Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 21

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trincea si potè seguire da lontano. Si vedevano gli uomini inerpicarsi
urlando, si vedeva lo sparpagliamento veemente e disordinato delle
masse di attacco che salivano, miriadi di puntini grigi, si vedevano
le seconde file rincalzare le prime file assottigliate, e l'azione
pareva eterna. Al di qua del ponte di Sagrado, dietro ad un parapetto,
tre strani piccoli ufficiali vestiti in uniforme _khaki_, guardavano
immobili, con i pugni stretti, lanciando enfatiche esclamazioni
gutturali.
Erano gli _attachés_ giapponesi. Quando videro l'assalto sparire oltre
la trincea nemica, ingolfarsi nel bosco, si voltarono indietro, verso
degli ufficiali italiani che osservavano gravi e commossi, e agitarono
le braccia con un gesto di entusiasmo e di stupore, gridando: «_C'est
grand! C'est grand!_» Avevano rivisto la mitraglia umana di Porto
Arturo.
Questo avveniva il 25 di luglio. Avevamo messo quasi un mese a giungere
lassù. Due giorni dopo aver preso Sagrado eravamo a Castello Nuovo,
al bordo dell'altipiano sopra al paese. Doveva essere in antico uno
dei castelli intorno ai quali, su quelle stesse pendici del Carso,
tre secoli fa Venezia si batteva con gli Arciducali nella guerra
«Gradiscana». Poi il castello è divenuto una villa, circondata da
cipressi. Adesso la villa è crollata, la battaglia ha cancellato tutto.
L'occupazione di Castello Nuovo faceva cuneo, puntava in avanti nel
centro della fronte carsica. Gli austriaci sferravano attacchi su
attacchi su quel vertice d'avanzata, che era per noi un premio al quale
si appoggiava la progressione lenta e faticosa delle ali.

Ogni notte era un assalto. Ve ne sono stati dodici contro quel punto,
che appariva sempre avvolto di fumo. Le trincee austriache, coperte,
blindate, protette, erano a cinquanta metri. Noi stavamo dietro a
parapetti provvisorî, coronati di sacchi. Da una parte all'altra si
parlavano, fucilando. Allora nacque, non si sa come, il soprannome
di Cecchino dato ai tiratori scelti austriaci, i quali, muniti di
fucili a cavalletto con alzo a cannocchiale, stavano eternamente alla
posta. Anche noi avevamo i nostri Cecchini, sempre in mira, la guancia
contro al calcio. I colpi erano commentati ad alta voce. Un giorno
uno dei nostri sbagliò per due dita la testa di un austriaco che
si era avanzato quatto quatto e si disponeva a sparare; l'austriaco
ritraendosi agitò in aria il fucile facendo quella segnalazione che
in tutti i bersagli del mondo significa «zero»! Si rise dalle due
parti. Più spesso erano ingiurie. Una sera pioveva a dirotto, l'acqua
scorreva dietro ai nostri parapetti, e dalla trincea austriaca, chiusa
e asciutta, una voce di scherno gridò nel dialetto dalmata: «_I fevi i
piediluvi, can de taliani?_» Rispose un coro d'invettive che deve aver
dato al nemico l'impressione d'un grido di assalto, perchè aprì subito
il fuoco. Ma questa è la vita di tutte le trincee.
L'avanzata vera, sistematica, perseverante, vigorosa, cominciò ai primi
di luglio. Il centro era piantato solidamente su Castello Nuovo, la
destra saliva verso il Monte Sei Busi, la sinistra verso il Monte San
Michele.
L'offensiva si scatena allora su tutti i fronti, preme sul Podgora,
minaccia i ponti di Gorizia, ma è al Carso che tende con volontà
intensa. L'azione non vi ha sosta. Ogni notte dei reticolati saltano,
ogni giorno delle trincee sono prese. Il nemico si rinforza, concentra
nuove batterie di medi calibri nel vallone di Doberdò, contrattacca per
tutto, cerca di profittare della vulnerabilità e della debolezza che
hanno le posizioni appena prese, quando ancora non c'è stato tempo di
farvi i lavori di consolidamento, e vi dirige assalti su assalti. Ma
niente ci smuove, teniamo le trincee espugnate, progrediamo sempre.
La lotta era accanita. Il nemico non rifuggiva dai mezzi più sleali,
dalle false rese che nascondevano mitragliatrici appostate, dalle
false bandiere della Croce Rossa issate su batterie o su comandi, era
feroce quando non era in fuga. Non permetteva di raccogliere i feriti
caduti fra le due fronti, e non raccoglieva i suoi. Una mattina uno
dei nostri generali doveva far cominciare un bombardamento di calibri
pesanti per aprire il varco nel reticolato di un trinceramento che ci
era di fronte; ma proprio sotto a quel reticolato che stava per essere
sconvolto da una bufera di esplosioni, giaceva un ferito nostro. Di
tanto in tanto si vedeva un lieve gesto del suo braccio. Vicino a lui
due cadaveri. Erano caduti durante un tentativo notturno.

Il generale, che era in trincea per sorvegliare gli effetti del
bombardamento, guardava la scena pensieroso. L'ora fissata per l'azione
dell'artiglieria scoccava. Egli non dava ordini. Poi, chiamò un
ufficiale e fece parlamentare col nemico.
«Lasciateci raccogliere i nostri feriti e i nostri morti!» — gridò
dalle nostre trincee una voce al megafono. Nessuna risposta. «Faremo
uscire dei portatori nudi perchè vediate che non è un tranello!» —
soggiunse la voce. Nessuna risposta. Le stesse frasi furono gridate
in tedesco. Silenzio. La trincea nemica pareva deserta. Quattro
portaferiti con le barelle vennero fatti inoltrare. Una scarica di
fucilate li accolse appena usciti. Due di loro rimasero colpiti. L'ora
era trascorsa. Le batterie pronte aspettavano il segnale telefonico per
iniziare il tiro convenuto. Il generale si passò una mano sulla fronte,
guardò l'orologio, si volse all'ufficiale d'ordinanza, gli trasmise un
ordine. E il fuoco cominciò.
Il varco fu aperto nei reticolati. Il segno che la batteria era
spezzata venne dal nemico. Si vide un gruppo di austriaci balzare fuori
della trincea e precipitarsi per un passaggio creato dalle nostre
granate attraverso la siepe di acciaio. Venivano giù in fila, senza
fucile, correndo, le mani in alto. Si arrendevano.
Erano venticinque. Profittavano di una sosta fra il cannone e la
baionetta. Ma il cannone non aveva finito. Riprendeva in quel momento
il suo lavoro di demolizione. Una granata cadde in mezzo al gruppo.
Dalla nostra trincea si scorse distintamente lo spettacolo atroce di
corpi umani smembrati lanciati in aria nella eruzione di terra, e di
fumo dello scoppio. Era come una di quelle esplosioni inverosimili
che si vedono raffigurate nei giornali illustrati. Terrorizzati,
insanguinati, lividi, i superstiti arrivarono alla posizione italiana.
Non erano più che sedici. Il destino aveva fatto giustizia.
Lo spettacolo di queste rese era comune. Una volta verso Castello
Nuovo si vide venire avanti un mezzo battaglione austriaco, agitando
fazzoletti, con le braccia levate: cinque o seicento uomini, una folla
veloce sormontata da un turbinio chiaro di mani. Cessò il fuoco delle
nostre trincee e si fece un silenzio di attesa. Ma quella massa non
aveva percorso la metà della strada che la separava dai nostri, quando
cominciò su di lei un fuoco di _shrapnells_ austriaci, serrato, esatto,
rabbioso, che la seguiva passo passo. Cadevano giù a gruppi i fuggenti
colpiti, costellavano la terra di corpi. Centoventi soltanto poterono
giungere a consegnarsi. Certe volte si direbbe che i reticolati servano
assai più a trattenere gli austriaci dal rendersi che a difender loro
dai nostri assalti.

Il cannoneggiamento furibondo, insistente e preciso che preparava gli
attacchi delle nostre fanterie, sbalordiva e accasciava il nemico
nelle sue trincee. L'assalto spesso lo trovava inerte, sperduto. I
nostri primi reparti arrivavano, intimavano la resa, e continuavano
l'attacco, andavano oltre, lasciando alle seconde linee la cura di
raccogliere i prigionieri e di spingerli giù, verso le retrovie. Gli
ufficiali austriaci, che non stanno con i loro uomini, perdevano ogni
controllo di comando. Dietro ad ogni trincea nemica, lontano dieci o
quindici passi, vi sono dei minuscoli ricoveri; delle buche blindate;
nella trincea sono i soldati, nelle buche gli ufficiali. La truppa
non può muoversi, presa come è fra i reticolati e le pistole dei suoi
superiori. Sapiente disposizione.
I primi tempi i nostri soldati, intenti alla trincea, non badavano alle
tane dei comandi che erano alle spalle, e proseguendo incalzanti alla
conquista delle linee successive erano spesso feriti da misteriosi
colpi a bruciapelo. Poi impararono. Correvano dritti alle buche,
e affacciando la punta della baionetta nell'apertura, ponevano
all'abitatore rannicchiato nell'ombra questo semplice dilemma: «Fuori
le mani, o spingo!» Venivano fuori le mani. Dopo le mani spuntavano
le braccia, e dopo le braccia emergeva il resto di un elegante
_oberleutenant_ al completo, pallido ma dignitosamente rassegnato.
Una mattina un capitano austriaco, rimasto inosservato nel suo covo
mentre l'assalto passava, tirò un colpo di pistola ad un sergente
nostro che seguiva il suo plotone. Il sergente, illeso, si fermò e si
guardò intorno. Una seconda palla lo sfiorò. Allora egli vide. Non fece
fuoco, rivoltò il fucile, balzò addosso all'ufficiale, lo tramortì con
un colpo di calcio, se lo caricò sulle spalle e lo portò giù, al posto
di medicazione. Qui, alle prime cure il capitano austriaco rinvenne, e
andò su tutte le furie. Smaniava, mostrava i pugni al sergente, che lo
guardava sbalordito da dietro le spalle dei medici, rotava gli occhi
e bestemmiava, in tedesco. Non era furioso per essere stato fatto
prigioniero, o per avere perduto la posizione. La causa della sua ira
era più grave: «È la prima volta — gridava — la prima volta nella mia
vita che manco un uomo al secondo colpo!» Il sergente fece un passo
avanti, salutò cerimoniosamente e gli disse: «La ringrazio tanto per la
eccezione!» E se ne andò fischiettando.
Storie di prigionieri, di rese, di catture, sono innumerevoli. In
quei giorni operava sul Carso una famosa batteria da campagna che
era conosciuta dalle truppe precisamente col nomignolo di «batteria
dei prigionieri». Aveva la specialità di catturare gli austriaci a
mezze compagnie per volta, da sola. Nelle nostre linee arrivavano
all'improvviso bande di nemici che si arrendevano, adunati e condotti
dal fuoco dei cannoni. Quando la batteria scorgeva dei nuclei nemici
in ritirata, li fermava con barriere di esplosioni, li costringeva a
cercare uno scampo nel ritorno, li accompagnava, li sospingeva con una
minacciosa siepe di _shrapnells_, non permetteva loro che deviassero,
lasciando così una sola via aperta alla loro marcia, quella della resa.
Gli austriaci incalzati, incapaci di mantenere il terreno ad onta della
tremenda preparazione difensiva, meditarono un gran colpo. Divisioni
fresche arrivavano continuamente dalla Galizia a rinforzo. Fin dal
10 di luglio grandi masse nemiche venivano adunate per una offensiva
generale e risolutiva. In quell'epoca cominciò a notarsi appunto
l'entrata in azione di numerose batterie pesanti. Per sloggiarci
dall'altipiano carsico pensarono di sviluppare l'attacco principale
contro la nostra ala sinistra.
Appariva infatti in quel momento la più vulnerabile. Una volta forzata
la sua estrema punta sull'Isonzo, un ripiegamento di tutta l'ala
sinistra poteva essere provocato. Ripiegare sotto la pressione di
un'offensiva possente significava, con molta probabilità, ripassare il
fiume. Sarebbe stata la perdita dei ponti, l'annullamento dei risultati
ottenuti con sforzi meravigliosi durante quasi due mesi di lotta
tenace, il ritorno al principio in condizioni ben più difficili per
una ripresa dell'offensiva. La nostra destra invece aveva Monfalcone
come sentinella estrema, e un attacco contro di essa, anche fortunato,
non avrebbe ottenuto un resultato definitivo quale quello di ridare il
pieno controllo dell'Isonzo. Il piano austriaco era dunque perfetto,
come sono perfetti tutti i piani prima che falliscano.
Al mattino del 22 luglio il grande attacco austriaco si sferrò. Tutta
la notte delle offensive minori avevano tastato la nostra fronte,
forse per riconoscerla, forse anche per stancare le guarnigioni e
trovarle più deboli e meno pronte all'urto che si preparava. Numerosi
generali comandavano il movimento offensivo, fra i quali il principe
di Schwarzenberg, il generale Boog, il generale Schreitter. L'azione
cominciò con un bombardamento formidabile.
Delle persone che osservavano le posizioni da lontano, le videro
letteralmente coprirsi di fumo. Si ovattavano tutte di nubi di
_shrapnells_. Il rombo intenso della cannonata non affievoliva un
istante. Pareva impossibile che si potesse resistere in quell'inferno.
Si aveva l'impressione angosciosa che fosse un fuoco di sterminio.
Improvvisamente si svegliò un tuono più alto, più violento, più vicino:
le nostre artiglierie entravano in azione. Per qualche tempo il fumo
dei colpi avvolse gli stessi punti. Poi, ad un tratto, parve che gli
_shrapnells_ austriaci battessero più in là, che i cannoni nemici
raccorciassero il tiro; l'uragano si allontanava, si videro i nostri
colpi spostarsi subitamente, andare lontano lontano. Si comprese che
facevano un fuoco d'interdizione, che chiudevano la strada ad un nemico
in fuga.
L'attacco era stato dato con dense e profonde formazioni, a grandi
masse. Erano arrivate impetuose quando la preparazione delle
artiglierie nemiche poteva far credere di avere decimato ed estenuato
la difesa. Ma una delle più belle qualità del nostro soldato è la
resistenza morale al bombardamento. L'attacco si abbattè sulla prima
linea in piena efficienza, duramente provata ma pronta alla lotta.
La battaglia fu accanita. Le onde di assalto si formavano e si
riformavano, ma l'artiglieria nostra aveva avuto una prontezza fulminea
nell'intervenire in soccorso della fanteria. Il suo fuoco era di una
precisione spaventosa; molti dei punti sui quali si concentrava il
tiro erano in diretta visione delle batterie. Lunghi tratti del campo
di battaglia si prospettavano in declivio avanti ai cannoni, che
scrivevano i loro colpi come sopra una lavagna. Si poteva portare il
fuoco a cinquanta, a quaranta metri dalla nostra linea, senza timore
di toccarla. L'assalto non trovava un limite di liberazione, oltre il
quale l'artiglieria è paralizzata.
La fucileria aveva l'intensità continua di uno scroscio di cateratta, e
lo strepito regolare delle mitragliatrici pareva il battito meccanico
di un immenso opificio. Ad ogni sbalzo in avanti le file nemiche
erano falciate. Si vedevano gli uomini fulminati nella corsa cadere
roteando su loro stessi, e le braccia aperte. L'impeto dell'assalto era
spezzato. L'attacco violento declinava in un'azione lenta. La spinta
si faceva pressione. Intanto i nostri rincalzi erano in marcia, avevano
passato i ponti, si ammassavano dietro al combattimento, portavano alla
prima linea una nuova pienezza di vigore. E la controffensiva nostra si
sferrò, vigorosa, improvvisa, travolgente. Allora la nostra artiglieria
spostò il tiro, battè alle spalle del nemico, lo serrò fra le granate
e le baionette, e fu la fuga disordinata degli austriaci, la resa di
interi reparti, la rotta. La vittoria era nostra.
Il terreno era pieno di cadaveri nemici. Di quando in quando dalle
cavità, nelle doline che parevano deserte, si vedevano apparire
piccole file caute di austriaci, curvi sotto al loro grosso zaino,
plotoni di dispersi in cerca d'uno scampo, e la mitragliatrice intimava
loro l'alto là. Il soldato che perde lo zaino è punito nell'esercito
austriaco legandolo ad un palo, con i piedi ad un palmo dal suolo,
le mani avvinte dietro il dorso, e per alcune ore è lasciato così a
meditare sulla santità del corredo governativo. Questa venerabile
costumanza ha prodotto una indivisibilità mirabile fra il soldato
austriaco e il suo bagaglio. Nelle più critiche circostanze, zaino
e soldato sanno rimanere insieme. L'uomo può perdere la testa, può
perdere la battaglia, può perdere la vita, ma non il sacco. Si assiste
talvolta ad atti di eroismo disperato per la riconquista di uno zaino,
abbandonato in un momento di fretta imperiosa e imperiale. Dei feriti
a morte, agonizzanti quasi, ai quali nella caduta è sfuggito dalle
spalle il carico regolamentare, strisciano a riprenderlo, arrivano ad
afferrare a fatica una cinghia, la tirano a loro con le ultime forze. E
muoiono così nel pensiero di un ideale raggiunto.
Il grande attacco austriaco naturalmente ci portò più avanti. Per
ostacolare il nostro consolidamento sulle nuove posizioni, altri
attacchi arrivarono il giorno dopo. La nostra ala destra fu alla sua
volta investita. Ma il 25 luglio tutta la nostra fronte riprendeva
l'offensiva, paziente, tenace e violenta. Mentre l'ala sinistra
conquistava quel Bosco Cappuccio che non ha più alberi sui suoi bordi
sconvolti, il centro si avvicinava a San Martino del Carso, e la
destra espugnava una gran parte del Monte Sei Busi, verso Doberdò, le
cui case bianche si affacciano spaurite al di sopra di un nereggiare
di boscaglia. Il Monte Sei Busi era stato già preso, poi riperso,
poi ripreso, poi riperso. Si concentravano sulla vetta troppi tiri
di artiglierie, che non davano il tempo di consolidarsi. L'azione
generale distolse da quella sommità una parte del fuoco che la batteva,
permise agli assalitori di resistere, di lavorare, di organizzarsi
e di reggere. Cominciavamo a dominare finalmente tutto un lato
dell'altipiano, fino al Vallone, dietro a Doberdò, fino al laghetto.
Il Bosco Cappuccio e la boscaglia della spalla di San Martino, erano
pieni di trincee, di reticolati. Vi infuriarono combattimenti furibondi
a colpi di granate alla mano e di baionetta. Furono spesso lotte a
corpo a corpo, avvinghiamenti, sotto ad un roteare di calci di fucile
che cadevano a mazza. Le bombe asfissianti del nemico allungavano fra
gli alberi il loro fumo persistente, denso, verde, vischioso. Dalle
nubi velenose i nostri emergevano terribili, coperti dalle maschere di
guerra che mettono sul viso l'apparenza mostruosa di una enorme bocca
inumana.
Si combattè il giorno, si combattè la notte, si combattè il giorno
appresso. La sinistra era salita sul San Michele. Contro di lei si
volsero i cannoni di Gorizia. La montagna pareva in eruzione. I nostri
non volevano lasciar presa. Erano decimati ma resistevano. Rimasero
fino alla notte sulla vetta battuta da uragani di acciaio. Quando
ripiegarono, si gettarono contro delle trincee laterali, andavano
in cerca di combattimento. E arrivarono dalla vittoriosa ritirata
sospingendo una massa di prigionieri. Oltre cinquemila prigionieri
erano stati catturati in tre giorni, con duecento ufficiali austriaci.
Alla destra ci piantavamo definitivamente sul Monte Sei Busi.
Il 27 avanzò il centro. Il 28 il nemico contrattaccò con grandi
forze. Aveva ricevuto altre truppe fresche. Comparve in prima linea un
reggimento di Landschutzen. Non tornò più indietro. Un altro migliaio
e mezzo di uomini validi cadde nelle nostre mani. Avanzammo verso San
Martino. Il 29 gli austriaci tentavano di sloggiarci con l'incendio
dal Bosco Cappuccio. Delle fiamme sorsero qua e là nei roveti; furono
estinte.
Continuammo ad avanzare. Tutto un primo sistema d'opere difensive
era sfondato. Urtavamo sulla seconda linea, che fu attaccata dalle
artiglierie. Il centro progrediva e mandava indietro centinaia e
centinaia di prigionieri. Il 31 gli austriaci assalivano con vigore
il Monte Sei Busi, dopo aver tentato di stornare la nostra attenzione
con un'azione dimostrativa all'ala opposta. L'assalto fu fermato, e la
controffensiva nostra si sferrò alla sua volta, magnifica, impetuosa,
irresistibile, scompigliando, fugando, disperdendo le truppe più
scelte, e quasi un intero reggimento dei famosi Kaiserjäger rimase sul
campo.
Il 2 agosto, altro attacco austriaco contro al Monte Sei Busi. Quella
occupazione li molesta. Se il San Michele guarda in casa nostra il Sei
Busi guarda in casa loro. Vede e sorveglia, scopre le vie di approccio,
e colonne nemiche in movimento su strade, che erano state fino allora
invulnerabili, sono raggiunte ora dai nostri colpi di cannone, fermate,
disperse. L'attacco è respinto, e avanziamo. L'occupazione del Monte
si allarga. Anche il nostro centro progredisce. La nostra artiglieria
arriva a tormentare delle retrovie avversarie. Scopre Marcottini,
domina tratti nuovi di comunicazioni verso Devetachi. Strane località
ha il Carso, che portano nomi umani, veri cognomi che adesso ci fanno
l'effetto di appartenere a personalità misteriose e ostili: Marcottini,
Devetachi, Vizintini, Micoli, Ferleti, Bonetti, Boschini.... Perchè
sono dalla parte austriaca tutti questi italiani?
Il giorno dopo, nuova battaglia. Per frenare i progressi del centro,
alla mattina del 4 agosto gli austriaci sferrano un attacco contro al
Bosco Cappuccio. Si ripetono le fasi oramai consuete di resistenza e
di controffensiva. Il nemico è fermato, assalito, inseguito. Una enorme
trincea, che i soldati chiamavano il Trincerone, la quale chiudeva gli
sbocchi orientali del bosco, è presa così, di impeto. L'assalto vi
sale alle spalle dei fuggiaschi. Siamo agli accessi di San Martino.
Attacchi, contrattacchi, sorprese, combattimenti nella nebbia, nella
bufera, nelle tenebre di notti tempestose, nel chiarore di proiettori
e di razzi, si susseguono ogni giorno da allora, ma non hanno più
l'ampiezza di azioni generali. Sono imprese locali, battaglie d'una
dolina, assedi di una trincea, furori circoscritti. Andiamo avanti
sistematicamente, scalzando, incalzando, senza annunziare sempre i
vantaggi ottenuti, portando colpi di sorpresa, senza fermarci mai.
La lotta non ha soste, si restringe ma non langue, si sposta ma non
riposa.
Mentre dalle finestre sbrecciate di un vecchio edificio di Gradisca,
sul quale le pallottole grandinando formano come una tarlatura,
osservavo le posizioni, il fuoco che languiva ha ripreso, tutta la
vetta scrosciava di fucilate, e ricominciava sulla città deserta
una pioggia rada e scoppiettante di piombo. Raffiche di cannonate
passavano. Un combattimento breve divampava verso il San Michele.
La falda del San Michele era coperta da un folto bosco a semicerchio:
il Bosco a Ferro di Cavallo nella denominazione della truppa. Non
potrei descriverlo perchè il bosco non c'è quasi più. Lo vedono
soltanto i soldati, e lo indicano, perchè conservano nella loro memoria
profondi, netti e vivi gli aspetti dei luoghi nella prima apparenza, e
perchè le trasformazioni del paesaggio sono avvenute lentamente. Ma chi
arriva nuovo e ignaro, al posto del Bosco di Ferro di Cavallo vede, un
due o tremila metri lontano, un terreno scosceso rotto e frastagliato,
con dei sassi, e qua e là una lanugine gialla di rovi secchi e di
cespugli bruciacchiati. Più in alto, la vetta nuda del San Michele,
osservatorio del nemico, che ci scruta. Il bosco è così scomparso, e
vi si scorgono tutte le nostre trincee, che si tendono ad arco verso la
cima del monte, vicina, quasi raggiunta.
Dopo le battaglie di luglio il nemico aveva insinuato fra i roveti
dei piccoli posti, che alla notte lavoravano. Erano sorte così
delle trincee, che gli austriaci a poco a poco ampliavano; i piccoli
posti erano diventati avanguardie, e le avanguardie si disponevano a
trasformarsi in prima linea. Pochi giorni or sono, il 18 settembre,
assalimmo il Ferro di Cavallo. Le prime trincee furono occupate
di sorpresa; le altre furono espugnate a viva forza. Il nostro
bombardamento accecava il San Michele. Dei contrattacchi scesero, ma
i nostri hanno acquistato una tale destrezza nell'erigere i ripari,
che in pochi minuti una prima rudimentale opera di difesa è pronta.
Se l'austriaco ha una passione per lo zaino, il nostro soldato è
inseparabile dal suo sacco pieno di terra. Sale all'assalto col suo
fardello, e non lo lascia che per scaraventarlo sopra un parapetto
di fortuna e sdraiarvisi dietro. È avvenuto anche che lo abbia
scaraventato sulla testa dei nemici.
Le trincee formano un saliente che spinge arditamente all'attacco
del monte una testa arrotondata, la quale simula quasi quel ferro
di cavallo che il bosco non forma più. Si seguiva tutta la vita del
trinceramento, l'andare e il venire lento e indifferente dei soldati
dietro ai muri di riparo, l'affaccendarsi di lavoratori in opere di
rafforzo, e presso alle feritoie una immobilità statuaria di vedette
e di tiratori. Per un incamminamento salivano, calmi, a passo da
montagna, i portatori del rancio, con le loro pentole fumiganti.
In molti settori della guerra ho avuto una impressione di solitudini
truci immerse in paurosi silenzi sovrumani. Ma di fronte al Carso no.
Di fronte al Carso, in qualunque punto, si sente la massa che vive e la
guerra che palpita. Una ostilità martellante pulsa come una febbre. Si
direbbe che la nostra fronte toccando il mare attinga dall'Adriatico
vigori e impeti maggiori per avventarsi contro le alture feroci.
La battaglia non ha più date, è la battaglia del Carso, una lotta
gigantesca sugli spalti della immane fortezza che la sopraffazione ha
dato al nemico, e dalla quale a passo a passo è scacciato. Il rombo di
questa bufera è udito talvolta nelle città tranquille e lontane della
pianura veneta.
Nel buio profondo della notte di Udine a lumi spenti, pieno di uno
scalpiccio di gente che passa e non si vede, di un sussurrìo di voci
che pare vengano dai muri, in quelle tenebre strane nelle quali mormora
una vita quieta, invisibile, cieca, fra quei portici che la risonanza
sola rivela, per quelle strade opache e nere in fondo alle quali, come
un punto di bragia, scintilla una lampadina rossa che tinge un angolo
con un riflesso da laboratorio fotografico, per l'aria umida e fredda
arriva spesso un rimbombare remoto, un brontolìo di tuono. Nessuno
ci bada, il sussurrìo continua, la voce di un ragazzo si allontana
cantando. Si ha l'abitudine. È la battaglia del Carso che rugge. È un
passo avanti che si fa....

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