dopo pochi colpi tacque per sempre.
Implacabili i nostri tiri si avvicinavano ai pezzi blindati. Il 23
giugno una cupola dell'opera bassa era sfondata. Essa appare ora
spezzata come un guscio spesso e nero, aperta, inclinata. Il 2 luglio
si rinnovarono scoppi di munizioni in altri depositi del forte. La
demolizione progrediva a zone, regolare, sistematica, inesorabile. Il
28 luglio un'altra cupola era spezzata e, rovesciandosi, il suo cannone
levava la gola verso il cielo come quelli di una nave che va a picco.
Il forte sprofondava.
Gli austriaci adunarono in fretta batterie in quel settore. Le
pendici settentrionali della valle di Malborghetto nascondono numerose
posizioni di artiglieria pesante e di medio calibro. Vi sono dei 105,
dei 110, dei 115, dei 210, e vi è anche un 305. Il nemico ha temuto
forse uno sfondamento delle sue linee verso il nodo stradale di Tarvis.

Le nostre batterie sono così nascoste che avviene spesso di passarvi
vicino senza vederle. La loro presenza è annunziata da bivacchi,
fumiganti di cucine come immensi campi di tribù zingaresche, da
affollamenti di artiglieri fra tende e baracche disseminate in
selvaggi angoli di valli, da un movimento più attivo di carreggi e di
salmerie nelle retrovie, da parchi di furgoni e di pesanti carrelli da
trasporto, da file di muli e di cavalli alla corda nereggianti sotto a
lunghe tettoie nel greto di qualche torrente. Sui veicoli, sui tetti,
sulle tende tutto un intreccio mascheratore di fronde ha un'apparenza
di addobbo rustico che rallegra come il preparativo di una strana e
primitiva festività montanara. Quando si arriva a questi centri di
attività, adornati spesso da bizzarri giardini, con viali e aiuole
nelle quali delle pietre colorate, disposte ad arte, sostituiscono
i fiori per formare disegni, e sigle, e emblemi, si cercano con lo
sguardo, tutto intorno, i cannoni. Bisogna, per scovarli, che qualcuno
li additi.
Allora vi accorgete che dal folto di un roveto sporge appena una
gran gola di acciaio. Quello che avevate scambiato per un rigoglioso
e inestricabile ciuffo di giovani abeti, è un obice. Un boschetto
di arboscelli e di sterpi verdeggianti è un cannone grosso come una
locomotiva. Pezzi, affusti, piazzole, casamatte, riservette, tutto è
affondato nel terreno e nelle vegetazioni. Nella guerra moderna chi si
nasconde meglio è il più forte.
Per battere bisogna scorgere. Artiglieria vista, artiglieria
silenziata. La situazione di una zona può dipendere da un uomo e da un
filo telefonico. Uno sguardo che si affacci e che scruti, un telefono
che trasmetta, e la solidità di un fronte può essere compromessa.
La vera guerra, in certi settori, è fatta dagli esploratori, dalle
vedette, dagli osservatori. Sono loro, quei pochi uomini annidati
su vette, che in fondo veramente combattono. Combattono con armi
formidabili, lontane chilometri e chilometri da loro, ma che essi
dirigono. Per loro, per quello che vedono e dicono, delle forze
cieche si muovono, dietro, nelle valli e sulle alture, e agiscono.
L'osservatore che sorprende una preparazione nemica e la fa disperdere
con una raffica di granate da batterie che nulla scorgono, e che
conduce i tiri di un bombardamento niente altro che pronunziando delle
cifre in un ricevitore telefonico, è il fantastico guerriero della
nostra epoca.
È lui che assesta i colpi, che sbaraglia e distrugge, ed egli deve
talvolta sentire l'orgoglio di poter scagliare, lui inerme, la precisa
violenza della guerra sul punto che il suo giudizio e la sua volontà
hanno definito.
Da qui il valore di certe cime, quasi irraggiungibili, dalle quali non
potrebbe arrivare neppure un colpo di fucile. Insediare un cannocchiale
vale alle volte assai più che insediare una batteria. Si sono avute
delle azioni importanti per sloggiare un minuscolo posto di vedetta.
Battaglioni e cannoni erano paralizzati momentaneamente dallo sguardo
di un uomo. E dei bombardamenti, dei combattimenti, avevano, si può
dire, un uomo per obbiettivo.
In Val Dogna, ai primi tempi della guerra, quando vi avevamo piazzato
delle artiglierie, ora spostate, che bombardavano certe posizioni
vicine a Malborghetto nella Val Fella, pareva di essere sicuri dalle
osservazioni nemiche. Ma un giorno, improvvisamente, cominciarono a
piovere granate intorno ai nostri pezzi. Fu una di quelle granate che
mandò in aria l'alpino. Il tiro, accurato, doveva esser diretto da
gente che vedeva. Ma dove poteva nascondersi? Cerca, cerca, da punta a
punta, da cresta a cresta, finalmente si scoprì qualche cosa sopra una
delle vette del Montasio.
Il Montasio che domina la valle da sud-est, una immane rupe che tocca
quasi i duemila e ottocento metri d'altitudine, dalle forme ardite
e strane, superbo e fosco, ha un versante austriaco e un versante
italiano. Era stato giudicato inaccessibile. Ma una guida austriaca,
pratica della regione, era riuscita a condurvi una scalata e stabilire
sulla punta un posto d'osservazione. Le nostre batterie erano là sotto.
Non rimase a lungo lassù, l'osservatorio austriaco. Dove va un tirolese
vanno cento alpini: dove va un alpino non va nemmeno il demonio.
All'alba i nostri ascesero la montagna da tre lati. Vi impiegarono
sette ore. Gli austriaci in vedetta non si difesero e non esitarono.
Temendo di essere circondati, fuggirono. Quando i nostri arrivarono
sulla vetta, in un rifugio improvvisato con sassi, trovarono un
telefono, degli strumenti ottici, un giornale e nel giornale delle
fette di salame. Gli uomini che dovevano essere due o tre, erano
scomparsi e giù per una balza oscillava la corda a nodi che era servita
alla loro discesa.
Da allora la vetta è occupata da noi, e l'artiglieria nemica, che non
vide più niente, tirò per qualche tempo a caso, poi smise. Avere un
osservatorio vuol dire talvolta comandare una valle. Noi dominiamo
una gran parte della vallata del Fella in territorio nemico, abbiamo
potuto distruggervi forti e ridotte, la teniamo quasi senza possederla,
soltanto perchè possiamo guardarla. Per avere un'idea dell'azione delle
moderne artiglierie, non bisogna dimenticare questi loro nuovi organi
indispensabili: gli osservatorî.
Ogni batteria ha una sua rete telefonica, lunga decine e decine di
chilometri. Sono i suoi nervi. Il cannone non potrebbe più vivere senza
il telefono. Ha bisogno di stendere molto lontano i tentacoli segreti
della sua sensibilità. Corrono sulle rocce, sugli alberi, sull'erba dei
prati, ora distesi sopra isolatori, ora gettati frettolosamente sulla
terra e sui roveti, i fili elettrici ai quali il rivestimento nero dà
un'apparenza da miccia. S'incrociano, si scavalcano, s'intersecano in
ogni direzione. Un dialogare perpetuo va per monti e per valli fra le
batterie e le vedette.
Quando il bollettino ufficiale ci parla di intensi bombardamenti, noi
non pensiamo agli uomini spintisi avanti, rannicchiati al riparo di
minuscole barricate di sassi, intenti a giudicare, calcolare, scrutare,
riferire, freddi, calmi, maneggiando delicati strumenti come in un
gabinetto di fisica, mentre intorno a loro è un inferno di esplosioni.
Il fuoco nemico li cerca.
Cerca loro prima di ogni altra cosa. Li cerca con urgenza, con furore.
Delle batterie intere non fanno altro. La lotta delle artiglierie
s'inizia sempre contro gli osservatorî. Durante il bombardamento del
forte Hensel i nostri posti d'osservazione erano come in un terremoto.
Non furono mai toccati, ma le rocce intorno sono tutte spezzate dai
colpi, che pareva dovessero svellere i rifugi da un momento all'altro.

Sempre in Val Dogna, scacciato lo sguardo nemico dal Montasio, non
ci sentivamo ancora interamente padroni nella casa nostra. Il nemico
si affacciava ad un altro punto, ed ogni movimento importante era
impossibile oltre Pleziche, alla metà della valle. Bastava che qualche
soldato passasse fra le boscaglie nel fondo della gola, perchè uno
scoppiare di granate chiudesse il passo. Gli austriaci erano sulla
Forcella del Cianalòt. Questa volta non si trattava di un osservatorio
soltanto.
Passato Pontebba, la valle del Fella, che la ferrovia percorre, dopo
aver risalito gli ultimi lembi montuosi dell'Italia, da sud a nord,
varcata la frontiera volge nettamente verso l'oriente. Parallela e
vicina a questo tratto austriaco della vallata del Fella corre la
nostra Val Dogna. Lo spartiacque fra le due valli segna il confine. È
tutta una lunga cresta aspra, nuda, cinerea, che irrompe maestosamente
dagli ultimi prati e gli ultimi boschi. Verso le vette salgono rari e
rudi sentieri che, scavalcando dei passi, allacciano le due valli. La
Forcella è uno di questi valichi. Tutta la cresta fu subito occupata
dai nostri, ma la Forcella, più in là della frontiera, era stata
solidamente fortificata dagli austriaci, da tempo prima della guerra,
e la tenevano con una risoluzione che indicava l'importanza da essi
annessa alla posizione.
La importanza derivava sopra tutto dal fatto che dalla Forcella
di Cianalòt, per il vano lasciato da due vette rocciose, si
osservava una parte della Val Dogna, paralizzandovi ogni azione.
La Forcella è un'insenatura fra i Due Pizzi — due punte: il Pizzo
Occidentale e il Pizzo Orientale — e il monte Pipar. Gli austriaci,
oltre all'insellatura, occupavano il Pizzo Orientale. Noi avevamo
l'Occidentale, avevamo il Pipar, alto, dirupato, vicino al Pizzo
Orientale, e, vicino al Pizzo Occidentale, avevamo la così detta
Tana degli Orsi, una montagna rocciosa, grigia, nella quale si aprono
caverne tenebrose capaci di dar ricovero ad intere compagnie, e che
le tradizioni della valle, eternate nel nome, indicano come gli ultimi
rifugi del gigantesco orso nero delle Alpi la cui razza è scomparsa.
Vista dal fondo della valle, pieno di un selvaggio arruffìo di
boschi, la Forcella del Cianalòt appare come un ripiano, una specie
di parapetto oscuro fra i pilastri delle vette. È vicino; il fuoco di
fucileria austriaco batteva il sentiero. Parlando di monti e di vallate
si conferisce un'idea di grandiosità e di distanza, ma qui, questi
pizzi e queste cime intorno al passo sono a portata di voce. I nostri
soldati avrebbero potuto dall'alto scagliar dei sassi nelle posizioni
nemiche. Ma le posizioni nemiche erano costituite da trinceramenti
in cemento armato, inattaccabili, precedute dal solido tessuto dei
reticolati.
Gli austriaci stavano tranquilli là dentro. Erano invulnerabili. Nè i
fucili nè i cannoni da montagna e da campagna potevano far loro alcun
danno. Non rispondevano nemmeno al fuoco dei nostri che li dominavano
inutilmente. Chiusi nella loro corazza, erano come il riccio sotto al
naso del mastino. Assalirli era impossibile senza aver prima demolito
le loro difese con l'artiglieria pesante, e gli austriaci, i quali
sapevano bene che la valle angusta e dirupata non aveva strade, si
sentivano perfettamente al sicuro dai grossi pezzi. Diamine, i cannoni
da assedio non volano.
Ma una mattina, alle sette precise, li sorprese un'esplosione
terribile. Fu il 30 di luglio. Una di quelle formidabili granate che
sembrano bolidi era scoppiata avanti alle trincee. Non ebbero il tempo
di riaversi. Dopo alcuni colpi di sistemazione, il bombardamento si
fece serrato, intenso, spaventoso. Il fragore delle detonazioni assunse
una continuità sconvolgente, era una catena di folgori, e la Forcella
del Cianalòt scomparve entro una eruzione terrorizzante di pietre,
di vampe, di detriti, di terra, di schegge, e il fumo balzava su a
colonne, a getti, a sprazzi altissimi, per fondersi in immani cumuli,
gialli, densi e pigri.
La violenza delle esplosioni era tale, che delle scaglie di roccia
grandinavano sulle nostre stesse posizioni. I soldati nostri dovevano
tenersi al coperto dietro alle anfrattuosità del Pizzo Occidentale, per
non essere colpiti dalle pietre che quel furore di fuoco proiettava
tutto intorno. I reticolati sparivano. Paletti di acciaio divelti,
ancora uniti da fili, roteavano in aria sibilando. Le trincee
di cemento erano qua e là intaccate, sbocconcellate, sbrecciate,
in qualche punto anche sfondate. Otto ore consecutive durò quel
fiammeggiante uragano di acciaio.
Alle tre del pomeriggio il bombardamento cessò.
Dietro ai ripari i nostri soldati aspettavano quel momento, il
fucile nel pugno, la baionetta inastata. Nel silenzio improvviso
echeggiò l'urlo possente dell'assalto. Dalle vette le nostre truppe
precipitarono giù follemente, a salti, a balzi. «Pareva — dicono gli
ufficiali — una frana d'uomini». Una frana grigia, tumultuosa, vivente,
ululante.
I più agili arrivarono prima. La discesa disseminò i reparti. Si vide
allora, avanti a tutti, a duecento passi dai compagni più vicini, solo,
un alpino atletico, che correva impetuosamente verso le trincee piene
di austriaci, intimando la resa, a gran voce.
La intimava in tedesco. Era uno di quei pazienti, forti e parchi
emigratori friulani che la miseria spingeva oltre le frontiere a
vivere di duro lavoro, trattati come esseri inferiori, come bestie
da fatica dall'insolenza germanica. Aveva sofferto ogni umiliazione,
l'oscuro _polentafresser_, ma non l'aveva dimenticata. Era arrivato
il suo momento. Aveva lui il comando ora: «Fuori tutti! Giù le armi!
Arrendetevi!» Egli era la Vittoria.
E prima che gli altri assalitori sopraggiungessero, avanti a quell'uomo
solo, decine e decine di austriaci sbucavano fuori, pallidi e inermi,
con le mani levate. Da ogni uscita i prigionieri emergevano, a uno
a uno, con delle facce attonite e convulse. Furono presi centoventi
soldati prigionieri e sette ufficiali. Oltre cento cadaveri nemici
insanguinavano i cunicoli delle trincee. Il bombardamento aveva
inebetito gli austriaci. Alcuni dovevano essere sorretti. Erano tutti
sbalorditi e inerti.
Mentre la lenta carovana dei vinti cominciava a scendere dalle alture,
il nostro cannoneggiamento riprendeva, battendo più lontano della
Forcella. Sbarrava il passo ai contrattacchi. Si combatteva anche più
a ponente, ma si trattava di una nostra finta. Preparando l'assalto del
Cianalòt, un'azione accennava a volere aprirsi il passo nella valle del
Fella scendendo verso Lusnitz. Conquistato il nostro vero obbiettivo,
verso il tramonto, si rifece la quiete.
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